Gli
svedesi Fans Of The Dark sono in circolazione solo da quattro anni,
essendo nati nel 2020 da un’idea del batterista Freddie Allen e
dell’amico e cantante Alex Falk, ma hanno al loro attivo già tre album,
ultimo dei quali è questo Video. Loro sono una band un po’
cazzara, lo dico in accezione totalmente positiva, che ha come obiettivo
principale divertirsi e divertire e, soprattutto, omaggiare quelle
sonorità anni ’80 strettamente legate all’hard rock melodico e all’Aor.
Eppure,
il disco, leggero e divertente, nasconde riflessioni importanti. Il
concept che sta alla base di questo nuovo lavoro, il cui titolo è
decisamente esplicativo, è, infatti, quello di gettare uno sguardo
nostalgico indietro nel tempo, all’epoca in cui esistevano i negozi di
noleggio video, una sorta di centro di aggregazione (un po’ come i
negozi di dischi), in cui passavi del tempo per scegliere un film da
guardare, da solo o in compagnia.
Un
mondo lontanissimo da quello odierno piagato dal deficit
dell’attenzione, dal “tutto e subito” delle piattaforme streaming, un
luogo di scelte ponderate, di riflessioni, in cui la lentezza, valore
oggi completamente perso, regnava sovrana. Uscire di casa, entrare nel
negozio, scegliere, guardare, restituire. Il tempo che magicamente si
dilata, una vita che è più vita, che è confronto, conoscenza,
condivisione. Un mondo in cui, e torniamo alla musica, i dischi si
compravano, con oculatezza, e si ascoltavano, dall’inizio alla fine,
perché l’arte, oltre che un prezzo, aveva anche un valore, e si teneva
ben lontana da quello squallido fast food in cui si è trasformata con
l’avvento di Spotify e minchiate assortite.
Un
tema decisamente importante, declinato però con la leggerezza che si
conviene a queste dieci canzoni pimpanti, ruffiane, dall’alto tasso
melodico e radiofonico, che non si limitano a ispirarsi agli anni ’80,
ma ne emulano semmai il suono e l’inclinazione easy listening, con
rispetto e consapevolezza. Un disco, quindi, anacronistico e nostalgico,
che guarda a un mondo che non esiste più, ma che può essere riportato
alla luce grazie al potere lenitivo della musica. Pertanto, nessuna
sorpresa e tanti deja vù, per un risultato finale che convince grazie
alla scorrevolezza della scaletta e ai numerosi ganci melodici che
conquistano fin dal primo ascolto.
Parte
il riff di "Meet Me On the Corner" e la macchina del tempo riporta
l’ascoltatore indietro di quarant’anni e, quando inizia il ritornello,
l’hook conquista i padiglioni auricolari in un nano secondo. "Let’s Go
To Rent a Video", il brano che esplicita il concept del disco, possiede
un godurioso interplay fra chitarre e tastiere, e regala un altro
ritornello da far girare la testa agli amanti dell’arena rock in stile
Def Leppard.
Tutto
è risaputo, certo, ma tutto funziona benissimo: il tiro adrenalinico di
"The Neon Phantom", gli intrecci di chitarra che scartavetrano l’hard
rock ruffiano di "Christine", la botta energetica di "The Wall", l’Aor
di "Find Your Love", che evoca il nobile pedigree dei Journey, e il
passo lento ed emotivamente coinvolgente di "Tomorrow Is Another Day".
Video
è un disco di puro revival, né più né meno, ma è attraversato da quella
passione che rende vitali anche suoni radicati in un tempo lontano. Il
risultato è un album divertentissimo, che si gode al meglio alzando al
massimo il volume dello stereo, e che è in grado di suscitare più di una
lacrima in tutti coloro che di questo genere hanno fatto la propria
comfort zone.
Più esplicito di Nordic Gothic
è difficile. Se poi al titolo dell’album aggiungi anche una copertina
livida e catacombale, è evidente quale sia il genere musicale sviscerato
dagli scandinavi Cemetry Skyline (un nome, un programma). Questo è
l’esordio, difficile dire se episodio estemporaneo o progetto duraturo,
di un supergruppo svedese/finlandese che annovera fra le sue fila nomi
notissimi del panorama metal: Mikael Stanne (Dark Tranquillity, The Halo
Effect) alla voce, Markus Vanhala (Insomnium, Omnium Gatherum) alla
chitarra, Santeri Kallio (Amorphis) alle tastiere, Victor Brandt (Dimmu
Borgir) al basso e Vesa Ranta (Sentenced) alla batteria.
Una
line up dal pedigree nobilissimo, musicisti tecnicamente inappuntabili e
con una solida esperienza di songwriting alle spalle, dai quali ci si
aspetterebbe un disco molto più pesante di quello che, in realtà, Nordic Gothic
è. Ciò perchè l'idea principale che anima questo album era quella di
fare qualcosa di diverso rispetto a ciò che ciascuno dei componenti
della band ha fatto in passato, e il risultato finale è una scaletta
lunatica, melodica e malinconica, in cui le sonorità estreme sono
residuali in favore di un goth rock di facile fruizione, cantato
(sorpresa delle sorprese) da Mikael Stanne con timbro tanto pulito
quanto profondo e sensuale.
