giovedì 20 giugno 2024

Cat's In The Craddle - Harry Chapin (Elektra, 1974)

 


Il rimpianto di non essere stati una buona madre o un buon padre, di aver anteposto le proprie aspirazioni e le proprie necessità all’amore verso i figli, di aver scelto il lavoro, mettendo in secondo piano la famiglia. E’ questo il tema di Cat's In The Cradle, una canzone straziante, che racconta di un padre e un figlio che non riescono a programmare il tempo per stare insieme, una canzone che serve da ammonimento per tutti coloro che mettono la propria carriera prima della famiglia.

Le liriche descrivono la storia di un padre che, se anche riesce a soddisfare i bisogni materiali del proprio figlio, non ha mai abbastanza tempo di qualità da passare con lui, a causa del lavoro che lo assorbe completamente e lo porta lontano da casa. Inizialmente, questo non sembra un grosso problema, a causa della sua vita frenetica e dei pensieri che sono sempre, esclusivamente dedicati alla propria carriera. Nel corso degli anni, però, sia il padre che il figlio si trasformano, in uno scambio di ruoli imposti dalla vita. Il padre, che ha realizzato materialmente le ambizioni di suo figlio, ora vuole trascorrere più tempo con lui, ma lentamente si rende conto che suo figlio non ha più tempo per queste cose. Il figlio è cresciuto, ha anche lui dei figli e un lavoro frenetico, che lo assorbono completamente e lo tengono lontano dal padre ormai invecchiato. Con il cuore gonfio di dolore, papà si rende conto che il suo ragazzo è diventato esattamente come lui (la strofa ricorrente in cui il figlio dice: "Sarò come te, papà, sai che sarò come te...").

Questa canzone è basata su una poesia scritta dalla moglie di Harry, Sandy. Sandy, ogni volta che faceva un lungo viaggio, ascoltava musica country, e una notte ascoltò un brano, di cui non ha mai saputo ricordare l’autore e il titolo, che raccontava di una vecchia coppia, seduta al tavolo della colazione, che guardava fuori dalla finestra, osservando un’altalena arrugginita, e ricordando i bei vecchi tempi, quando in giardino giocavano i loro figli.

Harry e Sandy avevano da sempre l’abitudine di confrontarsi sulle reciproche attività (lei, insegnante e poetessa, lui, musicista), scambiandosi i rispettivi scritti, in modo che potessero essere migliorati attraverso la prospettiva dell’altro. Quando Sandy mostrò a Harry il testo di Cat's In The Cradle, il marito si limito a dire che la trovava interessante. Solo quando nacque suo figlio, Chapin si ricordò di quella poesia scritta dalla moglie e la trasformò in una canzone. Da quel momento, Harry ha sempre presentato il brano a tutti i suoi concerti, dicendo: "Questa è una canzone che mia moglie ha scritto per darmi una scossa, perché non ero a casa quando è nato nostro figlio Josh".

Ironia della sorte, Harry non ha mai potuto veder il proprio figlio diventare adulto. Il 16 luglio 1981, a soli 38 anni e all'apice della carriera, morì per un arresto cardiaco a seguito di un terribile incidente stradale. Chapin fu sepolto nell'Huntington Rural Cemetery, nella Contea di Suffolk, New York. Il suo epitaffio sulla pietra tombale è tratto dalla sua canzone I Wonder What Would Happen to This World: “Oh, se un uomo cercasse di prendersi il suo tempo sulla Terra e provare prima di morire che cosa potrebbe valere la vita di un uomo, mi chiedo cosa potrebbe succedere a questo mondo”.

Sandra Chapin (Sandy), invece, è ancora viva, ha novant’anni e gestisce la Harry Chapin Foundation, che continua a sostenere le cause per cui Harry si è battuto durante la sua breve vita (Chapin era anche un filantropo impegnato a combattere per la fame nel mondo ed è stato l’ispiratore di Usa For Africa e Live Aid). Anche se Sandy lavora molto per la fondazione, il suo focus, però, è la famiglia e il suo ruolo di nonna a guardia di sei nipotini scatenati, con cui cerca di passare più tempo possibile. D’altra parte, che altro ci si può aspettare dalla donna che ha scritto Cat's In The Cradle?

 


 

 

Blackswan, giovedì 20/06/2024

martedì 18 giugno 2024

Sebastian Bach - Child Within The Man (Reigning Phoenix Music, 2024)

 


Tra la fine degli anni ’80 e la metà del decennio successivo, gli Skid Row hanno rappresentato una delle realtà più eccitanti della scena metal, conquistata grazie alla pubblicazione di tre album di altissimo livello, il primo, omonimo debutto del 1989 orientato verso l’hair metal, gli altri due, Slave To The Grind (1991) e Subhuman Race (1995) dal suono decisamente più duro. A capo della band, il frontman Sebastian Bach, ugola d’ora e perfetta incarnazione dello spirito selvaggio che qualche anno prima animava (e devastava) il Sunset Strip (quantunque la band fosse originaria del New Jersey).

