venerdì 26 febbraio 2021

PREVIEW

 


I MANCHESTER ORCHESTRA annunciano il nuovo album THE MILLION MASKS OF GOD, in uscita il 30 aprile su Loma Vista Recordings. Guarda il video del nuovo singolo "Bed Head".

 


 

Blackswan, venerdì 26/02/2021

giovedì 25 febbraio 2021

JD SIMO - JD SIMO (Crows Feet Records, 2020)

 


Quello di JD Simo è forse un nome poco noto dalle nostre parti, nonostante sia già un beniamino di tanti appassionati di blues rock, soprattutto come leader dei Simo, power trio che ricordiamo per il bellissimo Let Love Show The Way del 2016. Questo nuovo lavoro, uscito a fine agosto dello scorso anno, segue Off At 11 (2019), e benchè intestato al solo chitarrista, si tratta in realtà di un ulteriore album della sua band, composta dal fido batterista Adam Abashoff e dalla bassista Andraleia Buch, che ha preso il posto di Elad Shapiro.

Il set, dieci canzoni in tutto, cattura il chitarrista in un momento di notevole ispirazione. Nonostante l’ancor giovane età (quest’anno sono trentacinque), JD ha alle spalle una carriera da veterano, iniziata quasi vent’anni fa. Nativo di Chicago, ma attualmente vive a Nashville, nel Tennessee, Simo compone, suona e produce album altrui, ha già lavorato con grandi nomi tra cui Jack White, Tommy Emmanuel, Luther Dickinson, Blackberry Smoke, si è esibito in festival importanti come Bonnaroo, Warren Haynes 'Christmas Jam e Mountain Jam ed è stato invitato dal bassista dei Grateful Dead Phil Lesh a unirsi all’estemporaneo progetto Phil Lesh and Friends.

Non è un caso, quindi, che il chitarrista mostri una visione articolata nel comporre e sia già in possesso di uno stile personalissimo, che la maggior parte dei musicisti non raggiunge mai a nessuna età. Simo parla un linguaggio musicale unico e personale, che comprende hard blues, soul e psichedelia, che guarda al passato, certo, ma non imita, presentandosi semmai come un'estensione dei grandi artisti che l’hanno preceduto nel tempo e ispirato.

Il disco si apre con il soul esoterico di The Movement, una traccia che inizia come una sorta di esperimento Motown, prima di cambiare marcia in un energico jam di chitarra in acido e poi ancora in un'escursione di rumore freestyle, clamorosamente lisergica. La cosa pazzesca è che Simo fa sembrare tutto perfettamente logico. La sua espressività a più livelli gli consente di fondere i generi in modo intuitivo, plasmando creature ibride che saltano fuori dagli altoparlanti con incredibile naturalezza.

L’innodica Love mostra i muscoli di un saltellante hard funk e sfocia in un ritornello acchiappone. JD si cimenta in un cantato grintosissimo e sfodera una chitarra intrisa di wah wah, che si scatena in un folle assolo dal sapore Rage Against The Machine (Tom Morello docet).

Out Of Sight è un blues/rock/funky ad alta energia, figlio selvaggio e rumoroso di tanti modelli del passato, e, con un lavoro alla chitarra spaventosamente intenso, dimostra la potenza pura con cui Simo irrora le sue inclinazioni artistiche. Higher Plane torna al blues stravagante e rumoroso (di cui Simo è maestro), questa volta con un'inflessione paludosa e sferragliante, che evoca addirittura i White Stripes. Classico e terribilmente innovativo. Applausi da standing ovation, poi, quando partono i due minuti scarsi di Take That, un ruggente blues strumentale ad alto contenuto alcolico e ad alta velocità, con cui Simo si lancia vertiginosamente a rivivere il fascino dell’old school style, mostrando doti tecniche da fenomeno.

C’è anche il tempo per un ballatone soul suntuoso (One Of Those Days) e per la conclusiva Ann Lee, classicissimo blues a lenta combustione, che fa emergere tutte le conoscenze filologiche di questo folle e avventuroso artista.

JD Simo è un chitarrista all'avanguardia, uno che rispetta la tradizione ma è capace di spezzare gli schemi e spingere un canovaccio noto verso quei territori sconosciuti, di cui il blues ha bisogno per sopravvivere ed essere ancora rilevante. Un disco che farà girare la testa agli amanti del genere che sanno uscire dai limiti dell’ortodossia e guardare avanti.  

VOTO: 7,5




Blackswan, giovedì 25/02/2021

mercoledì 24 febbraio 2021

SOWING SEASONS - BRAND NEW (Interscope, 2006)

 


 

The Devil And God Are Raging Inside Me (2006) rappresenta un concreto spaesamento con riferimento all’evoluzione artistica dei Brand  New, lontani ormai anni luce dagli impeti pop-punk di Your Favorite Weapon (2001), e con questo album divenuti invece alfieri di un alternative rock, strutturato e maturo, che da un lato guarda alle soluzioni eteree dei coevi Dredg e a un certo goth rock a la Cure, e dall’altro rilegge, rinnovandola in chiave emo, la lezione (slow e post) core degli Slint e dei Fugazi, citati qui con gusto personalissimo.

L’iniziale Sowing Season (La stagione della semina) è la pietra angolare per comprendere un disco che, fin da lungo titolo, vive per contrasti, pieni e vuoti, urla e silenzi: il cupo sussurro di Jesse Lacey (in precedenza imbarcatosi brevemente nell’avventura screamo dei Taking Black Sunday) si adagia su un arpeggio di chitarra rarefatto e slintiano, per poi esplodere feroce in un grido raggelante e innalzarsi improvvisamente in un crescendo screaming. In questa canzone straniante e nel perfetto sincretismo fra soliloquio depresso e assalto all’arma bianca vive l’essenza di un disco, la cui musica può disperdersi in lente volute slowcore oppure esplodere, improvvisa e devastante, disperdendo ad altezza uomo esiziali schegge di postcore.

La canzone (originariamente intitolata semplicemente Yeah!), una delle prime del disco a essere rese di dominio pubblico, fu scritta da Lacey e da Vim Accardi (chitarra) nell’inverno del 2004. Lacey per il testo s’ispirò ai tanti membri della sua famiglia che andarono a combattere il secondo conflitto mondiale, ed in particolare al suo prozio Leo Lacey, in quale si trovava su una nave da trasporto diretta verso il Giappone. I bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki interruppero la missione dello zio, che fece ritorno in America, evitando così di combattere e rischiare di morire. Una tragedia immensa aveva salvato la vita al suo famigliare e questo fatto, accaduto tanti anni prima, innescò nel cantante una riflessione sulla perdita e sulle possibilità di riottenere ciò che si perde.

Una canzone dal testo ambiguo, ricco di sfaccettature, che parla di lutti (“Was losing all my friends. Was losing them to drinking and to driving” - “Stavo perdendo tutti i miei amici. Li stava perdendo a causa del bere e della guida”), delle avversità della vita e di chi ti mette i bastoni fra le ruote (“Take all that you have, And turn it into something you were missing. Somebody threw that brick, shattered all your plans” – “Prendi tutto quello che hai e trasformalo in qualcosa che ti mancava. Qualcuno ha lanciato quel mattone, ha distrutto tutti i tuoi piani”), ma anche della possibilità di riscatto e di ricostruire dalle fondamenta tutto ciò che è andato distrutto (“Time to get the seeds into the cold ground. It takes a while to grow anything” – “È ora di mettere i semi nel terreno freddo. Ci vuole un po' per far crescere qualcosa). Bisogna fare in fretta, però, e prendersi cura di chi si ama, perché la morte è sempre in agguato (“Before you put my body in the cold ground, Take some time to warm it with your hand” – “Prima di mettere il mio corpo nel terreno freddo, Prenditi del tempo per scaldarlo con la mano”). Una riflessione esistenziale, un testo profondo e psicologico, scritto da Lacey con in testa la celeberrima poesia If di Rudyard Kipling, che il padre aveva appeso in casa in un quadretto.

