Cosa
spinge un essere umano a togliersi la vita? Quale dramma interiore,
quale dolore, quale alienazione dalla realtà è così pressante e invasiva
da condurre qualcuno al suicidio? Sono queste le premesse che hanno
spinto Michael Stipe a scrivere il testo di Everybody Hurts, una delle canzoni più note e più belle dei R.E.M., composta da Bill Berry, ma accreditata poi a tutta la band.
La canzone è la quarta traccia di Automatic For The People (1992), seguito del milionario (in termini di vendite) Out Of Time
(1991), da cui però si discosta quasi per tutto: il mood malinconico,
l’impostazione acustica, il rinnegamento della vitalità pop rock che
animava il predecessore, in nome di una ballata amara e intimista.
Mentre
il mondo è attraversato, da un polo all’altro, dalla trasandata potenza
elettrica del Seattle Sound, Michael Stipe e soci scelgono la strada,
più impervia, dei toni sommessi e della riflessione esistenziale. Un
disco epocale, certo, ma che mette a dura prova la tenuta della band: un
anno di lavoro, cinque diversi studi di registrazione (New Orleans,
Woodstock, Miami, Atlanta e Seattle) e un clima arroventato da continui
litigi su come arrangiare e mixare il disco (in studio, supervisiona e
indirizza John Paul Jones, ex Led Zeppelin). Il risultato è comunque un
filotto di gemme di rara bellezza, alcune delle quali destinate a
contornare per sempre l’iconografia leggendaria del gruppo georgiano.
Tra queste, come accennato, spicca Everybody Hurts,
ballata agrodolce che parla di suicidio, o meglio di resistenza al
desiderio di farla finita. Se, infatti, il titolo è ambiguo (Everybody Hurts può significare, al contempo “tutti fanno male” ma anche “tutti provano dolore”), non lo è certo il testo, uno dei più semplici, lineari e diretti mai scritti da Stipe, che si chiude con un reiterato Hold On!, invito a resistere ma anche afflato di compassionevole solidarietà, ribadito, poi, anche in quel verso, “Oh no, you are not alone…”, preso in prestito da Rock’n’Roll Suicide di David Bowie.
La
canzone, che fu adottata dallo stato americano del Nevada, che ai tempi
deteneva il primato angosciante di suicidi fra i giovani, è stata
coverizzata innumerevoli volte, in primis dall’amica Patti Smith, ma
anche da Joe Cocker, Annie Lennox e soprattutto dai Coors, la cui
versione, strano a dirsi, è intensa e struggente come l’originale.
Blackswan, giovedì 02/04/2020
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