Eccessi di alcol e droghe, visioni artistiche diverse e, soprattutto, l’avvento del grunge, che aveva oscurato gli Skid Row e tante altre band, il cui suono era diventato anacronistico, portarono all’allontanamento del cantante e al successivo scioglimento del gruppo, che tornò sulle scene solo otto anni dopo, ma senza lo stesso successo.

Bach non è certamente rimasto con le mani in mano, e oltre a pubblicare, con molta calma, a dire il vero, quattro album solisti, ha dato vita a una parallela carriera di attore, che lo ha visto calcare il palco di numerosi musical in quel di Broadway.

Dopo ben dieci anni dall’ultima pubblicazione (Give ‘Em Hell del 2014) Bach pubblica Child Within The Man (la copertina, non proprio accattivante, è del padre, il pittore David Bierk), contenente undici canzoni che raccontano il percorso verso la maturità e, in parte, della riconciliazione di Bach con il proprio passato. Non che l'ex cantante degli Skid Row abbia rimpianti o un acuto senso di nostalgia, ma l’album riflette sugli anni che passano e sul diventare vecchi, dimostrando quella consapevolezza (anche sociale) che era mancata negli anni d’oro della band, quando ogni scusa era buona scassarsi e scassare tutto. E quando Bach, bell’ultima traccia del disco, l’intensa power ballad "To Live Again", canta “Prova, volta pagina, lascia dietro di te gli errori stantii", il senso del tutto appare chiarissimo.

Child Within The Man, registrato negli studi Barbarosa, in Florida, con la complicità di guest star del calibro di John 5, Steve Stevens e Orianthi, non aggiunge niente di nuovo a quanto già conosciamo dell’espressione artistica del cantante. D’altra parte, dicono che se una cosa non è rotta, è inutile provare ad aggiustarla. Ed è questo l’adagio che Sebastian Bach ha adottato con la musica per tutta la sua carriera: anche qui, sfrutta i suoi punti di forza, il che significa che Child Within The Man non sorprende ma è assolutamente, dannatamente, rock. Insomma, c’è tutto quel che serve a un gran disco: riff tonitruanti, irresistibili hook e ovviamente, proprio quella voce lì. Che è più ispida e mostra qualche ruga, certo, ma che tiene ancora botta senza forzature e grazie alla maturità raggiunta da chi sa esattamente come giocarsela, scegliendo con cura le note alte che può ancora raggiungere.

Questa è musica che affonda le sue radici nella scena del Sunset Strip di fine anni '80, ma che riesce anche a indossare abiti più moderni e alternative, come in "About To Break" e "What Do I Got To Lose?", questa scritta in condominio con Myles Kennedy (Alter Bridge). Ciò che conta è che in scaletta non ci sono filler e tutto suona che è un piacere, grazie a brani potenti come "Vendetta", "Everybody Bleeds", "F.U." e "(Hold On) The Dream", che riportano alla luce gli anni d’oro degli Skid Row, evocando al contempo Motley Crue e Guns.

Dopo dieci anni dall’ultimo disco pubblicato, Sebastian Bach torna più in forma che mai, con un disco vibrante e senza sbavature, capace di ingenerare più di una lacrimuccia di nostalgia a quanti hanno amato gli Skid Row e hanno lasciato il cuore da qualche parte, laggiù nel rutilante Strip, un luogo in cui, per qualche anno, il rock‘n’roll non è mai stato così selvaggio. 

Voto: 7,5

Genere: Hard Rock




Blackswan, martedì 18/06/2024

lunedì 17 giugno 2024

Sonic Universe - It Is What It Is (EarMusic, 2024)

 


E’ quasi inevitabile, per approcciarsi a questo disco, fare un accenno ai Living Colour, leggendaria metal band newyorkese, di cui si ricordano soprattutto le gesta fra la fine degli anni ’80 e l’inizio del decennio successivo, e il cui suono è stato seminale per numerosi gruppi nati successivamente. Un filotto di tre album in cinque anni (altri arriveranno successivamente a cadenze più dilatate), attraverso il quale i Living Colour crearono un suono meticcio (ai tempi si parlava di crossover), nel quale confluiva metal, hard rock, funky e tanta, tanta musica nera.

Di quella straordinaria macchina da guerra, di cui non possiamo non ricordare la super hit "Cult of Personality", Corey Glover era il pirotecnico cantante, un frontman, il cui straordinario carisma risultava appena sfocato dalla presenza nella line up di Vernon Reid, funambolico chitarrista dal retroterra jazz prestato al rock. Oggi, Glover, dopo l’avventura con i Disciples Of Verity (Pragmatic Sanction del 2020), torna più pimpante che mai con un nuovo progetto, questi Sonic Universe, un super gruppo composto anche dal chitarrista e produttore Mike Orlando (noto per la sua militanza negli Adrenaline Mob), il bassista Booker King e il batterista Taykwuan Jackson.  Quattro musicisti con una storia e un background diversi tra loro, tutti dotati di grande tecnica e tutti vogliosi di divertirsi, mettendo al servizio delle dieci scintillanti canzoni in scaletta un solido bagaglio di esperienza e di svariate influenze.

