giovedì 9 aprile 2020

POPA CHUBBY - IT'S A MIIGHTY HARD ROAD (DIXIEFROG RECORDS, 2020)

A tre anni di distanza dall’ottimo Two Dogs, l’eclettico e iconico chitarrista Popa Chubby torna sulle scene per celebrare un trentennio di carriera, con un nuovo disco di inediti, che è a tutti gli effetti anche il trentesimo album pubblicato (live compresi), il primo in assoluto a essere rilasciato per la Dixie Frog Records.
Una storia, quella del chitarrista newyorkese, classe 1960, che annovera almeno un capolavoro imprescindibile (Booty And The Beast del 1995) e un filotto di album improntati a un suono meticcio, basato su una solida ossatura blues, ma imbastardito da inserti rock, soul, r’n’b, pop, jazz, hip hop, grinta da bassifondi e sfrontatezza da guascone. Non molla il colpo, Ted Horowitz, dimostrando che, oltre alla consueta esuberante attività live, voce e chitarra non mostrano ancora segni di invecchiamento, al pari di un songwriting che, pur non brillando per originalità, continua a mantenere standard qualitativi alti.
It’s A Mighty Hard Road non sposta di un centimetro la proposta musicale del corpulento chitarrista, che continua a miscelare generi, sfidando tutte le leggi della coerenza, ma riuscendo ancora una volta a sfornare l’ennesimo lavoro stranamente omogeneo, grazie a una mirabile visione d’insieme e a idee, che seppur replicate senza soluzione di continuità, continuano ad apparire fresche e centrate.
Si parte alla grande con lo shuffle di The Flavour Is In The Fat, una sorta di dichiarazione d’amore per il suo peso e la buona cucina, che fa muovere le chiappe e piace un casino per quei fraseggi di chitarra che riempiono ogni centimetro di canzone. La title track mostra i muscoli del rock blues, brano ruvido e diretto per raccontare le difficoltà che ognuno di noi affronta ogni giorno per sbarcare il lunario, e che testimonia quello che da sempre è il grande merito di Popa: evitare pipponi jammistici e sbrodolamenti di note, per andare subito al sodo, con pattern di chitarra asciutti e assoli brevi ma ficcanti.
Nel disco si alternano momenti sferzanti (i caracollanti swing di Buyer Beware e Why You Wanna Bite my Bones?) a brani che spostano il baricentro verso sonorità più morbide. Ecco, allora, spuntare in scaletta le sonorità vintage anni ‘70 del r’n’b di Let Love Free The Day, che gira dalle parti di Barry White, o il soul piacione di The Best Is Yet To Came, ballatone pieno di speranza suonato in punta di plettro.
Come al solito, i dischi di Chubby riservano anche delle sorprese, dovute alla cromosomica incapacità di Horowitz di restare all’interno di schemi prefissati. Così, come in altre occasioni, in alcuni momenti il blues viene accantonato, per abbracciare generi completamente diversi, con risultati, però, non sempre brillanti. Gordito, per dire, è la classica ballata dai suoni latini, che abbiamo già ascoltato nei dischi di Santana almeno un centinaio di volte, mentre la successiva e più convinta Enough Is Enough apre a scenari reggae, con risultati leggermente più originali. Due pezzi, comunque, non disprezzabili, ma decisamente i più deboli del lotto.
Chiude il disco la cover di Kiss di Prince, con cui Popa omaggia, con la consueta classe, uno dei musicisti che da sempre lo hanno maggiormente ispirato. La degna conclusione per un dischetto che ha il grande merito (e forse l’unica pretesa) di regalare all’ascoltatore un’ora di divertimento assicurato. Tecnica, cuore ed entusiasmo: ecco i motivi per cui Big Chubby è sulla cresta dell’onda da un trentennio.

VOTO: 7





Blackswan, giovedì 09/04/2020 

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