The Devil And God Are Raging Inside Me è una delle opere più interessanti del rock alternativo statunitense degli anni ’00 (in condominio, per affinità elettive, con El Cielo dei già citati Dredg). Certo, non si tratta di un viaggio sempre agevole, in considerazione dell’ostica violenza di certi passaggi imparentati strettamente al post-core; è pur vero che, alla resa dei conti, ciò che prevalentemente emerge dall’ascolto sono un profondo senso di sofferenza esistenziale e un lancinante smarrimento, di certo più congeniali a seguire l’ascoltatore nelle inclinazioni della propria voluptas dolendi.

 


 

Blackswan, mercoledì 24/02/2021

martedì 23 febbraio 2021

IDLEWILD - THE REMOTE PART (Parlophone, 2002)

 


La svolta nella carriera degli scozzesi Idlewild ha inizio nel 2000, quando la band capitanata da Roddy Woomble pubblica 100 Broken Windows, il disco che li avvicina al grande pubblico e attraverso il quale, smorzando le ingenuità e le asperità degli esordi, viene definito un suono, quello di una band ormai matura, ispirata e consapevole, capace di far convivere all’interno della stessa scaletta melodie innodiche, ritornelli di facile presa, mood malinconico, la forza centrifuga di chitarroni arrembanti e distorti, e furore rumoristico.Un primo, importante paso verso la maturità artistica, che troverà ulteriore e nuova linfa nel successivo, e più noto, The Remote Part.

A metà 2001, la band, affiancata dal fido produttore Dave Eringa, si ritira sull’altipiano scozzese, in un cottage a Inchnadamph, Sutherland, dove ha inizio un lungo processo di scrittura, che li tiene lontani dai palcoscenici e li costringe a sfibranti sessioni di registrazione e missaggio. Uno sforzo, questo, ampiamente ripagato dai numeri, visto che The Remote Part diviene il loro successo commerciale più importante: il primo singolo estratto dall'album, You Held the World in Your Arms, entra nella UK Singles Chart al numero nove, il disco scala le classifiche degli album fino al numero tre, diventa disco d'oro nel Regno Unito e spinge la band verso ben altri palcoscenici, dal momento che gli Idlewild iniziano un tour europeo a fianco dei Colplay, gli enfant prodige del pop rock britannico. Ed è proprio alla band capitana da Chris Martin che gli Idlewild vengono talvolta accostati, almeno per la capacità di estrarre dallo sconquasso chitarristico melodie irresistibili, che seducono per ardore romantico e giovanilistico.

The Remote Part, dicevamo, perfeziona il linguaggio del suo predecessore, sceglie spesso la strada della ballata (in 100 Broken Windows c’era la sola The Bronze Medal), esalta l’inclinazione melodica della band e leviga il suono, limando certe ruvidezze alternative. Attenzione, però, non si tratta di una svolta mainstream o di un tradimento all’ingenua onestà dei primi lavori, semplicemente la band è consapevole delle armi a disposizione e della capacità di creare un equilibrio perfetto tra rumore e melodia. Non vengono meno, quindi, né ardore né energia, l’attitudine punk, le sfuriate noise, i riferimenti stilistici (quella passionaccia per i REM che continua a contraddistinguere il songwriting di Woomble) sono gli stessi, ma tutto risulta più misurato, non trattenuto, ma decisamente più equilibrato.

You Held The World In Your Arms è un opener potente, un crescente intreccio di archi e chitarra, che si sovrappongono a vicenda sul tiro galoppante della batteria, mentre Woomble si chiede: "E se avessi il mondo tra le braccia stasera? È come se la tua vita non fosse cambiata, ed è in ritardo di tre anni, quindi come ci si sente ad essere in ritardo di tre anni?". Domande che rispecchiano il nuovo corso, che si soffermano sul successo e la sua caducità, sulla necessità di cambiare per potersi evolvere e raggiungere i propri sogni.

Che gli Idlewild, però, siano ancora capaci di far sanguinare le orecchie dell’ascoltatore lo si capisce con la successiva A Modern Way Of Letting Go, una fucilata a bruciapelo che mette in bella mostra l’attitudine punk della band scozzese.

La quale, dimostra la propria capacità di affascinare anche quando abbassa il tiro e cerca la strada della ballata e della melodia: American English è un accattivante mise in place del suono Coldplay, romantica e furbetta, e il giro di basso che apre I Never Wanted conduce con eleganza a uno dei più riusciti ritornelli della premiata ditta, note da cantare a squarciagola sotto il palco con il cuore traboccante di malinconia.

L’impatto chitarristico diviene ancora protagonista in I Am (What I Am Not), travolgente e sferragliante, anche se priva di vera sostanza, e nell’urlo appassionato, quasi tribale, di Out Of Routine, figlia alla lontana di certo furibondo celtic punk.

Un saliscendi emotivo, tra melodie memorabili e scalciante irruenza perfettamente equilibrate, che emerge ancor di più nella seconda parte del disco. Il pianoforte che punteggia l’incedere cupo di Century After Century e il romanticismo pop folk di Tell Me Ten Words sono gioiellini levigati dalle mani di una band in stato di grazia, e conducono alla vetta del disco rappresentata dalle due canzoni conclusive.

Il drumming infuocato, l’appassionato canto di Woomble, il basso pulsante, che regge l’impalcatura per chitarre crude e sfacciatamente elettriche, e il ritornello irresistibile fanno di Stay The Same il manifesto sonoro della band, un biglietto da visita di tre minuti e dieci secondi di quella pura energia per cui gli Idlewild si sono conquistati un posto nella storia del rock alternative britannico.

Chiude la scaletta l’affascinante The Remote Part/Scottish Fiction, ove compare il poeta scozzese Edwin Morgan (amico di Woomble), che nel finale di canzone recita una poesia (Scottish Fiction) scritta appositamente per l’album. Un brano che inizia come una sorta di lamento folk, un velluto acustico che parla del passare del tempo e dell’impossibilità di tenerne il passo, e che tocca il cuore con quel verso romantico “So I’ll wait ‘til I find the remote part of your heart/Nowhere else will let us choose a comfortable start”, con cui Woomble riesce a cristallizzare l’attimo nell’impetuoso scorrere dei giorni. Poi, all’improvviso, l'impianto elettrico viene riacceso e le chitarre si librano sopra il timbro spezzato e invecchiato di Edwin Morgan, mentre legge, ad alta voce, come un antico bardo, della passione creativa che vive, respira e che costituisce la forza propulsiva di un condiviso spirito scozzese. Una canzone pervasa di ancestrale epos, in cui gli Idlewild riescono a incanalare tutta la passione che provano per la loro terra d’origine, sentimento, questo, che permea l’intero disco e fa degli Idlewild una band orgogliosamente scozzese, difficile da ignorare e dannatamente accattivante.

 


 

 

Blackswan, martedì 23/02/2021

lunedì 22 febbraio 2021

LUCERO - WHEN YOU FOUND ME (Thirty Tigers, 2021)

 


Credetemi, i Lucero non hanno mai fatto un disco brutto, ma quello che sono diventati ora, dopo vent’anni di carriera, è qualcosa che neppure il più lungimirante degli osservatori poteva immaginarsi. Perché è davvero difficile, oggi, trovare una band che rilegga il rock di matrice sudista con tanta consapevolezza, che riesca a scrivere canzoni che suonano tanto classiche eppure così innovative, che abbia la talentuosa predisposizione ad abbinare la qualità del songwriting alla profondità di liriche, volte a sondare l’animo umano, per raccontarlo con un’introspezione empatica e al contempo acuta.