Questo approccio leggero, di puro divertissement, si coglie immediatamente fin dal primo ascolto: la sensazione, pur nel contesto di un sognwriting ragionato e ispirato, è quella di assistere a una sorta di jam session, gli strumenti sbrigliati e le idee libere di fluire, circostanza che, talvolta, allunga il minutaggio dei singoli brani ben oltre i canonici standard.

Poco male, perché la proposta è tutta di prim’ordine. Glover non ha perso un grammo dello smalto dei bei tempi andati, la sua voce, capace di diverse sfumature, è ancora potente, e gli acuti spiccano spesso il volo per librarsi liberi nel cielo. La sezione ritmica è aggressiva e furibonda, martella all’occorrenza, e quando serve sbriglia la fantasia in tempi spezzati e in levare, mentre Mike Orlando è un’ira di Dio, forgia riff grintosi, e si abbandona ad assoli al fulmicotone, tecnici, rapidissimi e, soprattutto, fantasiosi. Virtuosismi, certo, ma mai ridondanti, nulla che appesantisca la dinamicità di un disco, in cui è il groove la vera forza propulsiva.

Chiamatelo crossover, alternative o funk metal, poco importa: in It Is What It Is non si fanno prigionieri, sia in quelle canzoni che sfoggiano devastanti riff che chiamano alla memoria Tom Morello e i suoi Rage Against The Machine (l’iniziale "I Am", la feroce "My Desire"), sia quando la band rallenta leggermente il passo (il funky blues dell’intensa "Whisper To A Scream") o quando partono assalti all’arma bianca, coltello fra i denti e il cuore che batte dalla parte dei Living Colour (la title track e "Higher"). Insomma, la tensione è sempre massimale e l’adrenalina alle stelle, grazie anche a una produzione tonitruante ma non bombastica.

Che il progetto sia destinato a durare nel tempo, è prematuro immaginarlo oggi; ciò che conta davvero, hic et nunc, è che i Sonic Universe siano entrati in scivolata nel panorama metal moderno, portando in dono una dose cospicua di vitalità e tecnica da fuoriclasse, e un disco che gli appassionati del genere ascolteranno alla consunzione.

Voto: 8

Genere: Metal




Blackswan, lunedì 17/06/2024

giovedì 13 giugno 2024

MGMT - Loss Of Life (MGMT Records, 2024)

 


Quando nel 2007, il loro debutto, Oracular Spectacular, si trasformò in un sorprendente successo, Andrew VanWyngarden e Ben Goldwasser avrebbero potuto imboccare la strada più facile, tentando di replicare il mood di quelle canzoni avvolte in una brillantezza luminescente.

Invece, da allora, hanno tracciato un nuovo percorso, misurandosi con lo psych-folk e l’acid-rock, dando alle stampe due dischi non proprio centrati (Congratulations del 2010 e MGMT del 2013), e più recentemente con il synthpop, pubblicando l’eccellente Little Dark Age (2018), un album tanto riuscito da potersi posizionare alla stessa altezza del loro debutto.

Con il loro quinto album in studio, Loss of Life, la band azzecca un delizioso punto d'incontro tra la le sonorità psych-pop dei loro primi lavori e la loro nobile determinazione nel cercare qualcosa di sempre diverso, che in questo caso lambisce i territori di un soft pop dai contorni leggermente umbratili.

Questo non vuol dire che gli MGMT abbiano rinnegato il loro consueto approccio surreale e ironico, basti pensare che l’album si apre con "Loss of Life, Part 2", un titolo che starebbe bene a chiusura dell’album, che è invece affidata alla title track.

Loss of Life inizia veramente con la seconda traccia "Mother Nature", un brano che suggerisce una certa influenza brit pop, grazie a melodie vocali accattivanti, nitide chitarre acustiche e un retrogusto vagamente nostalgico. L'esplorazione del duo continua con una ballata potente, "Dancing in Babylon", melodrammatica, ma non ampollosa, e rigogliosa di rimandi agli anni ‘80, mentre "Bubblebum Dog" e "People In The Streets" chiamano in causa addirittura David Bowie, la prima più glam e barocca, la seconda decisamente lunatica.

Ogni canzone di Loss of Life ti porta in viaggio attraverso dimensioni parallele, e così "Nothing to Declare" sembra una semplice canzone folk prima di turbinare in una cacofonia di ticchettii di orologi e contrappunti di chitarra acustica a spirale, mentre "Nothing Changes" è oscura e si sviluppa lentamente, giungendo a un climax di lussureggianti cori, fiati e batteria.