La
band aveva attirato l'attenzione di tutti questa primavera al momento
della pubblicazione del primo singolo, "Violent Storm", una canzone
lontana anni luce da ogni clichè metal, un brano dall’incedere
minaccioso, le cui atmosfere malinconiche e quelle tastiere dal suono
vintage anni ’80 facevano semmai pensare a musica presa in prestito dal songbook
di Billy Idol. La linea melodica del brano è semplice eppure
efficacissima, caratteristica, questa, comune alla maggior parte delle canzoni in scaletta, che guardano al cuore della notte, senza però mai
rinnegare un tiro dritto e diretto decisamente rock, che richiama alla
mente band come Cult, Mission o i più recenti Unto Others, e ritornelli
uncinanti, che evocano i Ghost e, in alcuni casi, anche gli Him.
Un
ottimo esempio in questo senso è il secondo singolo, "In Darkness", il
cui incedere aggressivo, chitarre potenti e ritmica quadrata, lascia
spazio alla consueta vena melodica che lo rende un brano piacione e di
immediata fruizione. Le cose cambiano un po' con il terzo singolo, "The
Coldest Heart", la cui introduzione di basso, lo scintillante riff di
pianoforte e il cantato da crooner di Stanne fanno pensare ai Simple
Minds di "Once Upon a Time", mentre "Torn Away" è un evidente omaggio ai
Sister Of Mercy e a quelle sonorità che spopolavano negli anni ‘80, così
come l’incalzante "The Darkest Night", caratterizzata da un
impressionante lavoro di Markus Vanhala alla chitarra.
Tra
le cose migliori del disco, poi, occorre segnalare "When Silence
Speaks", una ballata dolcemente malinconica, segnata dall’interplay fra
pianoforte e violoncello e dalla prova vocale maiuscola di Stanne,
mentre la lunga e ondeggiante "Alone Togher" chiude il disco con
sentimento, ma minore efficacia e molta prevedibilità.
Nel complesso, Nordic Gothic
è un disco assolutamente riuscito, testimonianza del fatto che anche
musicisti con un diverso background, se animati da una visione comune,
possono creare opere coese e ispirate. In tal senso, l’esordio dei
Cemetry Skyline raggiunge l’obbiettivo di offrire all’ascoltatore
cinquanta minuti di musica nebulosa, atmosferica e lunatica, capace di
conquistare con canzoni dirette, prive di artifici, ma estremamente
godibili.
Una canzone d’amore disperata, la presa di coscienza di un rapporto che è finito perché lui ha commesso troppi errori (“I was scared, I was scared, tired and under prepared”). In My Place
racconta, infatti, di un ragazzo che ama una donna che non lo ricambia
più. Lui le chiede di tornare e le dice che l’aspetterà per sempre,
anche se ormai non sa più se quel posto in cui attende sia il posto
giusto per lui. Fu lo stesso Chris Martin a spiegare il significato
della canzone a Billboard Magazine: "Riguarda il posto in cui ti
trovi nel mondo, il modo in cui ti viene assegnata la tua posizione, il
modo in cui appari e come devi andare avanti".
In My Place è stata scritta poche settimane prima che i Coldplay pubblicassero il loro album di debutto, Parachutes, ed è stata la prima canzone che la band ha registrato per A Rush of Blood to the Head.
I Coldplay in seguito le attribuirono il merito di aver dato loro la
fiducia necessaria per continuare dopo il travolgente successo
dell’esordio. Martin ha ricordato a Q Magazine, nel 2002: "Dopo aver
registrato Parachutes ci era rimasta una canzone: In My Place. A parte
questo brano, eravamo a secco e ho pensato: "Ecco, abbiamo finito". Ma
quando Jonny (Buckland, ndr) mi ha suonato con la chitarra quell’ultima
canzone rimasta, ho pensato: "Bene, dobbiamo registrarla". E quella è
stata la canzone che ci ha salvato."
Fu
decisamente curioso ciò che avvenne il giorno in cui i Coldplay si
trovarono in studio per registrare la versione definitiva di In My Place.
Chris Martin è da sempre un grande fan di Ian McCulloch, cantante e
fondatore della band originaria di Liverpool, gli Echo And The Bunnymen,
di cui il frontman conosce a mena dito tutta la discografia. E
indovinate un po'? Mentre la band è pronta a suonare quel brano,
McCulloch si presenta in studio per salutare i quattro giovani colleghi
e, ciliegina sulla torta, per dare coraggio a un emozionatissimo Chris
Martin, presta al cantante il suo caratteristico trench.
Anche se, come detto, il brano risale ai tempi di Parachutes, la band ha provato diverse versioni di questa canzone prima di decidere quella che sarebbe stata inserita nel loro sophomore, A Rush of Blood to the Head. Ciò accadde semplicemenrte perché la band aveva eseguito molte volte dal vivo In My Place,
introiettando come definitiva quella versione, replicata per due anni
sul palco, che, però, non sembrava adatta alla scaletta dell’album.
Gli sforzi delle numerose prove furono adeguatamente premiati: In My Place
vinse Grammy Award per la migliore performance rock di un duo o gruppo,
raggiunse la seconda piazza nelle classifiche del Regno Unito e
conquistò il disco d’oro anche in Italia.
Tutto
ciò di cui Aura Reyes ha bisogno è rimanere viva altri dieci minuti.