La band è cambiata profondamente dagli esordi, ha perso per strada parte dello slancio rockista e l’esuberanza r’n’b che aveva connotato album come 1372 Overton Park, per abbracciare un’americana ombrosa, riflessiva, venata d’inquieta malinconia. Se il precedente Among The Ghosts (2018) rappresentava l’abbrivio del nuovo corso, questo When You Found Me completa un percorso di trasformazione, che non significa perdita d’identità, sia ben inteso, ma una visione più matura della vita e la codificazione di un suono che mette sotto nuova luce le radici. Una seconda vita artistica che nasce dalle esperienze di vita del leader e cantante Ben Nichols, un uomo che ha trovato l’equilibrio grazie alla famiglia e alla nascita della figlioletta, che oggi ha quattro anni.

Inevitabile, quindi, che l’approccio alla scrittura si sia fatto più pacato, che certi temi ricorrenti in passato, più in linea con il ruolo di rockstar (pene d’amore, whisky, notti brave, solitudine), si siano trasformati in qualcosa di altro. Uno stile di vita diverso, le dinamiche famigliari, il mondo filtrato attraverso la quiete domestica, hanno plasmato l’anima di canzoni oggi pervase di malinconia, da quella paura sottotraccia di perdere tutto, dalla pena del distacco, dall’angoscia dell’abbandono.

Registrato presso i leggendari Sam Phillips Recording di Memphis (la casa dei Lucero), When You Found Me è, dunque, un disco sofferto, con molte ombre e poche luci, in cui l’inclinazione rock persiste ma è mitigata da uno spirito meditabondo, da atmosfere a tratti contemplative, e dall’uso, per la prima volta, dei sintetizzatori, che nelle intenzioni di Nichols vorrebbero evocare gli anni ’80 e la nostalgia per certa musica che ascoltava in radio, quando era piccolo.

Stupisce, poi, l’equilibrio di canzoni suonate bene e arrangiate meglio, in cui la ritmica del duo Roy Berry (batteria) e John C. Stubblefield (basso) e la chitarra in odor di kerosene di Brian Venable si poggiano sullo splendido lavoro alle tastiere di Rick Steff, il vero artefice dell’impianto melodico del disco, e sulla voce profonda, aspra, evocativa di ben Nichols, il cui timbro tocca il cuore e fa fremere la gabbia toracica.

Un disco che si apre con il riff teso e incalzante di Have You Lost Your Way?, una domanda che riflette le angosce della pandemia e del lockdown, quello straniamento psicologico che prostra l’anima, induce all’incertezza e mortifica lo sguardo sul futuro. Una domanda che spinge il disco verso una struttura circolare, e che troverà, pertanto, una risposta solo alla fine di questi magnifici quarantadue minuti, nella struggente e conclusiva title track.

In mezzo, il graffio punk’n’roll di Back In Ohio, la coda rabbiosa della cupa A City On Fire (i fatti di cronaca dell’anno scorso sono ancora sotto i riflettori) e lo slancio fremente di All My Life, il cui battito ossessivo è amplificato dalla voce abrasiva di Nichols, brani, questi, carichi di un’antica elettricità rock. 

A queste canzoni, si affiancano, poi, il passo rapido di Outrun The Moon, triste storia di un’adolescenza ferita (“She Left Home At Sixteen, Things Had Changed When Her Father Died”), la penombra crepuscolare di Coffin Nails, ballata alt country dalle tinte fosche, lo struggimento fluttuante nella notte punteggiata di stelle dell’estatica Pull Me Close Don’t Let Go e il drive pianistico del country rock di The Match, che suona come il momento più rilassato del disco.

Chiude la scaletta la title track, probabilmente il brano più struggente mai scritto da Nichols: voce, chitarra acustica e poche note, ma tutte decisive, di pianoforte, per rispondere al quesito posto all’inizio. Una canzone autobiografica, in cui si parla di sprofondo e redenzione, di come le persone che ci amano possono aiutarci a ritrovare la nostra strada, che sembrava irrimediabilmente smarrita, e possono salvarci o semplicemente aiutarci a ritrovare la forza per andare avanti. “Quando mi hai trovato stavo annegando, stavo andando alla deriva…ma tu hai trovato un modo per arrivare a me, hai trovato la mia strada verso te”, canta Nichols, omaggiando idealmente la propria famiglia e regalando all’ascoltatore il modo perfetto per ringraziare chi non ha mollato la presa e ci ha tenuti stretti, nonostante tutto.  

Dieci canzoni, tutte bellissime, fanno di When You Found Me il capitolo migliore della pur notevole discografia dei Lucero, i quali, rimanendo integri e diretti come sempre hanno fatto, dimostrano che la grandezza della musica può passare anche dal cambiamento, ma non può mai prescindere dalla sincerità. E qui, c’è tutto: un diverso approccio, grande musica e, sopratutto, il cuore, offerto, senza filtri, in una mano tesa. Innamoratevi.

VOTO: 9

 


 


Blackswan, lunedì 22/02/2021

venerdì 19 febbraio 2021

PREVIEW

 


MAMMOTH WVH - il debutto omonimo di WOLFANG VAN HALEN in uscita l’11 giugno su EX1 Records.

Oltre ad avere scritto tutte le canzoni, suonato tutti gli strumenti e cantato sull'album di debutto, Wolfgang Van Halen ha deciso di stabilire la propria identità musicale. Dal riff di chitarra della canzone di apertura dell'album "Mr. Ed" al basso trainante e alla batteria della chiusura del disco, affidata a "Stone", “Mammoth WVH” mostra le varie influenze musicali che hanno ispirato Wolfgang. Canzoni come "Resolve", "The Big Picture" e "Think It Over" sono tutte musicalmente diverse l'una dall'altra, ma uniche per ciò che Mammoth WVH è. L'attuale singolo "Distance" - la canzone scritta come tributo a suo padre e icona della chitarra Eddie Van Halen - è un altro lato di Mammoth WVH ed è attualmente al numero 3 di Active Rock Radio. L’emozionante video è stato visto quasi quattro milioni di volte su YouTube. La canzone non era originariamente destinata ad essere presente sull'album di debutto, ma avendo ricevuto un’accoglienza travolgente, è stata aggiunta come bonus track. Tutti i proventi di "Distance" vengono donati da Wolfgang a Mr. Holland's Opus.

In concomitanza con l'annuncio dell'album, i Mammoth WVH faranno il loro debutto televisivo a tarda notte al Jimmy Kimmel Live! di oggi e al TODAY di NBC News la mattina del 19 febbraio. La band composta da Wolfgang Van Halen (chitarra/voce), Ronnie Ficarro (basso/voce), Jon Jourdan (chitarre/voce), Frank Sidoris (chitarre) e Garret Whitlock (batteria) eseguirà "Distance" in ogni programma televisivo. La band presenterà la canzone questa sera al Jimmy Kimmel Live! e poi suonerà un esclusivo arrangiamento acustico del brano alle ore 8:00AM EST del TODAY di NBC News il 19 febbraio.
 
Mammoth WVH ha anche collaborato con Twitter per celebrare il lancio dell'album di debutto. Il celebre social media ha creato un hashtag emoji dal logo della band. Chiunque twitti usando i seguenti hashtag - #MammothWVH #WolfgangVanHalen #WolfVanHalen #WVH - vedrà il logo ovale della band comparire accanto al tag. Questa integrazione è prevista fino alla fine di marzo.

La prima impressione è quella che conta. Wolfgang Van Halen si è preparato una vita intera per fare la sua prima impressione con la sua band solista MAMMOTH WVH. Il compositore, cantante e polistrumentista ha lavorato instancabilmente sul materiale che sarebbe diventato il suo album di debutto, la cui uscita è prevista per il 2021 tramite Explorer1 Music Group/EX1 Records. Suonando ogni strumento e cantando ogni singola nota, con la sua musica offre una prospettiva personale e potente e bilancia riff memorabili e tecnica sopraffina. Tante volte il pubblico ha avuto modo di tastare con mano il suo talento, come quando si è esibito al fianco di artisti del calibro di Tremonti, Clint Lowery e, naturalmente, Van Halen. Wolfgang si prepara ad andare sotto i riflettori con il suo marchio – MAMMOTH WVH – per la prima volta.

