Gli
studi classici da bambina, l’innamoramento per i Deftones e il metal
più estremo, una chitarra trovata per strada, le prime composizioni, un
omonimo Ep e, poi, il salto di qualità, con un vinile 10” intitolato Exit In Darkness
e composto in collaborazione con la band giapponese di post rock dei
Mono. Sono queste le tappe della breve carriera di A.A. Williams,
giovane londinese che con Forever Blue, esordio pubblicato via Bella Union, si cimenta finalmente sulla lunga di stanza.
Otto
canzoni per quaranta tre minuti di lunghezza, in cui la giovane
songwriter mette a frutto i suoi studi e la passione per il rock più
sperimentale. Fin dal primo ascolto del disco, infatti, si colgono
influssi di band quali i citati Mono, i Rachel’s, gli Explosions In The
Sky, i Sigur Ros e i Cult Of Luna, ricollocati in un contesto sonoro in
cui emergono anche tessiture di classica contemporanea e aperture a un
folk livido e crepuscolare. Sarebbe però assai riduttivo inquadrare
questo esordio attraverso le sue fonti d’ispirazione: nel disco,
infatti, emerge tutto il talento di una giovane artista che scrive
grandi canzoni e ha tante cose da dire attraverso la propria originale
visione artistica.
Forever Blue
è in primo luogo la rappresentazione perfetta della drammatica liturgia
dei nostri tempi, la spettrale fotografia di un mondo alla deriva e
senza speranza, un epicedio sulle macerie di un’umanità destinata a un
lento viaggio verso la profondità degli inferi. Su tutto regnano tanatos
e un senso incombente di afflizione e di resa, le atmosfere sono cupe e
sprofondate nell’ombra, e i rari momenti di estasi sono un fugace
sguardo che tende all’assoluto.
La
struttura dei brani è quella classica del post rock: trame melodiche
intrecciate lentamente, una fase centrale di stasi contemplativa e
quindi il ricorso al climax per creare un effetto di progressione che
enfatizzi il tema melodico suggerito all’inizio.
Il disco si apre con All I Asked For (Was It To End),
ballata per piano e voce dall’impianto molto classico, che lentamente
acquisisce maggior respiro attraverso un arrangiamento d’archi, il
raddoppio della voce e il tetro metronomo della batteria. Un brano
malinconico e pregno di afflizione, come evidenziato dallo splendido
video che accompagna la canzone: la morte come dissolvimento materiale e
ritorno all’humus della terra, la carne che torna a essere parte del
tutto, in una rappresentazione sonora che evoca i versi di Sylvia Plath
di Io Sono Verticale. Una canzone che è il punto di partenza
per tracciare la perfetta circonferenza di un cerchio che si chiude con
la delicatezza vaporosa della conclusiva I’m Fine, ballata per
pianoforte e voce, accarezzata da un languido violoncello e attraversata
da un esile raggio di sole evocato nel cinguettio finale degli uccelli.
All’interno di questo percorso circolare, aperto e chiosato dai due momenti più “leggeri” del disco, si sostanzia una parte centrale in cui si raggrumano tensione e drammaticità. Il basso che apre Melt
sono passi nel cuore della notte maligna e dissonante, la voce della
Williams è una corda tesa nell’abisso tremante, che si spezza poi, nel
battente sconquasso che chiosa il brano in un crescendo di pathos tanto
caro ai Sigur Ros. Il lamento e la lentezza esasperata di Dirt,
cantata in duetto con Tom Fleming dei One True Pairing, sanno di terra
brulla e riarsa, di sogni spezzati e di desolazione senza fine. La
stessa desolazione che attraversa Fearless, sprofondo
definitivo nelle viscere della terra, che suona come un’illustrazione
dell’inferno dantesco fatta da Gustave Dorè. Una canzone di una mestizia
infinita, romantica rappresentazione di un mondo ultraterreno che altro
non è se non la fotocopia della realtà, qui enfatizzata dal tocco
orrorifico del growl di Johannes Persson dei Cult Of Luna, presente come
ospite.
Suona grave e disperata anche Glimmer,
la cui melodia di bellezza spettrale è schiacciata dal peso di un cielo
plumbeo e senza stelle, mentre il cantato austero, quasi ieratico della
Williams in Love And Pain, imprigionato dai magli di un basso metallico e arcigno, trova sfogo in un crescendo a volute che vibra di ascensione mistica.
Prima del finale c’è spazio per la malinconia senza appello di Wait,
extrasistole di un cuore sul punto di spezzarsi in un’ipnotica spirale
discendente che trasfigura la speranza in una pallida chimera. Su tutto
incombe, pervasivo, un senso di imminente e devastante tragedia.
Forever Blue
è al momento il miglior esordio dell’anno, un disco complesso e
fascinoso, contornato da una tristezza che non evapora nemmeno di fronte
ai rilucenti colori e alla frivolezza che accompagnano l’estate. Un
ascolto che, proprio per questo, si fa straniante, un po' come ascoltare
Pornography dei Cure sotto l’ombrellone a Riccione: la pece nera di un
dolore interiore e tangibile prende forma sotto l’azzurro cristallino
del cielo. Ciò non toglie nulla alla bellezza di un disco destinato a
essere annoverato fra le cose migliori di questo 2020. E sarà bello
riascoltarlo quando fuori tutto sarà pioggia, nebbia e oscurità, e
l’autunno saprà regalare nuove sfumature a queste otto, bellissime e
disperate canzoni.
VOTO: 9
Blackswan, lunedì 13/07/2020
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