Non è un compito facile. Le altre sono quattro, sono più forti e lei -
una figura accerchiata, nel cortile del carcere - non è mai stata brava a
difendersi. O forse sì. Perché Aura deve riprendersi le sue figlie. E
anche le sue amiche. È per questo che ha elaborato un piano che inizierà
tra dieci minuti. Quindi no. Non ha intenzione di morire oggi. Fuori
dal carcere la aspetta una nuova sfida: dovrà vedersela con i Dorr, una
potente famiglia che nasconde molti segreti, la cui ultima erede, Irma,
regge le fila di un misterioso Circolo. E c'è una preziosa valigetta da
recuperare. Non si sa che cosa contenga, ma di certo il suo contenuto è
potenzialmente esplosivo...
E’ evidente fin dal titolo, che Tutto Torna sia un’emanazione del precedente Tutto Brucia (2022), e sia, quindi, il seguito della storia di Aura, Mari Paz e Sere, di nuovo alle prese con l’universo Regina Rossa
e i personaggi ricorrenti che ne fanno parte. Abilissimo nel creare
interconnessioni tra il presente e il passato e tra quasi tutti i
romanzi pubblicati fino a oggi, Gomez - Jurado crea un palpitante
intreccio narrativo che vede le tre amiche misurarsi con un nemico
apparentemente invincibile e un’avventura che sembra destinata a un
epilogo esiziale.
Aura,
che si trova reclusa in un carcere di massima sicurezza a causa di
Ponzano, riesce a evadere grazie a un misterioso benefattore, che le
chiede, però, di recuperare una preziosa valigetta. Non certo un’impresa
facile, dal momento che quella valigetta è nel mirino di forze oscure e
senza scrupoli, che mettono a repentaglio la vita delle due figlie di
Aura. A difenderle e a prendersene cura, c’è Mari Paz, la quale, per
salvare le due bambine, si trova ad affrontare dei killer spietati,
durante una rocambolesca fuga attraverso una Spagna arroventata dalla
canicola. Quando le cose precipitano, non resta che attuare un piano
disperato, le cui possibilità di riuscita sono ridotte al lumicino.
Chi
già conosce la prosa di Juan Gomez Jurado sa esattamente cosa
aspettarsi da un suo romanzo. Per chi, invece, si approccia per la prima
volta a un libro dello scrittore spagnolo (ogni storia vive di vita
propria, ma sarebbe meglio leggere i romanzi in ordine cronologico), si
troverà di fronte all’ennesimo thriller dall’elevato tasso di
adrenalina, in cui i ritmi sono serrati e i colpi di scena si susseguono
senza soluzione di continuità. Ciò, tuttavia, senza che venga mai meno
la qualità della scrittura, che suona clamorosamente pop ed estremamente
dinamica, ma che non è mai sciatta o banale, che sa restare in
superficie per rendere più agili i tanti momenti d’azione, ma che sa
anche rallentare il passo, per soffermarsi sull’introspezione
psicologica dei personaggi o, come nello specifico, raccontare
attraverso un brillante escamotage, la torbida storia della famiglia
Dorr.
La buona notizia per i fan di Regina Rossa
e di Aura, Mari Paz e Sere, è che il finale del libro apre a un nuovo
capitolo, che si preannuncia emozionante come i primi due.
Jack
White è un musicista di successo, eppure, nonostante ciò, se ne fotte
bellamente dell’industria discografica e dei tempi e delle modalità che
ne regolano gli ingranaggi. Lui continua a essere un artista che fa le
cose alle sue condizioni, quando ne ha voglia e in base all’ispirazione
del momento. Non ha freni né pastoie, e galoppa libero negli sconfinati
territori del rock, sperimentando a suo esclusivo piacere.
La storia di questo No Name
è ormai nota. Il 19 luglio, nei negozi della Third Man Records, la
piccola casa discografica indipendente di sua proprietà, ad alcuni
clienti che acquistavano un album in vinile, venne regalato un album
gratuito, non contrassegnato, con una copertina bianca su cui era
semplicemente stampata la parola “No Name”: nessun credito e
nemmeno il titolo dei brani. Poi, finalmente, dopo lo streaming, la
versione fisica del disco, a beneficio di coloro che ancora ascoltano
musica tramite supporto.
Sarò
un boomer, anzi lo sono, ma questo album sparato a mille dalle casse
dello stereo ha tutto un altro sapore, lo stesso che provai, tempo fa,
ad ascoltare i dischi dei White Stripes. Un suono simile, e lo stesso
approccio furente, spigoloso, slabbrato, sanguigno: un rock blues
grezzo, declinato in modo schietto e diretto, attraverso una selvaggia
inclinazione garage, che riporta alle radici di quel suono nato negli
anni ’60. I White Stripes, dunque, ma con una maggiore consapevolezza
compositiva: riff di chitarra come se piovesse, e un drumming primitivo
che ricalca quello di Meg.
Per
i fan della band e del Jack White più elettrico e aggressivo questo è
un disco che sembra troppo bello per essere vero, e che riconnette il
chitarrista alla sua originaria natura, grazie a tredici canzoni
implacabili e furenti, ma al contempo orecchiabili e divertenti. Tutto
semplice, diretto, figlio di una filosofia lo-fi, per cui altro non
serve se non un riff spacca ossa, una ritmica ossessiva, una voce
grintosa e pochi e spartani abbellimenti (qualche assolo, qualche cambio
di tonalità, estemporanee armonie vocali). Tutto impastato da un
mixaggio basico, quasi amatoriale, che mette in risalto sporcizia e
distorsione, favorendo l’impeto a discapito della pulizia del suono e
dell’appeal commerciale. Insomma, Jack è davvero tornato alle origini e
sembra che non sia passato un solo giorno dal 1999, anno domini
dell’esordio del fenomeno White Stripes.