 


 

Blackswan, venerdì 19/02/2021

 

giovedì 18 febbraio 2021

THE MAHONES - 1990-2020 THIS IS ALL WE GOT TO SHOW FOR IT (True North, 2020)

 


Tra gli adepti del celtic punk, una delle band più longeve è sicuramente quella dei canadesi The Mahones (nome mutuato dall’espressione irlandese “pogue mahone”, ossia “baciami il culo”), nati a Kingston, Ontario, nel lontano 1990. Trent’anni di onorata carriera, per la band composta, ad oggi, dal cantante e chitarrista Finny McConnell, da Sean Ryan al basso, da Katie McConnell alla fisarmonica, Michael O’Grady al tin whistle, Guillaume Lauzon alla batteria e Scruffy Wallace alle cornamuse, che vengono celebrati con questo best of, che racchiude il meglio dai dieci album in studio fin qui pubblicati.

La musica è esattamente quella che potreste aspettarvi da una band dalle radici musicali celtiche, un misto di folk, punk e rock’n’roll, che prende a schiaffi la tradizione irlandese, con brutale esuberanza e un approccio molto alcolico. Le diciannove canzoni in scaletta, tra cui anche un’inaspettata, ma non brillantissima cover di Heroes di David Bowie, guardano ovviamente ai Pogues, band che ha fatto da capostipite al punk folk e che è il punto di riferimento di tutti i gruppi che si cimentano nel genere, pur rileggendone le gesta con un approccio più muscolare, che richiama alla mente i coevi Dropkick Murphys (questi ultimi, vengono qui citati solo come più noto termine di paragone, visto che hanno qualche anno in meno di carriera alle spalle).

Colonna perfetta per una festa ad alto contenuto alcolico (l’iconografia della band, oltre a evocare la verde terra d’Irlanda, rimanda spesso alla classica pinta di Guinness), la raccolta scorre rapida per più di un’ora tra gighe scatenate (Drunken Lazy Bastard, A Great Night On The Lash e Is This Bar Open ‘Til Tomorrow), brani più marcatamente rock (Shakespeare Road e Give It All You Got), omaggi alla storia del diamante verde (Stars (Oscar Wilde)) e ballate struggenti dal cuore in una mano e la pinta nell’altra (Celtic Pride e Streets Of New York).

Non c’è nulla in questo disco che non conosciate già, se per caso foste fan del Pogues; tuttavia, quello che conta in questa raccolta è lo spirito indomito, la sferragliante potenza dei suoni e un’attitudine alla caciara, possibilmente accompagnata da qualche litro di scura. Mettete pure il cd nel lettore e alzate il volume: This Is All We Got To Show For It è un disco divertentissimo, che porta allegria e buon umore, e che ci ricorda quando, non più tardi di un anno fa, facevamo bisboccia nel nostro pub preferito.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, giovedì 18/02/2021

mercoledì 17 febbraio 2021

PREVIEW

 


Elena Tonra dei Daughter riprende il moniker Ex:Re per presentare una re-interpretazione del suo album di debutto da solista.
 
Ex:Re with 12 Ensemble, in uscita il 19 Febbraio 2021 in digitale, è una collaborazione tra Tonra, la compositrice di musica classica Josephine Stephenson e il 12 Ensemble, una delle migliori orchestre d’archi del Regno Unito.
 
Inizialmente uscito nel 2018, Ex:Re (pronunciato Ex Ray e significa “a proposito di Ex”) ha messo a nudo, senza alcun filtro, il monologo interiore di Tonra alla fine di una relazione sentimentale. Ex:Re, che ha visto la luce grazie all’aiuto di Stephenson e del produttore/ batterista Fabian Prynn, contiene i testi più intimi, mai scritti prima d’ora da Tonra, capaci di parlare a chi soffre pene d’amore oltre a rappresentare la chiusura di capitolo della sua vita.
 
Ex:Re with 12 ensemble reinventa e completa il suo predecessore. E’ stato registrato da Fabian Prynn, il 30 novembre 2019, durante una performance al Kings Place (lo spazio multidisciplinare nel quartiere di King’s Cross a Londra) dove Tonra è stata accompagnata da Stephenson al piano e dal 12 Ensemble, orchestra di 12 strumenti ad arco.
 
Josephine Stephenson è una celebre compositrice, arrangiatrice e musicista contattata dal Kings Place per curare un evento durante il festival “Venus Unwrapped” del 2019. Stephenson ha proposto un concerto che unisse il mondo della musica classica a quella non classica, ed avendo recentemente partecipato al progetto Ex:Re, collaborare nuovamente con Tonra è sembrata la soluzione più logica.
 
I nuovi arrangiamenti di Stephenson in forma classica, hanno dato maggiore rilievo alle emozioni e alla fragilità dei testi. “Lavorare con strumenti acustici mi ha dato l’opportunità di aggiungere dettagli dinamici, sottili ma tangibili, per marcare le parole di Elena. Le canzoni di ‘Ex:Re’ sono costruite partendo da loops, e mi sono divertita ad esplorare la moltitudine di possibili varianti aggiungendo contro melodie e facendo piccoli cambiamenti nelle armonie e nella sonorizzazione. Dopo un anno in tour con la band di Ex:Re, conoscevo molto bene le canzoni, ed avevo già iniziato a orchestrarle nella mia testa. Mi ha molto aiutato sapere che stavo scrivendo per l’orchestra 12 Ensemble, perchè sono muscisti di grande talento a loro agio con ogni genere musicale”.
 
Tonra e Stephenson hanno trovato un po’ di tregua nei mesi di registrazione, dopo la performance al Kings Place. “Abbiamo mixato l’album mentre concerti ed eventi venivano cancellati o posticipati in tutto il mondo, è stato emozionante ascoltare e riascoltare le registrazioni in quel periodo particolare. Il suono di una sala piena di persone era, e lo è ancora, qualcosa che ci mancava tantissimo.” Dice Tonra. Ex:Re with 12 Ensemble, mixato da Jonathan Lefèvre-Reich, deforma lo spazio tra l’audience e i musicisti. L’ascoltatore è posto al centro della musica, circondato da mura semicircolari create dal suono degli archi, che ricrea l’esperienza del concerto. “C’è anche della magia” dice Tonra, “Jonathan ha aggiunto dei bei momenti di narrazione. In New York, ad esempio, il suono degli archi all’improvviso sembra gocciolare ai lati della testa.”
 
 
Ex:Re With 12 Ensemble esce in digitale il 19 Febbraio 2021.

 


 

Blackswan, mercoledì 17/02/2021

martedì 16 febbraio 2021

STEVEN WILSON - THE FUTURE BITES (Caroline International, 2021)

 


Alla fine, ha fatto anche un disco pop. Forse, lo si poteva già sospettare dal precedente To The Bone (2017), in cui la svolta di The Futur Bites veniva anticipata in qualche brano; di sicuro, in pochi si sarebbero aspettati una virata così decisa. D’altra parte, da Wilson, è lecito attendersi di tutto, vista la lunga carriera improntata a un febbrile lavoro che l’ha portato a cimentarsi con svariati, eterogenei progetti. Anche una rapida occhiata al curriculum di Wilson è sufficiente per far sì che qualcuno si chieda dove trovi il tempo. Il musicista, di stanza nel Regno Unito, e frontman dei notevoli Porcupine Tree, ha dato vita anche a realtà di tutto rispetto come Bass Communion, I.E.M., Blackfield, No-Man e Storm Corrosion, portando avanti in modo parallelo anche un’illustre seconda carriera, remixando album rock progressive di King Crimson, Jethro Tull, Yes, per citarne alcuni, e cimentandosi come produttore. In tutto questo guazzabuglio, è riuscito poi, dal 2008, a dare l’abbrivio a una propria carriera da solista (arrivando oggi alla pubblicazione del suo sesto album), e a costruire, oltre a una nomea molto in voga fra gli addetti ai lavori, anche una più che discreta popolarità.

