Sono passati diciotto anni dall’ultimo disco in studio dei Tears For Fears. Diciotto anni. Uno iato impressionante, anche se non dovessimo misurarlo con i ritmi frenetici di questo mondo impazzito, esattamente il tempo di veder nascere un figlio e vederlo poi diventare maggiorenne. Curt Smith e Roland Orzabal, dopo la rottura artistica (e affettiva) degli anni ’90, quando per tutto il decennio, passavano il tempo a insultarsi reciprocamente a mezzo stampa, si sono dovuti riavvicinare lentamente per prendere le misure di un rapporto ormai logoro, farlo funzionare di nuovo e capire che era ancora possibile creare musica insieme.
Un lustro fa, l’annuncio di questo The Tipping Point, che aveva fatto battere forte il cuore a tanti fan ormai rassegnati alla scomparsa della band. Le cose, però, non sono andate come previsto e i tempi si sono dilatati: la morte della prima moglie di Orzabal, i suoi successivi problemi di salute, il cambio di management e il passaggio da un’etichetta all’altra: ogni circostanza sembrava far propendere verso scenari pessimisti, alimentava il dubbio circa la realizzazione dell’album o la sua eventuale caratura artistica. E invece…
Invece, The Tipping Point, a dispetto di tutto e di tutti, è un gran disco, un’opera che ha visto i due amici/nemici collaborare in un clima distensivo, grazie anche al nuovo approccio di Orzabal, che si è evidentemente rilassato, ha tenuto a bada la sua smania di controllo e si è aperto a quella collaborazione fattiva, che negli anni del grande successo era mancata, portando alla fuga di Smith dal comune progetto.
Il risultato sono undici canzoni arrangiate con rara eleganza, di una sostanza melodica piena e consapevole, che non ha avuto bisogno di riciclare vecchie idee, ma che, invece, ha saputo collocarsi nel panorama pop attuale, senza guardarsi alle spalle.
Solo a tratti giungono echi di un lontano e glorioso passato, e se è vero che lo stile è inconfondibile (quelle due voci che riconosceresti anche nella più assordante cacofonia), non c’è spazio per la nostalgia, ma solo per nuove intuizioni, per un approccio hic et nunc, per la visione di un pop che sa mutare pelle mantenendo intatta una sostanza di ganci irresistibili e classe cristallina. Ascoltate, ad esempio, "Break The Man", con le chitarre accordate come nella celebre "Pale Shelter", a evocare la leggerezza di una mattina di assolata primavera, e la ritmica così incredibilmente moderna e seducente, sottofondo ideale per nottate stilose: ecco la sintesi, ecco l’equilibrio, il passato e presente che convivono in un suono nuovo, che scarta dall’ovvio dell’autocitazione.
The Tipping Point è un disco arioso e vario, che gioca coi ritmi, che si apre alla malinconia di ballate spacca cuore, che cerca e trova la convivenza fra strutture complesse e immediatezza melodica, che sfodera un’omogenea simbiosi fra elettronica e strumenti acustici. Non c’è una sola canzone che non sia attrattiva, che non seduca a ripetuti ascolti, a partire dall’introduttiva "The Small Thing", immensa, a dispetto del titolo, un brano costruito per accumulo, che parte folk minimalista e si gonfia di umori soul, scorrendo verso un finale pieno, avvolgente, rumoroso.
Ogni brano è una delizia melodica, levigata dal velluto di arrangiamenti sobri e misurati. Forma che si fa sostanza, e viceversa. Il battito cupo di "My Demons", il cui incedere strizza l’occhiolino ai Depeche Mode, lo struggimento malinconico di "Rivers Of Mercy", vertice emotivo dell’album e appendice 2.0 alla "Mercy Street" di gabrielliana memoria, la tensione drammatica che pervade "Master Plan" e la coccola al miele di "Please Be Happy", sono momenti di musica destinati a farsi amare nel tempo. Perché The Tipping Point non è solo uno dei dischi più intensi ascoltati in questa prima parte dell’anno, ma un vero e proprio instant classic, che riaccende la luce sulla storia di una band che nessuno potrà mai dimenticare. Anche se dovessero passare altri diciotto anni per un nuovo disco.
VOTO: 8
Blackswan, giovedì 10/03/2022
1 commento:
ottimo davero
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