Basta
la prima traccia, "Old Scratch Blues" e tutto è subito chiaro: blues a
tutto volume, riff garage annichilente, voce viziosa, e un assalto
sonoro che morde alla giugulare senza che la tensione venga mai meno per
tutta la durata della scaletta. Un’attitudine che diventa ancora più
pesante nella successiva "Bless Yourself" (ironica presa di posizione
nei confronti della religione e della polizia), brano che scortica la pelle,
nonostante non manchi, nel deliro sonoro, anche un discreto piglio
melodico.
Ogni
canzone è spigolosa, sporca, figlia di una garage rock senza
compromessi ("That's How I'm Feeling"), di urticante punk lo-fi
("Bombing Out"), di espliciti echi del passato White Stripes ("What’s
The Rumpus?"), di furia iconoclasta e sarcastica ("Archbishop Harold
Holmes") e slide blues audaci e, tutto sommato, orecchiabili
("Underground").
No Name possiede
un’anima sfacciatamente aggressiva, non ci sono trucchi o alchimie, e
tutto è dannatamente diretto, immediato, quasi purificatorio nella sua
urgenza di riappropriarsi delle radici, dell’essenza di quel sacro fuoco
che, sempre, dovrebbe animare il rock. Eppure, questi tredici brani,
sono molto di più di un furente sfogo, ma sono figlie della visione di
chi, nel corso del tempo, non è mai stato alle regole del gioco, ha
plasmato una materia nota con intelligenza, idee e passione, e ha saputo
rendere fruibili suoni antichi a un pubblico giovane. Qui, soprattutto,
ci sono grandi canzoni, che riaccendono un fuoco che, con dischi come No Name, mai si spegnerà.
Piccoli
cambiamenti, nessuna rivoluzione. Il nuovo album di Michael Kiwanuka,
londinese di origini ugandesi, è meno avventuroso del suo predecessore (Kiwanuka, 2019) e meno originale del celebrato Love & Hate (2016), più vicino, semmai, per certe delicatezze sonore, al suo esordio Home Again (2012). Small Changes,
però, è un gran disco, che dimostra, semmai ce ne fosse ulteriormente
bisogno, la capacità del songwriter britannico di creare musica tanto
emotivamente coinvolgente quanto tecnicamente sofisticata.
Non
manca il mestiere, ovvio, la capacità di cesellare e rifinire ogni
singola nota, di azzeccare melodie avvincenti, fruibili anche da coloro
che si accostano per la prima volta alla sua musica; ma continua a
stupire, tuttavia, la capacità di creare un legame intimo con
l’ascoltatore, innervando le canzoni di autentico pathos, di condivisa
malinconia. La miscela miele e liquerizia di soul, folk e rock, che l’ha
reso celebre, accompagna così gli ascoltatori in un viaggio riflessivo
che parte dall’intimo, ma diventa, ascolto dopo ascolto, universalmente
riconoscibile. Un viaggio attraverso territori avvolti in un'ambientazione lussureggiante, quasi cinematografica, ma che non perde mai quel calore
tracimante di sentimento e quella profondità introspettiva che sono
diventati i tratti distintivi della sua musica.
Un
suono caratterizzato da un'atmosfera retro-soul screziata da influenze
blues e folk, in cui emerge un’abilità unica nel catturare emozioni
veraci, stratificate, però, attraverso una strumentazione complessa, una
ricerca melodica mai banale e testi colloquiali ma potenti, che, in
questo specifico caso, parlano di crescita interiore e amore (la
paternità di Michael ha influito non poco).
Non c’è una traccia debole in Small Changes,
ma una scaletta coerente e coesa nel suono, nella quale spiccano per
bellezza e intensità alcune delle canzoni migliori scritte dal musicista
londinese. La title track si muove lenta su una ritmica trattenuta,
quasi sussurrata, gli archi avvolgono, le tastiere accarezzano, l’assolo
di chitarra si concede un tocco di morbida psichedelia, il ritornello è
sublime melodia. La voce di Kiwanuka, densa di velluto soul, riflette
sui cambiamenti graduali che definiscono le nostre vite, esortandoci a
riconoscere come piccoli aggiustamenti possano portare a una profonda
trasformazione. È una testimonianza dell'abilità di Kiwanuka nel
scrivere canzoni: si concentra spesso su temi universali, ma la sua
interpretazione è così personale che sembra una conversazione diretta
con l'ascoltatore. Un riff di chitarra e una splendida linea di basso
guidano il groove di "One and Only", ballata il cui morbido srotolarsi
fra percussioni, archi e sgocciolanti note di pianoforte parla di amore e
lealtà, sprigionando un calore e una sincerità che offre un messaggio
di speranza sull’importanza dei rapporti affettivi.
"Rebel
Soul", a parere di chi scrive uno dei vertici del songbook di Kiwanuka,
segna il momento più sperimentale nell’album, con un ritmo trascinante,
un avvolgente drive di pianoforte, circolare e discendente, e pochi,
misurati tocchi di chitarra che evocano trame soul dal sapore
settantiano. La canzone possiede un'energia innegabile che contrasta con le
tracce più morbide e introspettive dell'album, dandole un tocco più
avventuroso che si riconnette al precedente disco del 2019.