The Future Bites, come dicevamo all’inizio, rappresenta un unicum nella carriera del musicista inglese che, per la prima volta, si muove in una direzione più decisamente pop. Pop, però, da intendersi come lo suonerebbe uno che, oltre a essere un musicista raffinato e un geniale curatore di suoni, ha anche alle spalle un background progressive che emerge, con evidenza, nella forma e nella sostanza di arrangiamenti complessi (meglio precisare, quindi: non troverete in scaletta il singolone spacca classifica).

Come suggerisce il titolo, The Future Bites è una raccolta di canzoni che ruota intorno ai pericoli della tecnologia e soprattutto all'eccessivo consumismo che sta corrodendo la società. Nonostante l’argomento serio e i testi, in tal senso, molto abrasivi, Wilson confeziona brani meravigliosamente e perfettamente realizzati, che ti costringono a pensare, pur nella loro accessibilità melodica. Canzoni divertenti, leggere, a tratti sognanti, e sempre stimolanti, che riescono a suonare incredibilmente contemporanee, nonostante qualche rimando retrò agli anni ’80.

Un mood straniante, dunque, in cui convivono liriche che parlano di deriva etica, di liberismo sfrenato, di egocentrismo, di una società schiava dei social e delle apparenze, a fronte di una musica coinvolgente, danzereccia, tracimante sentimento, contemplazione e irresistibili groove.

  
Le ritmiche alla Peter Gabriel e il funk lento e sensuale di Eminent Sleaze, le atmosfere malinconiche di Man of the People, la dance elettronica di Self, gli umori crepuscolari di King Ghost, conducono alla lunga e percussiva Personal Shopper, fulcro del disco e angosciante pamphlet sui danni perpetrati dal consumismo alla società (“compri la merda che non sapevi ti mancasse"). Un attacco frontale, al vetriolo, senza peli sulla lingua, che innerva di tensione un brano danzereccio e dalla melodia irresistibile.


Nonostante gli argomenti trattati, The Future Bites è il set più potente e commercialmente attraente pubblicato da Steven Wilson fino ad oggi. Un disco che farà storcere il naso ai fan della prima ora e a quelli che da sempre pensano al leader dei Porcupine Tree come la mente più geniale del prog moderno. Ecco, a questo giro, quel prog è preso a morsi, e anche se Wilson, come detto, mostra la propria natura negli splendidi arrangiamenti e nel suono scintillante, quello che troverete in questo sesto lavoro è soprattutto pop. Declinato con l’intelligenza e la modernità di un musicista dalla mente aperta e dall’ispirazione, evidentemente, incontenibile.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, martedì 16/02/2021

lunedì 15 febbraio 2021

RUSSIANS - STING (A&M, 1985)

 


Chiusa l’avventura Police, Sting ritorna in scena dalla porta principale, pubblicando un disco d’esordio, The Dream Of The Blue Turtle, da molti considerato anche il vertice di quella che sarà una lunga e ricca carriera solista. Affiancato dal gotha del new jazz afroamericano (Brandford Marsalis, Kenny Kirkland, Darryl Jones, Omar Hakim), il cantante e bassista inglese inanella un filotto di canzoni che piace a tutti: ai nostalgici dei Police, che ritrovano uno dei loro beniamini in perfetta forma, al grande pubblico, ammaliato da melodie irresistibili (il R&B elettrico del tormentone If You Love Somebody, Set Them Free) e alla critica, affascinata dal nuovo corso che fotografa un artista al top per classe, ispirazione e competenza strumentale.

Un disco sorprendente e convincente, che oltre alla citata hit, sfoggia prelibatezze reggae (Love Is The Seventh Wave), ballatone notturne in stile New Orleans (Moon Over Bourbon Street), scorribande “poliziesche” in sgargianti abiti jazzy, e persino una nuova Wrapped Around Your Fingers (la suntuosa Fortress Around Your Heart).

In questo repertorio di canzoni scintillanti, spunta anche il pop sinfonico di Russians, quarto singolo estratto dall’album e brano destinato ad accendere qualche polemica. La canzone, scritta da Sting, ispirandosi a un’aria di Sergej Sergeevic Prokof’ev (Lieutenant Kije Suite, Op. 60) affronta, infatti, il tema scottante dei rapporti fra Russia e Stati Uniti, in un momento assai particolare, quando cioè Gorbacev divenne Segretario Generale del PCUS e si stava preparando quel percorso che portò, dopo qualche anno, alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Russians, a voler azzardare una definizione, è una sorta di colonna sonora della glasnost e della perestrojka, una partitura orchestrale in chiave pop che suggerisce un percorso di distensione e pacificazione. Sting resta equidistante e non si schiera ("there's no monopoly on common sense / On either side of the political fence" - "non c'è monopolio sul buon senso / da entrambi i lati della barricata politica"), ma fotografa molto bene l’insensatezza di una situazione politica (e di una ingiustificata percezione del popolo russo) che avrebbe potuto innescare addirittura la tanto temuta guerra nucleare (“In Europe and America there's a growing feeling of hysteria”).

I riferimenti al conflitto atomico sono espliciti: il brano si apre, infatti, con il ticchettio di un orologio (l’orologio dell’apocalisse), che incombe minaccioso come il timer di una bomba, e dall’esplicitazione di considerazioni apertamente pacifiste ("there's no such thing as a winnable war / It's a lie we don't believe anymore" - "non esistono guerre che possono essere vinte / è una bugia a cui non crediamo più").

Una canzone “pensante”, dunque, che ha una svolta improvvisa con lo splendido verso: “Believe me when I say to you, I hope the Russians love their children too, We share the same biology, regardless of ideology, But what might save us, me and you, Is if the Russians love their children too”. La prospettiva cambia, non è più solo una riflessione politica, perché il baricentro della narrazione si sposta sull’uomo e sulla sua umanità: non c’è differenza fra il mondo occidentale e la Russia, siamo biologicamente identici, ma soprattutto anche i russi amano i loro bambini. E chi è quel folle che metterebbe a repentaglio la vita dei propri figli?

La canzone, oltre a un notevole successo commerciale, innescò, come detto, anche una polemica al vetriolo tra Sting e il nostro Antonello Venditti, che trovava il testo del brano assai superficiale e qualunquista. Il cantautore romano (che sbertucciò l’ex Police nella sua Rocky, Rambo e Sting, contenuta in Venditti e Segreti del 1986) definì gli intenti pacifisti della canzone come “la pace degli slogan” e criticò Sting per una lettura filoamericana della questione politica, suggerendo come titolo alternativo al brano “Americans”. La risposta del songwriter inglese non si fece, comunque, attendere: “Non so quanto questo signor Venditti abbia capito di 'Russian', che è una canzone ambigua e ironica al tempo stesso. La mia impressione è che lui abbia una conoscenza della lingua inglese pari a quella di un bambino di cinque anni: e allora il mio consiglio spassionato è che ritorni a scuola al più presto e che impari le lingue”.

Alla faccia del pacifismo.

 


 

 

Blackswan, lunedì 15/02/2021

venerdì 12 febbraio 2021

JAMES YORKSTON and THE SECOND HAND ORCHESTRA - THE WIDE, WIDE RIVER (Domino, 2021)

 


Votato alla discrezione dell’understatement e figlio di un’estetica artigianale, lo scozzese James Yorkston, ormai da quasi vent’anni, rilascia dischi con invidiabile prolificità. Che si tratti di album da solista, di quelli rilasciati sotto l’egida Yorkston / Thorne / Khan o, addirittura, dei due libri che ha scritto, lo stile del songwriter scozzese è sempre stato improntato a una serafica calma e a una consapevole sicurezza.