Come già successo in passato, nella loro visione psichedelica e, prevalentemente, divertita, anche in Loss Of Life, gli MGMT mescolano ironia e contemplazione, trovando in questo nuovo lavoro un equilibrio che altre volte era mancato. Dopo aver trascorso gran parte della loro carriera sotto contratto con una major, gli MGMT sembrano aver trovato qui lo spazio per produrre il tipo di musica che desiderano, senza vincoli e sacrifici. La tensione ansiosa delle aspettative insoddisfatte che incombeva su di loro, dopo il brillante esordio, sembra scomparsa, e questo mood più rilassato puoi percepirlo in modo palpabile nelle canzoni. Manca, dopo un paio di ascolti è evidente, l’hook melodico spacca classifiche, ma il livello di queste canzoni testimonia un ritrovato afflato d’ispirazione, lo stesso che attraversava il precedente Little Dark Age.
 
Voto: 7,5
Genere: Pop



Blackswan, giovedì 13/06/2024

martedì 11 giugno 2024

Olivier Norek - Codice 93 (Rizzoli, 2024)

 


Benvenuti nel dipartimento 93, dove insieme alla squadra di Coste scenderete nei sottoscala più inquietanti per incontrare un’umanità variegatissima; dove crimine, perdizione e senso di giustizia si miscelano in pagine che corrono veloci, e dove Olivier Norek ci presenta l’irresistibile capitano Coste, che guida un gruppo di fedelissimi senza mai perdere il suo profondo senso di umanità.

 

Il corpo di un uomo viene ritrovato a notte fonda in un capannone. Sembra morto, ma durante l’autopsia improvvisamente si risveglia. Successivamente, viene ritrovato il cadavere di un giovane completamente carbonizzato, la cui identità svela il collegamento con una ragazza tossicodipendente, di cui nessuno ha mai reclamato il corpo, deceduta mesi a seguito di indicibili sevizie. A capo delle indagini vengono messi il capitano Coste e la sua squadra, i quali si trovano a indagare su quelli che sembrano crimini apparentemente senza senso.

Mentre la stampa imbastisce un circo mediatico sugli avvenimenti, Coste scopre che dietro ai reati si nasconde un grave caso di corruzione e insabbiamento, i cui responsabili si celano all’interno del suo dipartimento.

Inizia così l’intricata vicenda di Codice 93, che porterà alla luce i segreti di una nobile famiglia decaduta, mentre in un’escalation di violenza e sangue, la carriera di Coste viene messa a rischio da parte di chi ha tutto l’interesse a tenere nascosti i colpevoli.

Il mood cupo, lo sfondo della pericolosa banlieue parigina, e i numerosi colpi di scena, fanno di questo romanzo un noir accattivante, nonostante i ritmi non siano serratissimi. L’intreccio regge ed è ben strutturato, eppure Codice 93 non è esente da pecche. Nulla da dire sulla scrittura, che è rapida, asciutta, e perfettamente funzionale al genere; ciò che manca, però, è l’approfondimento psicologico dei personaggi, che restano sfumati e privi di personalità, cristallizzati e stereotipati in quelli che sono clichè tanto ovvi quanto abusati. Inoltre, Norek, talvolta, si fa prendere la mano, indulgendo in scene di violenza gratuita, che superano i limiti dello splatter, senza che vi sia necessità alcuna di trascendere nel grandguignolesco.

Fatti questi appunti, lo svolgimento del romanzo resta intrigante grazie alla trama ben congegnata e, pur senza grandi picchi, si arriva alla fine del libro soddisfatti, per quella che è una lettura poco impegnativa, perfetta da consumarsi sotto l’ombrellone, durante le vacanze estive.

 

Blackswan, martedì 11/06/2024

lunedì 10 giugno 2024

Sivert Hoyem - On An Island (Hektor Grammofon, 2024)

 


Quando nel 2022 i norvegesi Madrugada si riaffacciano sulle scene dopo uno iato lunghissimo, durato ben quattordici anni, i fan della band, molti dei quali convinti che quel progetto si fosse estinto per sempre, tirarono un sospiro di sollievo, rimanendo incantati, oltretutto, per lo splendore di quel nuovo Chimes Of Freedom. Evidentemente, quel lasso di tempo trascorso lontano dalla casa madre, dovuto soprattutto alla morte dell’amico e chitarrista Robert Buras, è servito non solo a rielaborare il lutto, ma anche a mettere ordine alle idee e a vedere se fosse ancora possibile fare musica tutti insieme. Nel frattempo, il leader Sivert Høyem ha continuato a pubblicare dischi in solitaria, l’ultimo dei quali, Lioness, risale al 2016.

Otto anni di attesa che, come per il ritorno dei Madrugada, dimostrano quanto, talvolta, prendersi del tempo serva ad affinare la scrittura, a porre attenzione soprattutto alla qualità, scegliendo con cura il meglio per produrre dischi di alto livello.