"Lowdown
(Part I)" presenta una miscela armoniosa di blues e soul, e la voce di
Kiwanuka porta con sé una sincerità che sembra quasi catartica. C'è un
tono riflessivo qui, quasi sognante, esaltato poi da "Lowdown (Part
II)", le cui tessiture psichedeliche rimandano immediatamente ai Pink
Floyd e all’iconico suono di chitarra di Gilmour.
Come
dicevamo, pur senza concedersi particolari azzardi e navigando in acque
sicure, Kiwanuka non sbaglia un colpo, e la scrittura è sempre
ispiratissima, sia nel midtempo di "Follow Your Dreams" (brano più
vicino a certe cose di Love & Hate), che invita a non
temere alcuna paura inseguendo i propri sogni, sia quando si cimenta in
un’altra ballata stellare come "Live For Your Love", canzone che cattura
perfettamente la vulnerabilità che si prova ad amare qualcuno
profondamente, e che si muove lentamente, fra la stratificazione d’archi
orchestrali e qualche accenno jazzy, creando un paesaggio sonoro
lussureggiante, che sembra al contempo moderno e senza tempo.
"Stay
By My Side" è l’ennesima canzone che fa breccia nel cuore, grazie a una
melodia che persiste a lungo anche dopo la fine di tre minuti e mezzo
che rendono omaggio alla forza di un amore duraturo, e se "The Rest Of
Me" racchiude la profondità e le sfumature che definiscono il talento
artistico di Kiwanuka, grazie a un arrangiamento ricco e stratificato e
una linea di basso spaziale che spinge un groove tanto morbido quanto
seducente, "Four Long Years" chiude la scaletta con un tocco elegiaco e
appassionato, che porta indietro nel tempo, agli anni sessanta e a certe
meraviglie targate Motown.
Piccoli cambiamenti, nessuna rivoluzione. E forse di rivoluzioni nemmeno sentivamo il bisogno, ma di certezze, quelle, si. Small Changes
non innova un songbook senza cedimenti, ma ne conferma l’assoluto
valore, e testimonia della crescita artistica di un musicista che sa
creare canzoni che risuonano a un livello profondo ed emotivo, che sa
plasmare con intelligenza le influenze di svariati generi, pur
mantenendo un suono distintivo, e non perde di vista uno degli
obbiettivi principali che la musica si prefigge: toccare il cuore della
gente ed emozionare.
Giunti
al loro quarto album in studio, i danesi Vola hanno completato un
percorso di trasformazione, ampliando ancora di più i confini sonori del
loro fascinoso prog metal. Già Witness (2021), uscito in piena
pandemia, segnava un allontanamento sostanziale dal loro suono
originario intriso di djent, ampliando la gamma espressiva con ganci
pop, svolazzi elettronici e occasionali tocchi hip-hop. Con Friend Of a Phantom,
il gruppo danese opera un ulteriore passo avanti in termini di
complessità espositiva, cementando ulteriormente l’approccio
progressive, e diluendo, invece, l’aggressività metal della proposta.
Il
risultato è un disco non proprio immediato, che va ascoltato e
riascoltato, per comprenderne tutte le sfumature e afferrare un quadro
d’insieme fantasioso, avvolgente ed estremamente variegato.
L’opener
"Cannibal" è la chiave di lettura per comprendere cosa aspettarsi dalle
successive otto tracce: un riff djent aggressivo trova contrappunto in
una melodia uncinante e avvincente, mentre il contrasto tra la voce
pulita del cantante/chitarrista Asger Mygind e quella più aspra di
Anders Friden degli In Flames, qui presente come ospite, eleva il brano a
livelli stellari.
"Break
My Lying Tongue", uno dei singoli pubblicati, è un’altra canzone
killer, in cui è il pop a farla da padrona, grazie alla melodia sognante
che si muove fra estrose partiture di tastiera e il ringhio delle
chitarre. Un uno due iniziale che testimonia la capacità della band di
riuscire a contemperare con equilibrio due diverse istanze, dando così
vita a una scaletta quanto mai imprevedibile e suggestiva.
"We
Will Not Disband" è l’ennesimo esempio di come chitarre ribassate e
uncinanti hook melodici possano convivere in perfetta sintonia, mentre
l’eterea "Glass Mannequin", un numero per sola voce e tastiere, supera
abbondantemente gli steccati del genere prog metal, avvolgendo
l’ascoltatore in vellutate atmosfere malinconiche.
E
se "Bleed Out" percorre in punta di piedi la linea sottile tra riff
djent, pop malinconico ed elettronica lunatica, "Paper Wolf" è una
canzone incredibilmente orecchiabile, in cui riprende quota la
componente prog della band, sempre abile ad alternare hook irresistibili
ad alcuni break più feroci.
La
scaletta avanza ed è sempre un piacere misurarsi con il raffinato
equilibrismo dei Vola e la magnificenza di melodie che lentamente, ma
inesorabilmente, s’insinuano sotto pelle: in tal senso, "I Don't Know
How We Got Here" è un gioiello prog caratterizzato da strati vocali
inquietanti, riff stravaganti e un delizioso lavoro di batteria di Adam
Janzi, "Hollow Kid" mostra un connubio perfetto fra lussureggianti trame
synth e riff ribassati, mentre "Tray" attraversa acque quiete e
dolcemente malinconiche, chiudendo l’album con una nota più morbida.