Il suo, è il suono di un narratore che fin dagli esordi ha avuto ben chiaro lo sviluppo del proprio songwriting, il dipanarsi della propria prosa, il susseguirsi delle note sullo spartito, il lessico da usare per ogni occasione. Ha imboccato una strada e quella è stata, senza mai rilevanti digressioni dal percorso, senza mai la necessità o l’aspirazione a esplorare nuovi territori. Una circostanza, questa, che è diventata un'arma a doppio taglio: da un lato, grazie alla cura di Yorkston per gli arrangiamenti e la lungimiranza nello scegliere i collaboratori, ha partorito dischi che, per quanto prevedibili e famigliari, hanno raggiunto vette notevoli (Moving Up Country del 2002), dall’altro, però, ha anche generato una ripetitività che, nei momenti meno ispirati, partorisce composizioni noiose e prive di fantasia (I Was a Cat From The Book del 2012).

The Wide, Wide River non sfuggirebbe a questa regola non scritta se non fosse che, a livello di collaborazione, viene coinvolto il produttore svedese Karl-Jonas Winqvist e la sua Second Hand Orchestra. Con la band, si realizza un timido scostamento dalla consueta ortodossia, e il taglio interpretativo risulta colorato e frizzante. Il disco, poi, è stato registrato in soli tre giorni, con un approccio da “buona la prima”, che ha reso l’impianto complessivo assai vivace, anche grazie alla qualità dei musicisti coinvolti.

Ella Mary Leather apre il disco con il classico suono Yorkston: una progressione melodica risaputa, un ritornello genuinamente contagioso, ma nulla più di quanto già ascoltato in passato. La successiva To Soothe Her Wee Bit Sorrows possiede un’anima clamorosamente vanmorrisoniana, l’arrangiamento saetta avanti indietro tra la voce e l’orchestrazione, il feeling fra Yorkston e la Second Hand Orchestra trova la sua massima espressione in equilibrio tra esplosività jammistica e misurata espressività. Allo stesso modo, anche Struggle ci consegna una band perfettamente sincronizzata, che spinge la melodia e si carica sulle spalle il peso emotivo del brano, mentre la voce calda di Yorkston si insinua delicatamente sotto pelle.

La stessa struttura, la si ritrova in There Is No Upside, che scorre ancora più vibrante, anche se melodicamente meno fascinosa, mentre poi il disco viene chiuso da due episodi più intimi, il folk dai sentori agresti di A Very Old- Fashoned Blues e il lento incedere malinconico di We Test The Beams, ballata da groppo in gola e fazzoletto alla mano.

La forza di questo nuovo lavoro risiede, sicuramente, nella collaborazione con la Second Hand Orchestra, una band capace di assecondare gli umori Yorkston, il quale, nei momenti più riusciti dell’album, ha avuto il coraggio di fare un passo indietro e diventare una parte del tutto. E’ indubbio che, in questo modo, la musica contenuta The Wide, Wide River si ammanti di inusitati colori e fluisca con una vivacità che in altri lavori era mancata, riuscendo ad arrivare dritta al bersaglio senza rilevanti inciampi. Se è l’inizio di una collaborazione destinata a durare, potrebbe anche essere una svolta decisiva nella carriera del musicista originario del Fife.  

VOTO: 7




Blackswan, venerdì 12/02/2021

giovedì 11 febbraio 2021

PREVIEW


 

Dove un tempo c’era Superwolf ora si aggirano i Superwolves, il nuovo album e fabbrica di demoni di Matt Sweeney e Bonnie ‘Prince’ Billy, in uscita su Domino il 30 aprile in digitale e in formato fisico dal 18 giugno. Oggi svelano il nuovo singolo ‘Hall of Death’, che arriva dopo ‘Make Worry For Me’, scritto da Sweeney e Will Oldham (aka Bonnie ‘Prince’ Billy) insieme al chitarrista e produttore Tuareg Ahmoudou Madassane. La canzone presenta Oldham e Sweeney nei loro tradizionali ruoli, rispettivamente di cantante e chitarrista, registrati live in studio con Madassane alla chitarra ritmica e con la partecipazione dei componenti della sua band: Mdou Moctar e la sua inconfondibile chitarra, Mike Coltun al basso e Souleyman Ibrahim alla batteria. Il video di accompagnamento è stato diretto da Sai Selvarajan e Jeff Bednarz.

Le canzoni che compongono Superwolves, il secondo album del duo e il primo da Superwolf del 2005, si immergono in luoghi inesplorati mentre Matt e Bonny prendono tutta la musica da loro conosciuta per creare canzoni che colpiscono in profondità. In classico stile Garcia-Hunter, Sweeney e ‘Prince’ in principio hanno lavorato separatamente cercando e trovando un percorso reciproco nei loro mondi solitari. I testi di Bonnie sono sstati spediti alla chitarra mentale di Sweeney; gli accordi e una melodia prendono forma, registrati in velocità e rispediti a “Prince”, quindi i due si ritrovano a cantare, unire e rafforzare e finalmente suonare di fronte ad un’ignara audience. Quindi nuovi testi sono spediti, animati e suonati, fino a quando le canzoni e le esecuzioni sono pronte per essere registrate. Questo è solo l’inizio del loro processo di fusione, perchè le parole hanno bisogno di vocalizzazioni di contrasto e sostegno e le line di chitarra suggeriscono armonie da aggiungere e in cui spingere. Durante il processo una nuova creatura prende vita dalla precedente. Nella collaborazione la chitarra apre e condivide uno spazio fluido con le parti vocali e le voci cantano con le chitarra: ogni istante di Superwolves è uno spettacolo stravagante, guidato solo dal suo bisogno.

“L’intesa viene da vite vissute separatamente, dove la musica è il nutrimento principale. Ascoltiamo con gratitudine e stupore, e sentiamo che ci appartiene. Costruiamo I nostri sogni con la speranza che abbiano l’opportunità di avverarsi. Sappiamo che siamo in grado di produrre, ci serve ill supporto dell’altro per portare alla luce i linguaggi che ci siamo immaginati.” Will Oldham

“E’ molto stimolante scrivere musiche su cui Will canterà. E’ una sfida non facile. Sapere che la voce di Will eleverà la melodia mi fa arrivare più in alto e scavare più a fondo. Mi fa venire voglia di creare un linea di chitarra che trattenga la sua voce come il calice contiene il vino (o il sangue, o qualunque cosa sia necessaria per vivere una vita al meglio). Mi piace molto anche cantare armonie e risposte alla sua voce.”  Matt Sweeney
 

I due ha cominciato a lavorare a questo album 5 anni fa ma la prima vera sessione si è svolta un anno fa allo Strange Weather di Brooklyn e le successive al Butcher Shoppe a Nashville. Sweeney ha supervisionato il missaggio delle sessioni di Brooklyn ed Oldham ha supervisionato quelle di Nashville. Nell’album Sweeney canta insieme al suo cantante preferito e suona tutte le chitarre, acustica, elettricha e basso, accompagnato da David Ferguson al contrabasso, Mike Coltun al basso elettrico, Mdou Moctar alla chitarra elettrica, Ahmoudou Madassane alla chitarra ritmica, Souleyman Ibrahim, Ryan Sawyer e Peter Townsend alla batteria e Mike Rojas alle tastiere. Bonnie ‘Prince’ Billy canta. Come sempre. E Superwolves governa su tutto.
 