E’ il caso anche di questo On An Island, uscito a inizio anno, e registrato in presa diretta in una vecchia casa di preghiera chiamata Zoar, a Nyksund, un piccolo villaggio di pescatori situato nella contea di Nordland, terra aspra e pittoresca in cui il cantante è cresciuto. Un luogo ameno e un ambiente semplice e rustico, che rispecchiano perfettamente i contenuti di questo nuovo lavoro, tanto scarno quanto attraversato da palpiti nostalgici, struggente malinconia, e avvolto in un alone soffuso di oscura spiritualità.

Høyem ha portato con sé in sala di registrazione gli amici Christer Knutsen e Børge Fjordheim, per dare vita a una sorta di concept, quanto mai autentico e organico nel suo dipanarsi, che raccontasse il decadimento delle sue terre, il cui fascino sembra essersi dissolto alla luce del progresso e della mano dell’uomo, indifferente di fronte alla bellezza della natura e tradizioni culturali ataviche.

Una musica, quella contenuta in On An Island, che ricorda molto da vicino il blues crepuscolare dei Madrugada, declinato, però, con accenti folk rock e un pizzico di gospel. Un disco, questo, che, pur evocando la casa madre, manca dell’urgenza espressiva della band, per concentrarsi, invece, su una narrazione intima, meditabonda, pervasa di una dolcezza che spesso vira verso sentori agri e dolenti, una scaletta che sembra fatta di niente, e che tuttavia è traboccante di rimpianti, di cose e persone andate per sempre, di un amore arrugginito, che vorrebbe rinascere, ma che non è più corrisposto.

On An Island è, soprattutto, uno sguardo sul presente filtrato dai ricordi del passato, è un luogo famigliare divenuto respingente, del quale, però, socchiudendo gli occhi è ancora possibile cogliere l’antico selvaggio incanto, il variopinto stagliarsi sull’orizzonte delle case dei pescatori, lo sciabordio della risacca, il pungente sentore di salsedine, l’eco del folklore norreno trasportato dalle folate di un vento gelido e gravido di presagi.

E’ ciò che si può cogliere fin dalla title track, la cui chitarra riverberata evoca solitudine e spazi infiniti, e il baritono da crooner di Høyem si dipana come una struggente elegia. Intensa, totalizzante. Un brano scarno, la cui purezza francescana travolge di emozione, come un’inaspettata e definitiva rassegnazione.

"Two Green Feathers" possiede, invece, una struttura più convenzionale e arrangiamenti più solidi, ma non per questo è meno incisiva: la malinconia stritola il cuore, il ritornello (magnifico) lo accarezza, mentre intorno all’ascoltatore si fa densa un’inquietudine noir che sgomenta.  

"When Your True Love Is Gone" vira verso una declinazione più folk e, sorge quasi inevitabile l’accostamento a certe ballate mestissime di Leonard Cohen. Sono davvero pochi i barbagli di luce in un disco in cui sono il crepuscolo e la notte i veri protagonisti. "In the Beginning" è una ballata d’amore disperata (“Tu dai significato alla follia”), in cui la voce di Høyem è quasi trasfigurata, così come in "Aim For The Heart", in cui è ancora l’amore, nella sua accezione più dolorosa, a farla da padrona (“Cause Only Love Will Kill You Twice, It Leaves On Yor Name a Sweet Little Stain, Like A Train In A Station Late At Night, It Passes Like Thunder Though Your Life”), mentre "The Rust" si sviluppa, scarna e sensuale, su un battito trip hop che sorregge il baritono profondo del cantante.

"Keepsake" porta con sè un po’ di leggerezza grazie a una volatile melodia pop da camera, mentre la voce cavernosa di Høyem scava l’anima. Ma è solo fugace intermezzo, prima che "Now You See Me, Now You Don't" riporti le tenebre sulle trame di un blues drammatico, che si carica di tensione in un finale crudo e palpitante. Chiude l’emozionante "Not Enough Light", ennesima ballata crepuscolare che sembrerebbe presa da un album dei Pearl Jam, se non fosse per quel violino che le attribuisce un vago sentore country.

On An Island è un disco formalmente scarno, essenziale e lineare, ma in queste nove superbe canzoni, si nasconde molta più vita di quella che si potrebbe immaginare a un primo ascolto superficiale. Amore e disperazione sono la chiave di lettura di un romanticismo decadente, in cui il cuore è la vittima sacrificale di una musica sospesa al limitare della notte, quel confine sfumato in cui si affastellano ombre, fantasmi, ricordi, e amori, definitivamente perduti. Perfetta colonna sonora di uno straziante soliloquio interiore.