Friend Of A Phantom
è un disco dalle diverse facce, in apparenza semplice, visti i numerosi
momenti melodici che lo punteggiano, ma in realtà assai complesso nella
sua struttura non immediatamente assimilabile. Concedetegli, quindi,
numerosi ascolti e vi ritroverete per le maini un gioiellino che sarà
arduo togliere dal lettore.
E’ l’estate del 1979. Tom Petty è chiuso nei Cherokee Studios di Hollywood per registrare uno dei suoi album più iconici, Damn The Torpedoes.
Durante una pausa, Petty esce dalla sala di registrazione e incontra
casualmente Stevie Nicks. I due si conoscono e si stimano, chiacchierano
a lungo, fin quando, quasi scherzando, la Nicks chiede al musicista di
regalarle una canzone da inserire al disco solista a cui sta lavorando.
All'inizio
Petty non prende sul serio la proposta, ma, l’anno dopo, la bionda
cantante torna alla carica, mentre Petty sta lavorando al materiale che
confluirà in Hard Promises. C’è una ballata in particolare,
intitolata Insider, che Petty adora e che fa impazzire la Nicks: i due
la registrano insieme agli Heartbreakers, e a lavoro finito Petty la
offre all’amica. La Nicks ci pensa un attimo e poi rifiuta, perché
capisce che il songwriter quella canzone la ama profondamente.
Petty, però, vuol tener fede alla promessa fatta, trova in un cassetto lo spartito di Stop Draggin' My Heart Around,
una vecchia canzone scritta da lui e dal chitarrista Mike Campbell,
qualche anno prima. I due registrano una demo e la mandano al produttore
di Stevie Nicks, Jimmy Iovine, che ha messo mano anche a Damn The Torpedoes e Hard Promises.
Colpo
di fulmine: la Nicks è entusiasta e decide di registrala in duetto con
l’amico. Però, all’inizio non vuole inserirla nella scaletta di Bella Donna,
preferirebbe tenerla da parte per il futuro, per non privarsi di
canzoni scritte da lei, su cui aveva già lavorato per parecchio tempo.
A
convincerla è Jimmy Iovine (con cui la Nicks al momento era fidanzata),
il quale è consapevole di avere per le mani un singolo bomba. E,
ovviamente, ha ragione, perchè la canzone balza al terzo posto delle
charts statunitensi, ponendo le basi per altri successi: il singolo
successivo, Leather And Lace, in duetto con Don Henley, raggiunge il sesto posto, e il terzo singolo, Edge Of Seventeen, l'undicesimo.
Stop Draggin' My Heart Around
parla di una coppia che vive una relazione complicata, prossima al
collasso. Lei è stufa e vuole lasciare il compagno, ma lui non molla la
presa, e nonostante mille difficoltà, continua a tenere in piedi una
storia d’amore che non ha più senso. E quando lei gli chiede di
smetterla di trascinarsi dietro quel suo cuore ormai afflitto, l’amante
risponde: "hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te". Un amore complicato, dunque, e dai contorni torbidi e inquietanti.
Molte
delle canzoni che Nicks ha cantato nel corso degli anni, d’altra parte,
coinvolgono cuori in pezzi, storie destinate a finire e lutti amorosi
da rielaborare, e quasi tutte, particolare non da poco, erano di natura
autobiografica (vedasi la relazione tormentata con Lindsey Buckingham e
quella non meno burrascosa con Jimmy Iovine). Stop Draggin' My Heart Around,
però, è uno dei pochi brani che la Nicks poteva cantare senza dover
affrontare il peso emotivo che l’accompagnava, poiché il testo fu
scritto da Petty non aveva nulla a che fare con lei personalmente.
C’è
un’altra canzone che lega in qualche modo Petty alla Nicks. La cantante
dei Fleetwwood Mac, infatti, stava cercando il titolo da dare a un
brano che confluirà in Bella Donna, la citata Edge Of Seventeen. Mentre rimuginava sul da farsi, Petty le presentò sua moglie Jane. Quest’ultima disse alla Nicks che aveva "17 anni" (at the age of 17)
quando incontrò per la prima volta Tom. Come suo marito, Jane era di
Gainesville, una cittadina della Florida, e aveva un accento sudista
così pronunciato che Stevie capì "edge of 17". Illuminazione e titolo della canzone trovato.
Quella
voce lì, una voce che riconosceresti fra mille e in una frazione di
secondo. Una voce capace di scrostare l’intonaco dei muri, di far
tremare i lampadari, di togliere le ragnatele dal soffitto: dolcemente
sensibile ma al contempo potente, fumosa ma tracimante di soul, focosa
ma anche gelidamente inesorabile, appassionata ma incredibilmente
vulnerabile. Questa è Beth Hart, iconica singer del mondo blues rock
che, al netto di oziosi paragoni con Janis Joplin, possiede la maturità,
l’estensione e la tecnica di approcciarsi senza timori reverenziali al
songbook dei Led Zeppelin, come nella sua ultima fatica (A Tribute To Led Zeppelin) risalente a due anni fa.