 

 
Blackswan, giovedì 11/02/2021

 

mercoledì 10 febbraio 2021

JO NESBO - IL FRATELLO (Einaudi, 2020)

 


Carl, il fratello minore, se ne è andato da tempo in Minnesota dove è diventato imprenditore e da allora di lui non è arrivato che l'eco del suo successo. Ma ora che Carl è inaspettatamente tornato con il grandioso progetto di costruire un hotel e trasformare il paese in una località turistica, Roy si trova di nuovo a doverlo difendere dall'ostilità e dai sospetti degli altri. Come quando erano ragazzi, Roy cerca di proteggere Carl, ma suo malgrado si ritrova risucchiato in un passato che sperava sepolto per sempre. Dall'incontrastato maestro del crime scandinavo – 40 milioni di copie nel mondo – un thriller sulle menzogne, i segreti, i tradimenti nascosti dietro la rassicurante facciata della vita familiare.

Non aspettatevi nulla di quello che fino a oggi conoscevate di Jo Nesbo, perché con Il Fratello, infatti, lo scrittore norvegese, cambia completamente registro. Scordatevi Harry Hole, dunque, scordatevi Oslo, scordatevi i serial killer, scordatevi l’indagine, scordatevi, insomma, il più classico dei thriller dai ritmi palpitanti e dai continui colpi di scena a cui vi eravate abituati.

Nesbo abbandona, dunque, la propria comfort zone, sceglie come ambientazione la montagna del nord della Norvegia, scrive un romanzo che potremmo definire “americano” (la location ricorda il Montana, gli States sono richiamati dalla musica di JJ Cale e dalla Cadillac, protagonista silenziosa della narrazione), e si concentra sulla storia di una famiglia di montanari, che, pagina dopo pagina, si tinge di venature noir. Due fratelli legati morbosamente da un tragico passato di violenza e incesto, una femme fatale che mette pericolosamente a rischio il rapporto tra i due, un albergo da costruire sulla cima della montagna, una stazione di servizio, una curva stretta e insidiosa, ricatti e tradimenti, la comunità rurale di Os, paesino di poche anime, che sotto l’apparente tranquillità cela odi, rancori e risentimenti mai sopiti, sono gli elementi di cui si sostanzia questo lungo romanzo.

Nesbo si prende tempo e pagine (seicentotrentanove, per la precisione), per imbastire una narrazione dai ritmi dilatati, preferendo concentrarsi sulla psicologia dei suoi personaggi, piuttosto che sul consueto bagaglio di adrenalina e colpi di scena. Che ci sono, ovviamente, perché la natura del romanziere è quella, e non cambia. Tuttavia, il thriller resta sfumato, sullo sfondo, perchè lo scrittore indaga semmai l’anima tormentata di Roy, la figura controversa e ambigua del fratello Carl, il fascino inquietante della bella e risoluta Shannon.

Nonostante la lentezza dello svolgimento, Il Fratello riesce comunque ad avvincere e a conquistare, perché Nesbo scrive benissimo e sonda l’umanità dei suoi personaggi con estrema arguzia ed efficacia. Il romanzo, però, non convince fino in fondo, e gli snodi narrativi, spesso punto di forza dello scrittore norvegese, talvolta, appaiono forzati e inverosimili, conducendo verso un finale frettoloso, che delude in parte le aspettative.

Con qualche idea brillante in più, Il Fratello poteva davvero diventare il capolavoro di Nesbo; così resta, invece, solo un buon romanzo che convince per la profondità psicologica, ma scontenta tutti coloro che dall’autore norvegese si attendono ritmo, brividi e soluzioni plausibili. Peccato.

 

Blackswan, mercoledì 10/02/2021

martedì 9 febbraio 2021

JUST A SONG BEFORE I GO - CS&N (Atlantic, 1977)

 


Ricordatevi: scommettete solo se avete qualche probabilità di vincere. Perché se beccate uno che ne sa più di voi o, semplicemente, uno più fortunato, allora sono guai. Soprattutto, non scommettete mai con un fenomeno su una delle sue abilità, perché a quel punto, è quasi certo che dovrete mettere mano al portafogli. Lo sa bene quel ragazzo, un pusher danaroso, ma un po' sprovveduto, che un giorno del 1977, si mise a competere con Graham Nash, sfidandolo per la ragguardevole somma di 500 dollari.

Hawai. Nash e Leslie Morris sono a casa di un amico, uno che poi (poi?) si scoprirà essere uno spacciatore, uno di quelli a cui basta una telefonata e ti fanno avere (quasi) tutto ciò che desideri. C’è un aereo in partenza fra un paio d’ore e Nash è irrequieto, vuole tornare a casa, a Los Angeles. Lo dice agli amici che, invece, non hanno voglia di staccarsi dal divano e dalle birre. “Ancora venti minuti”, dice lo spacciatore. E poi, la malsana idea: “Sei un grande musicista, ma io scommetto 500 dollari, che, per quanto bravo tu possa essere, non sei in grado di scrivere una canzone in soli venti minuti”. Graham lo guarda, sorride, si siede davanti al pianoforte e quindici minuti dopo ha in tasca i 500 dollari (che tuttora conserva come reliquia).  

La canzone, nata da una scommessa tra amici, si intitola Just A Song Before I Go, titolo perfetto per descrivere le circostanze da cui è nata, e parla di quel momento doloroso e struggente che si vive quando si è costretti ad abbandonare la persona che si ama. “She helped me with my suitcase, She stands before my eyes, Driving me to the airport”, canta Nash; e ancora: “Just a song before I go, A lesson to be learned, Traveling twice the speed of sound, It's easy to get burned”. Incredibile, ma vero, l’anima pop dei CS&N non si limita solo a scrivere una splendida canzone, ma l’adatta al momento in cui è stata concepita, la universalizza trasformandola in uno struggente brano sull’addio, e si concede anche lo sfizio di sfottere l’incauto scommettitore (Traveling twice the speed of sound, It's easy to get burned: a viaggiare al doppio della velocità del suono, è facile scottarsi).

Just A Song Before I Go, viene inserita in CSN, splendido disco datato 1977, in cui Nash fa la parte del leone, inanellando una serie di gioielli come Cathedral, Cold Rain e Carried Away, che restano, a tutt’oggi, alcune delle più belle composizione del musicista inglese. La cosa incredibile, però, è che questo acquerello, dai colori tenui e dall’atmosfera malinconica, diventerà il maggior successo di vendite della band californiana, raggiungendo la settima piazza di Billboard e la decima nelle classifiche canadese.

Un’ultima curiosità. Poco dopo la partenza di Nash dalle Hawai, sull’arcipelago si abbatte un violento uragano. Fosse arrivato qualche ora prima, il volo sarebbe stato soppresso, quella scommessa non ci sarebbe stata, e Just A Song Before I Go non sarebbe mai esistita.   

 


 

 

Blackswan, martedì 09/02/2021 

lunedì 8 febbraio 2021

BALTHAZAR - SAND (Play It Again Sam, 2021)


 

Con la pubblicazione di Fever, uscito circa due anni fa, i belgi Balthazar raggiungevano lo zenit della loro narrazione, creando un livello di aspettative altissime sul prosieguo della carriera. La bellezza di quel disco, il quarto in studio, faceva pensare a una band consapevole e matura, padrona di una materia, come quella del pop, che veniva elaborata con straordinaria efficacia e originalità. Si attendeva, quindi, con molta curiosità il capitolo successivo, consapevoli delle potenzialità della band, ma anche col dubbio che l’asticella di Fever, posta pericolosamente in alto, non potesse essere più raggiunta o superata.

Invece, Jinte Deprez e Marteen Devoldeere, leader carismatici dei Balthazar, sono riusciti nell’impresa di superare se stessi, regalandoci un album capace di sorpassare in qualità il già notevole predecessore. E ciò, nonostante i tempi bui che stiamo vivendo, mesi in cui impera il dictat della distanza e in cui non è possibile testare del vivo l’impatto delle nuove composizioni. Sand è, quindi, figlio di queste nuove logiche, che hanno, si, modificato pesantemente le dinamiche proprie del metodo di concepire e proporre musica, ma che, in modo obliquo, sono riuscite a tirare fuori le migliori risorse da chi ha comunque cercato di uscire dal doloroso empasse.

