Nata nel 1993 con il nome di Mistery Tribe (poi cambiato in Madder Mortem nel 1997) la band norvegese, composta da Agnete M.Kirkevaag (voce), BP M. Kirkevaag (chitarra e voce), Anders Langberg (chitarra), Tormod L. Moseng (basso) e Mads Solås (batteria), ha mantenuto in questi trent’anni un livello davvero alto d’ispirazione.
Otto album all’attivo, l’ultimo dei quali è questo Old Eyes New Heart,
in cui il gruppo ha sviluppato un’espressività creativa assoluta,
uscendo spesso e volentieri dallo steccato del genere metal, per
esplorare, sperimentare, e mescolare attitudini diverse. Post metal o
progressive metal poco importa; ciò che conta è che i Madder Mortem
abbiano dato sempre pochi punti di riferimento all’ascoltatore, e
plasmato la materia con un approccio tecnico ed eclettico che, nel corso
degli anni, ha prodotto un suono meno inquietante e cupo degli esordi,
in favore di una maggior accessibilità (da non confondersi con
normalizzazione).
Cinque anni dopo il precedente Marrow (2018), la band torna con un nuovo album composto da dieci canzoni, ancora una volta non catalogabili in un unico genere, ancora una volta in grado di alzare l’asticella di un suono progressivo e sperimentale. Anche se c’è una grande varietà nell’album, però, Old Eyes, New Heart suona comunque totalmente coeso, i momenti più duri, quando la band alza il tiro elettrico delle composizioni, non oscurano alcuno degli intricati arrangiamenti, la produzione scintillante mette ben in risalto quegli scarti dalla normalità che rendono avvincente la narrazione, e le ballate sottolineano, invece, il lato più fragile e intimo della band, grazie anche al timbro versatile e poliedrico della Kirkevaag, la cui voce sa graffiare, percuotere e dolcemente accarezzare.
Tutte
vivide sensazioni che nascono dal mood doloroso che permea l’album,
composto dopo la morte del padre della cantante e del chitarrista
(ricordato nelle note di copertina), trasformandolo in un condensato di
disarmante sincerità e di emozioni vivide e intense.
La prima cosa che si nota, già con la canzone di apertura, "Coming From the Dark" (probabilmente, il brano più progressive in scaletta), è la presenza di un maggior numero di dinamiche e momenti imprevedibili rispetto al precedente Marrow. Un inizio che la dice lunga sul livello d’ispirazione che permea la scaletta, punteggiata di grandi canzoni, quali la grintosa e aggressiva "The Head That Wears the Crown", la lunatica e cupa "Cold Hard Rain" e il singolo "Towers", in cui la band trae ispirazione dal grunge, dal post-metal (Tool) e dal rock degli anni '70.
"È stata una strada lunga e lenta, ma finalmente siamo a casa. Sono stati alcuni anni difficili, ma ora ne siamo fuori". Con questo messaggio di speranza, contenuto nell’emozionante e conclusiva Long Road, termina l’ennesimo disco di livello di una band, a cui il tempo ha concesso in dono un’identità che, per quanto immediatamente riconoscibile (la voce della Kirkevaag è un marchio di fabbrica), sfugge a facili etichettature ed è capace di rinnovarsi, album dopo album, senza perdere un briciolo del proprio misterioso fascino. Esattamente come suggerisce il titolo del disco.
VOTO: 7,5
GENERE: Prog Metal, Post Metal
Blackswan, lunedì 19/02/2024
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