You Still Got Me è il nuovo album di brani originali della cantante losangelina, pubblicato a distanza di cinque anni da War In My Mind,
lavoro risalente al 2019, che palesava, a dire il vero, un certo calo
di ispirazione. Tutt’altra storia, invece, questo splendido disco che
spazia a trecentosessanta gradi nel suono americano, affrontando generi
diversi con consapevolezza e passione, aprendo il proprio cuore, mai
come oggi, per affrontare tematiche politiche e, soprattutto, i tormenti
di un’anima bella, che ha vissuto una vita difficile, spesso lontano
dal sole dei baciati dalla fortuna, e che si è costruita una carriera
con le unghie e col sangue. Una sensibilità che ha creato un ponte
emotivo con i propri fan, e che oggi viene espressa attraverso
l’ennesima prova vocale da urlo, di un’artista, però, che mai come
prima, ha definitivamente trovato misura ed equilibrio espressivo.
In
scaletta, undici canzoni, una più bella dell’altra, attraverso le quali
la Hart esce dalla comfort zone del rock blues e del soul, dando vita a
un disco decisamente più vario. Non uno stravolgimento, sia chiaro, ma
un tentativo, riuscitissimo, di cimentarsi con sonorità, non certo
lontanissime dal suo background, ma tali da rendere You Still GotMe una sorta di abbecedario su come declinare il suono americano.
Il
rock blues, grande amore della songwriter californiana, è presente
nello sferzante uno due iniziale: la sinistra "Savior With A Razor", con
Slash come ospite alla chitarra, e la ruspante "Suga N My Bowl", che
vanta la presenza di un altro pezzo da novanta della sei corde, quale
Eric Gales.
Poi,
il disco prende strade diverse, e che vedono la Hart cimentarsi con
l’ironico cabaret di "Never Underestimate a Gal" e con le vellutatissime
atmosfere jazzy di "Drunk On Valentine", prova vocale maiuscola
accarezzata dal suono avvolgente della tromba di Andrew Carney. Una
volta diradatesi le coltri fumose da jazz club, parte "Wanna Be Big Bad
Johnny Cash", divertentissimo omaggio country rock a the man in black
(il boom chica boom della ritmica è uno spasso) in cui la cantante
azzecca un ritornello uncinante e dichiara amore eterno uno dei padri
della tradizione musicale a stelle e strisce ("Elvis is alive or so
they say, Marilyn Monroe, she's just okay, I don't know enough about
James Dean, But Johnny is the man that I wanna be").
"Wonderfull
World", dedicata alla nipote, è una dolce ballata per pianoforte che
trabocca ottimismo, mentre "Little Heartbrake Girl" gira dalle parti
dell’americana più classica, abbacinando con un singalong tanto
immediato quanto irresistibile.
Da
questo momento in avanti, inizia un filotto di ballate da urlo: la
title track, avvolta da un vaporoso arrangiamento d’archi e da un
retrogusto sixties, dedicata a suo marito e alla famiglia ("PS: I love my husband, the best ever"),
il piano blues di "Pimp Like That", e soprattutto "Don’t Call The
Police", probabilmente il miglior brano mai scritto in carriera dalla
Hart. Una ballata, questa, struggente e traboccante di pathos, un
j’accuse nei confronti della polizia americana e delle violenze
perpetrate nei confronti dei cittadini di colore ("Don't call the
police, If you wanna live another day, Another day, Another day, Black
bodies in the street, Black bodies in the street, America, Beauty,
Empathy, Prosperity, Consciousness, Decadence, Poverty, Apathy!").
Un grido di dolore, pervaso da una tensione che attanaglia i visceri, di
fronte alla quale è impossibile non sciogliersi in un pianto rabbioso.
Chiude
il rock scorbutico e oscuro di "Machine Gun Vibrato", in cui la
cantante dà ennesimo sfoggio di una tecnica e di una versatilità di
livello superiore.
You Still Got Me è l’apice della carriera della cantante losangelina, il suo più bello dai tempi lontanissimi di Immortal
(1996). Un disco che forse allontana la Hart dalla sua fanbase votata
esclusivamente al blues, ma che testimonia, in modo definitivo, il
talento di una musicista che può fare quello che vuole, facendolo
benissimo. Un disco eterogeneo anche dal punto di vista emotivo, capace
di diversi registri (ironia, ottimismo, rabbia, dolore, passione), tutti
declinati con una consapevolezza che solo i grandi. Chapeau!
Un
buon successo nella natia Canada, qualche passaggio radiofonico negli
Stati Uniti e in Europa (Italia compresa) quattro video nella
programmazione MTV e poco più. Questa, per sommi capi, la parabola dei
Boulevard, band originaria di Calgary, composta dal sassofonista Mark
Holden, membro fondatore del progetto, dal cantante David Forbes, da
Rabdy Gould (chitarra), Andrew Johns (Tastiere), Randy Burgess (basso) e
Jerry Adolphe (batteria).
Due
soli album, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 (ci
sarà anche un terzo album in studio nel 2017), che però non riuscirono
ad aggredire il mercato discografico, inducendo il gruppo, nel 1991, a
rompere le righe per manifesto insuccesso. Eppure, nonostante la
brevissima carriera, il nome dei Boulevard, nel tempo, è stato
giustamente riabilitato, tanto che oggi, il loro secondo album, Into The Street (1990), è considerato uno dei dischi meglio riusciti e più rappresentativi del movimento Aor.