Voto: 9

Genere: Singer Songwriter, Folk, Blues

 


 

 

Blackswan, lunedì 10/06/2024

giovedì 6 giugno 2024

Thomas Frank Hopper - Paradize City (Vrec Music Label, 2024)

 


Chi, come il sottoscritto, ebbe modo di ascoltare (e innamorarsi di) Bloodstone (2022), esordio del chitarrista belga Thomas Frank Hopper, probabilmente si rese conto di avere a che fare con un giovane talento, a cui il futuro avrebbe riservato ampie soddisfazioni. Due anni dopo, se è vero che il grande salto nel panorama rock internazionale deve ancora arrivare, è chiaro, però, che, quanto meno da noi, grazie anche all’egida dell’italianissima Vrec Music Label, Hopper si è costruito una solida schiera di fan.

Non solo perché il progetto musicale del chitarrista belga pesca a piene mani dal bacino rock blues di settantiana memoria, che continua ad avere stuoli di estimatori, ma anche perché il suo evidente revivalismo suona tutt’altro che fiacco e stereotipato. Anche in questo nuovo Paradize City ci sono idee, freschezza, consapevolezza nella scrittura e, soprattutto, tanta passione. Tutti elementi, questi, che faranno drizzare le antenne ai tanti amanti del classic rock, che, da queste parti, troveranno pane per i loro denti.

A dimostrazione che il giovane Hopper abbia più di una freccia al proprio arco, questo eccellente sophomore ampia la gamma espressiva dell’esordio: se, infatti, Bloodstone era un album più spontaneo, immediato, grezzo e, nell’accezione migliore del termine, anche un po’ ingenuo, Paradize City risulta, invece, essere un lavoro più ragionato, le canzoni si sono arricchite di ulteriori elementi (l’hammond suonato dal bravo Maxime Siroul) e si percepisce la chiara volontà di provare a mettere un piede fuori dalla comfort zone di un rock blues aggressivo e sfrontato.

Accompagnato da una backing band perfettamente funzionale al progetto e tanto tecnica quanto potente (Diego Higueras alla chitarra, Jacob Miller al basso e Nicolas Scalliet alla batteria), il ragazzo belga mette in evidenza ottime qualità vocali (quel timbro di plantiana memoria, che spesso evoca il fantasma dei Led Zeppelin) ed è bravo ad armonizzare il proprio talento alla sei corde con la restante strumentazione, evitando di rubare la scena con inutili virtuosismi, ma mettendo la propria chitarra al servizio delle canzoni.

E’ evidente che dischi di questo tipo paghino debito ai grandi eroi del passato (Hendrix, Cream, i citati Led Zeppelin, etc.) e possano essere imparentati ad altre band coeve, affascinate dai suoni vintage (i primi Black Keys, i Rival Sons, per citarne un paio); tuttavia, sarebbe riduttivo francobollare queste dieci ottime canzoni solo come mero copia incolla di un retaggio lontano nel tempo.

In tal senso, Paradize City trabocca di fisicità e vibrante divertimento, i brani esibiscono un riconoscibile dna, ma centrano il bersaglio con inusitata efficacia e sicurezza, sia quando esibiscono con grinta muscoli oliati e guizzanti (l’uno due da ko delle iniziali "Troublemaker" e "Tribe"), sia quando si imbellettano di psichedelia anni ’60 (l’evidente riferimento ai Doors di "Chimera"), sia quando abbracciano un’incalzante e ruffiana orecchiabilità (la title track) o giocano con elementi folk (la splendida e zeppeliniana "Dog In An Alley").

E quando, come un treno in corsa che non fa fermate, parte la travolgente "April Fool", è evidente che Hopper sappia maneggiare con autorevolezza anche il blues più classico. Un ulteriore plus di un disco, che non inventa nulla, certo, ma esibisce una traboccante passione capace di abbracciare con ardore sessant’anni di musica rock.

Voto: 7,5

Genere: Blues, Rock 




Blackswan, giovedì 06/06/2024

martedì 4 giugno 2024

Sam Stone - John Prine (Atlantic Records, 1971)

 


Quarta traccia dell’album dall’omonimo debutto di John Prine (1971), Sam Stone parla di un veterano di guerra (ovviamente della guerra del Vietnam, anche se non è menzionata esplicitamente), che, tornato a casa, combatte i propri demoni con la droga e muore di overdose. Una storia tristissima e un destino che, ai tempi, aveva accumunato tanti reduci, incapaci di superare gli orrori di quell’assurdo conflitto. In tal senso, l’incipit della canzone, racchiude in poche righe il dramma del soldato Sam Stone e di molti suoi commilitoni:

Sam Stone è tornato a casa dalla moglie e dalla famiglia

Dopo aver prestato servizio nel conflitto all'estero.

E il tempo in cui ha prestato servizio,

Gli aveva scosso tutti i nervi

E gli ha lasciato una piccola scheggia nelle ginocchia.