Nasce, così, una scaletta di undici canzoni costruita a distanza, figlia di un songwriting piegato, obtorto collo, alle nuove ristrettezze sociali e quindi sviluppato attraverso il confronto via skype, l’utilizzo della tecnologia e il ricorso a sample di batteria e synth bass. Elementi decisamente nuovi, che hanno modificato la confezione, senza tuttavia aver in alcun modo intaccato la sostanza di un suono e di un’ispirazione, oggi, più vivi che mai.

I Balthazar si confermano, così, una band dalla cifra stilistica unica, capaci di un’eleganza formale, in cui convivono raffinata estetica dandy e un vagamente nostalgico passatismo verso gli anni ’80, creatori di un immaginario pop, che sfugge all’ovvietà dell’espressione monocorde, e si sviluppa, invece attraverso una trama melange di suoni e di intuizioni che si nutrono di groove funky, atmosfere da jazz club, beat da dancefloor e languori da ballata soul.

Datemi una linea di basso e intorno ci costruirò un mondo. Sembra questa l’idea che sta alla base di undici canzoni solo all’apparenza lineari e dirette, ma che si arricchiscono, nel loro sviluppo, attraverso un gioco di luci e di ombre, di vuoti e di pieni, di arrangiamenti che aggiungono e tolgono, creando intarsi di rilucente bellezza, anche attraverso l’inaspettata sottigliezza di un suono.

La ritmica secca e tribale che attraversa Moment, l’opener del disco, si veste, ad ogni carezzevole ritornello, di nuovi colori: un giro di chitarra, una punteggiatura di fiati, un accattivante coretto, il liquido dipanarsi di un synth. E’ questa la filosofia dei Balthazar, creare canzoni che stordiscono per perfezione melodica, che conquistano al dancefloor con irresistibili groove funky, che stupiscono nell’alternarsi dei timbri vocali, il baritono e il falsetto, perfettamente bilanciati, fra strofe e ritornelli.

Il funky da posa dandy di Losers (con omaggio a Paolo Conte, citato nel testo), l’immaginario notturno evocato dalle suggestioni contemplative della splendida On A Roll, il carezzevole dipanarsi eighties di You Won’t Come Around, lentone guancia guancia dagli struggimenti romantici, le morbide volute dance di Linger On, il beat ipnotico di Passing Through, la cui coltre ipnagogica viene dipanata da uno straniante arrangiamento d’archi o lo stiloso pianoforte jazzy che accompagna il finale di Powerless, sono solo alcune delle gemme di un disco, che si potrebbe ballare dall’inizio alla fine, se non fosse per quelle continue intuizioni e colpi di genio capaci di rapire l’ascoltatore in una stupefatta estasi contemplativa.

Con gli occhi ben aperti sul nostro amaro presente (lo sguardo pessimista e irrequieto delle liriche) e la capacità di adattarsi alle nuove dinamiche sociali, i Balthazar, pur rimanendo fedeli alla propria cifra stilistica, sono riusciti nell’intento di aggiungere un ulteriore tassello al loro puzzle musicale, e di concludere, con un capolavoro, la prima parte di carriera, iniziata dieci anni fa con il malinconico Applause.

Difficile trovare oggi qualcuno che riesca a maneggiare la stessa materia con altrettanta maestria, tanto che, per parafrasare Lester Bangs a proposito dei Clash, verrebbe da dire che i Balthazar sono, sic et simpliciter, una della poche pop band che conti veramente qualcosa.

VOTO: 9

 


 

 

Blackswan, lunedì 08/02/2021

venerdì 5 febbraio 2021

PREVIEW

 


Dopo due album al numero #1 della classifica inglese, più di 2 milioni di copie vendute ed un incredibile successo di pubblico e critica, forse pensavate di sapere bene cosa aspettarvi dai Royal Blood. Tutti i preconcetti sono stati spazzati via quando il duo ha pubblicato la scorsa estate “Trouble’s Coming”. Un melting pot ben riuscito di fiero rock e beat dance tramite il quale i Royal Blood hanno presentato qualcosa di fresco, sorprendente ed inaspettato, ma perfettamente in linea con il loro percorso fino ad ora.

La reazione a “Trouble’s Coming” è stata fenomenale, come dimostrano gli oltre 20 milioni di stream raggiunti in breve tempo. Il singolo ha immediatamente guadagnato la cover della playlist ROCK THIS di Spotify ed è stato supportato da emittenti radiofoniche di tutto il mondo. In breve tempo i Royal Blood sono pronti a diventare più grandi di quanto lo siano mai stati fino ad ora. Questo si concretizzerà quando la band pubblicherà il terzo album “Typhoons”, in uscita il 30 Aprile su etichetta Warner Records.

Quando Mike Kerr e Ben Thatcher hanno iniziato a parlare del nuovo album sapevano esattamente quale obiettivo volevano raggiungere. Un consapevole ritorno alle proprie origini, quando la loro musica era influenzata da Daft Punk, Justice e Philippe Zdar dei Cassius. Un approccio emozionale, viscerale e originale, simile a quello che aveva portato alla creazione del loro omonimo album di debutto.

“Ci siamo imbattuti in queste melodie senza quasi rendercene conto ed è stato subito divertente suonarle”, ricorda Kerr. “Questo è ciò che ha alimentato la creatività per il nuovo album, il rincorrere quelle sensazioni. È stato strano, anche se ripensandoci, in ‘Figure it Out’ era già presente in fase embrionale ciò che abbiamo fatto oggi. Abbiamo capito che non dovevamo necessariamente distruggere tutto quanto creato in passato per andare avanti, dovevamo semplicemente cambiare marcia. Sulla carta sembra una cosa da poco ma quanto ascolti il nuovo album tutto appare fresco”.

Tutto questo traspare immediatamente dal nuovo singolo e title track “Typhoons”. I riff di basso di Kerr danno forma a un’ipnotica spirale ascendente la cui intensità è in costante crescita, mentre i pressanti beat di Thatcher sorreggono il tutto con una forza inesauribile.

Dettato il ritmo con “Trouble’s Coming”, l’album colpisce duro con il groove metallico di “Who Needs Friends”. L’incredibile contrasto creato da Million & One” e “Limbo” non lascia più dubbi sulla freschezza dell’intero lavoro. Già presentata live e amata dai fan, “Boilermaker” è all’altezza della propria reputazione, “Mad Visions” è un brano in grado di evocare un Prince super-aggressivo. Chiude l’album la sorprendente “All We Have Is Now”, ballad al pianoforte dall’incredibile impatto emotivo.

Sia direttamente che allusivamente, l'album esplora il rovescio della medaglia del successo che Kerr e Thatcher hanno sperimentato sulla propria pelle. Tutto nasce dalla realizzazione che il successo è molto più complicato di quello che sembra ed avere il tempo di riconquistare la giusta prospettiva è un bene prezioso che diventa sempre più sfuggente. La situazione ha richiesto riflessione e cambiamento e il primo passo è stato fatto da Kerr a Las Vegas. Dopo aver ordinato un Espresso Martini ha dichiarato che quello sarebbe stato il suo ultimo drink e poco dopo ha scoperto che la sobrietà ritrovata stava portando grandi benefici alla sua creatività e a tutta la sua vita.

Il nuovo approccio si manifesta anche nella decisione del duo di produrre Typhoons” in totale autonomia. Fanno eccezione i brani “Boilermaker”, prodotto da Josh Homme (frontman dei Queens of the Stone Age), e “Who Needs Friends”, prodotto dal vincitore di Grammy Award Paul Epworth.

 


 

 

Blackswan, venerdì 05/02/2021