Ma la morfina ha alleviato il dolore

E l'erba gli cresceva attorno al cervello

E gli ha dato tutta la fiducia che gli mancava” 

La droga è l’unica medicina contro gli incubi, l’unico lenimento a ferite che non potranno più rimarginarsi, ma ti costringe a vivere “con un cuore viola e una scimmia sulla schiena”. 

Sam fa fatica ad abituarsi alla vecchia vita, cerca un lavoro, ma i soldi dello stipendio non bastano a foraggiare la sua dipendenza:  

Il benvenuto a casa di Sam Stone

Non è durato troppo a lungo.

Andò a lavorare quando ebbe speso i suoi ultimi centesimi

E Sammy cominciò a rubare

Quando ha avuto quella sensazione di vuoto

Per un'abitudine da cento dollari senza straordinari.” 

Completamente in balia della sua dipendenza, Sam si ritrova a rubare, e non può farne a meno, perché l’eroina “è l'oro (che) gli scorreva nelle vene come mille treni ferroviari, e tranquillizzava la sua mente nelle ore che sceglieva”. 

Il dolore, però, non cessa, gli incubi tornano ogni notte, il lordume del male e della ferocia insozzano le sue ore, giorno dopo giorno, e la quantità di droga aumenta, sempre più, fino a quando giunge, quasi anelato, l’esiziale abbraccio della morte: 

Sam Stone era solo

quando ha fatto scoppiare il suo ultimo palloncino.

Arrampicarsi sulle pareti stando seduti su una sedia.

Bene, ha giocato la sua ultima richiesta

mentre la stanza puzzava proprio di morte

con un'overdose che aleggia nell'aria.

Ma la vita aveva perso il suo divertimento

Non c'era niente da fare.” 

Il climax di questo dolorosa vicenda risiede tutto nel ritornello, che John Prine aveva pensato prima di tutto, prima di ricamarci intorno un’intera canzone. All’improvviso, vicino a Sam si materializza una figura, che è quella di sua figlia, e la decisione di lasciarsi morire diventa così ancora più drammatica, perché il reduce ha una piccola da accudire, una bambina dalla quale ricevere amore, una speranza da cullare. Una bambina che capisce, che sente il dolore, consapevole come, a volte, solo i bambini riescono a essere: 

C'è un buco nel braccio di papà, dove finiscono tutti i soldi

Gesù Cristo è morto per niente, suppongo

Nelle intenzioni di John Prine, questa canzone doveva essere diversa da tutte le altre che parlavano della guerra in Vietnam. Serviva una nuova prospettiva, che non fosse esclusivamente politica e di protesta, che non fosse quella di un inno da cantare durante un corteo. Prine voleva parlare dei soldati, ma voleva, soprattutto, focalizzare la dimensione privata e intima di una tragedia collettiva.

Lo stesso songwriter lo spiegò chiaramente durante un’intervista alla rivista Uncut: “Tutti i miei amici sono tornati a casa e mi hanno cambiato. Non erano più gli stessi. Stavo cercando di spiegarmelo, ed è così che ho scritto Sam Stone. Non ero un manifestante o qualcosa del genere. Stavo cercando di capire perché questa folle guerra stava accadendo e cosa stava passando la gente laggiù. Eravamo cresciuti con John Wayne e la Seconda Guerra Mondiale, ma questo era l'opposto di quello."

 


 

 

Blackswan, martedì 04/06/2024

lunedì 3 giugno 2024

Loren Kramar - Glovemaker (Secretly Canadian, 2024)


 

Resterà, probabilmente, il segreto meglio custodito di questo 2024, ed è un vero peccato. Perché Glovemaker, album d’esordio del losangelino Loren Kramar, è un disco di una bellezza disarmante, uno di quelli che bisogna farsi violenza per togliere dal lettore, e che finisce per lasciare l’ascoltatore sospeso in un limbo in cui non esiste altro, se non una voce splendida e melodie senza tempo, che sbriciolano il cuore senza pietà.  

Aspirazione estatica. Dubbio. Prossimità. Desiderio. Passione. Il songwriter californiano si imbelletta il volto e veste i suoi colori più sgargianti, si pone al centro della scena, anela visibilità, desidera la gloria e tutti gli occhi addosso. Lo dice con sincerità disarmante: “sono una troia per tutti i miei sogni, faccio la puttana per loro”. E’ questo il succo di Glovemaker, un disco che parla degli abiti che indossiamo per essere visti dal mondo, per contare qualcosa. E’ un anelito che riguarda tutti, la nostra vita di comuni mortali, in cui ogni cosa è esposta, e non vogliamo, non possiamo nasconderci, non importa quali guanti indossiamo.

Siamo lì, ogni giorno, al centro della scena. Non è vanità, non è ricerca dell’effimero, è semplicemente vita, dare un senso all’esistenza, travalicare l’assunto pirandelliamo dell’uno, nessuno, centomila. Uno basta: è Kramar, siamo noi.

I testi del songwriter losangelino assumono le sembianze di deliziosi orpelli, luccicando coraggiosamente, e poi, altrettanto velocemente, arricciandosi, si trasformano in fragilità da esporre sotto i riflettori, con l’unico pudore della dignità. Kravar è sempre stato ossessionato dalla fama, non quella acquisita tramite il successo, ma quella che nasce dall’insopprimibile desiderio di essere visti davvero. Lui, un bambino cresciuto nella Valley, costretto a nascondere le sue Barbie al padre, chiuso in un stanza brulicante di sogni di libertà, viveva l’aspirazione di essere conosciuto per ciò che era, senza nascondersi, senza fare carte false per mistificare la propria sessualità.

Un ragazzino consapevole di essere gay, e che, come tutti i ragazzini, sognava un futuro avvincente, un futuro da star. Sogni che potevano svanire di fronte al pane duro dell’esistenza, che non fa sconti alla diversità, e che invece si sono realizzati grazie alla mamma di Loren, che lo portò segretamente a prendere lezioni di tip tap, jazz e pattinaggio artistico.

Oggi Kravar può finalmente cantare, senza paura, come fa in "Hollywood Blvd", “ho mani e piedi da mettere nel cemento”, una canzone, questa, che risuona della coraggiosa spavalderia di chi vede il traguardo a portata di mano. In "Gay Angels", poi, il musicista ci ricorda che l’infatuazione per la celebrità è indissolubilmente legata alla sua diversità e al suo desiderio di vivere al di fuori della paura. Essere famosi significa essere fuori. Essere conosciuto. Essere se stesso.

Il disco, inoltre, è un'apertura estatica all'amore e alla solitudine, ai sogni e alle promesse, a tutto ciò che Los Angeles offre. Un omaggio alla rutilante metropoli, alla città delle infinite possibilità, raccontata, come già aveva fatto Lana Del Rey, con uno sguardo capace di spostarsi dalla luce del sole e dalla frenesia della gente, per creare nuovi spazi, e accompagnare l’ascoltatore attraverso bar bui, arene con luci stroboscopiche, bungalow con moquette beige e autostrade illuminate di giallo.

Un percorso tracciato da un mix scintillante di pop, soul, jazz e blues, in cui i lustrini di un appassionato tocco glamour evaporano, spesso, nell’intimismo della meditazione, nel languore vellutato di ballate che cercano l’estasi della malinconia. Un mondo musicale, quello di Kramar, in cui il musicista si prende tutto, le lacrime, i sorrisi, il rigoglioso affastellarsi di arrangiamenti eleganti e charmant, e la francescana purezza di melodie che toccano il cuore senza alcun artificio.

La citata "Hollywood Blvd" apre il disco con una grazia sopraffina, è Kramar che presenta al mondo il suo mondo, un avvolgente ballata soul pop, screziata di umori jazzy, che possiede la progressione melodica di alcuni brani dei Madrugada, attraverso una straordinaria interpretazione vocale, in cui un velluto baritonale convive con gli accenti di un melodrammatico falsetto. Una canzone strepitosa, la prima di una scaletta che non fa prigionieri, e che, ad esempio, ruba emozioni a mani basse con la melodia scarna e luminosa di "Euphemism", voce e handclapping a creare un miracolo di appassionato lirismo.

"I’m A Slut", un blues dall’incedere bizzarro, trova un’improvvisa svolta melodica in un ritornello sublime, mentre "Like A Lover" fluttua a mezz’aria in una leggerezza estatica che lascia senza parole ed evoca, nella voce e nella melodia, la musica celestiale di Anohni. Pianoforte e archi avvolgono di malinconia la voce appassionata di Kramar in "Gay Angels", un’elegia sospesa fra terra e cielo, un’estasi liberatoria che si gonfia in un’altra straordinaria progressione che ricorda ancora una volta i Madrugada. Il drumming cadenzato e la metrica scarna del pianoforte della title track aprono, invece, ad atmosfere jazzy, in cui la voce di Kramar veste i panni di Mark Hollis per un brano che sembra uscito da Spirit Of Eden.

C’è spazio anche per il divertissement sgangherato di "Birthday Thursday", prima che il disco viri verso un filotto di ballate da capogiro: echi sixties nel folk pop di "Whatever Happens", tensione melodrammatica nel doloroso memoire di 15 Years, ascensione spirituale nella vertigine estatica di "Oh To Be", struggimento malinconico nella meditabonda e conclusiva "No Man", che evoca nuovamente la celestiale bellezza di alcune canzoni di Anohni.

Glovemaker lambisce il capolavoro, termine che, spesso e un po’ frettolosamente, usiamo per album che non hanno la metà della caratura artistica di questo esordio. Il quale, ci scommetterei, pur destinato a restare un prodotto di nicchia, finirà nella top ten di chi avrà avuto la fortuna di ascoltarlo. Meraviglia.

Voto: 9

Genere: Pop

 


 

 

Blackswan, lunedì 03/06/2024