Se l’esordio, intitolato semplicemente Blvd
(1988), al tempo dell’uscita, ebbe maggiori riscontri commerciali del
successivo lavoro, col tempo è caduto nell’oblio, dimenticato anche da
coloro che, a posteriori, hanno riconosciuto la grandezza di Into the Street.
Peccato, perché le dieci canzoni in scaletta, ancorchè figlie di un
gruppo esordiente, denotano già una maturità compositiva di alto
lignaggio. Il genere, come detto, è riconducibile all’Aor, con alcuni
passaggi vicini al synth pop, tanto che l’accostamento a grandi band
come i Toto o i Glass Tiger viene quasi immediato.
Eppure,
basta ascoltare in sequenza i due dischi pubblicati a cavallo dei
decenni poco sopra indicati, per comprendere la classe e l’eleganza di
una band che, se avesse avuto modo di continuare a suonare, sarebbe
stata pronta a diventare essa stessa un nome di riferimento del genere.
Blvd
è un disco riuscitissimo, traboccante di idee e di belle melodie, il
cui unico difetto, forse, è il suono clamorosamente figlio degli anni
’80, tanto che, se non siete amanti del decennio, le dieci canzoni in
scaletta potrebbero suonare datate e anacroniste. Chi scrive, però, non
ha intenti passatisti né vuole giustificare il recupero dell’album,
titillando le corde della nostalgia. Blvd è un album che va
recuperato semplicemente perché inanella un filotto di canzoni che, a
prescindere dalla veste formale, hanno resistito alle ingiurie del
tempo, grazie a melodie uncinanti e al bagaglio tecnico di una band
consapevole dei propri mezzi e delle proprie idee.
Sono
pochi i momenti deboli in un disco in cui tutto fila liscio, a partire
dall’iniziale "Dream On", esempio appassionato di come Aor e synth pop
fossero in grado di percorrere lo stesso binario per giungere a
destinazione. Le tastiere di "Far From Over" sono un vero sollucchero
per le orecchie, così come l’assolo di sax di Holden, vero maestro
nell’innalzare il livello di tensione di ogni singolo brano. "Western
Skies" è un gioiellino melodico che esibisce un coloratissimo interplay
fra chitarre aperte e tastiere, mentre "Never Give Up" (ancora il sax di
Holden in evidenza) risucchia verso il dancefloor con inusuale
spavalderia.
Se
"In The Twilight" patisce un eccesso di zuccheri (altrove tenuti
brillantemente a bada) e si veste di arrangiamenti un po’ pomposi, con
"Where The Lights Go Down" i Boulevard ritrovano la misura con una gemma
Aor dal ritmo serrato. "Under The Moonlight" è una canzone leggiadra,
sprizza di colori pop e allegrezza, "You And I" è una ballata con
effetti sitar e dalla melodia non immediata, "Missing Persons" è una
meraviglia che gira dalle parti degli Yes di "90125" e "You’re For Me"
chiude il disco spingendo al massimo sul ritmo e sulla spensieratezza.
Blvd
non è un disco epocale, certo, ma è uno di quei gioielli nascosti che
ci riconnette con il nostro passato, in quegli anni in cui forse i
Boulevard ci sono passati davanti, mentre guardavamo MTV, ma non ce ne
siamo accorti. Peccato, perché avrebbero meritato ben altra sorte di
quel parziale oblio a cui la storia li ha relegati: qui ci sono ottime
canzoni, alcune strepitose ("Missing Persons" e "Never Give Up"), e una
classe infinita. Il disco lo trovate su Spotify, ma se siete dei boomer
come il sottoscritto, il supporto cd costa poco e sono soldi ben spesi.
Garantito.
Lasciate
ogni speranza, voi che entrate nell’universo Chat Pile. In un anno,
infatti, in cui le sonorità estreme hanno forgiato alcuni dei dischi più
interessanti ascoltati dal sottoscritto, questo Cool World,
secondo album in studio pubblicato dalla band originaria di Oklahoma
City, è probabilmente il più oscuro, disturbante e spigoloso. Solo due
anni fa, il gruppo statunitense esordiva con God’s Country,
un’opera che aveva lasciato a bocca aperta per essere riuscito a dare
forma concreta al disagio esistenziale attraverso bordate elettriche
esiziali, propagatrici di un marasma sonoro forgiato al crocevia della
morte fra noise, metal e debosciato post punk.
Un
disco che, per quanto di nicchia, aveva creato un vibrante hype intorno
alla band e alimentato l’attesa per vedere se un secondo album fosse in
grado di replicare quella devastazione emotiva. Era inevitabile che,
visto il successo del primo capitolo di questo romanzo a tinte
scurissime, il sophomore godesse di maggior attenzione da parte della
Flenser (etichetta, sotto la cui egida era stato pubblicato anche
l’esordio), che ha investito nel progetto, ponendo maggior cura alla
produzione e al battage pubblicitario che ha accompagnato l’uscita
dell’album.
Nessun imborghesimento, però, non temete: se il suono è stato rifinito (ma non addomesticato) Cool World
è ancora una volta infettato di ferocia, ancora in grado di sgretolare i
padiglioni auricolari, respingente ed estremo esattamente come il suo
predecessore. Non si fanno prigionieri, insomma, e questa torbida
miscela, che fonde gli accessi di un rock deviato di derivazione
ninenties, farà male, anzi malissimo, come appare evidente nello
sconquasso iniziale di "I Am a Dog", biglietto da visita insanguinato
che riporta l’effigie Jesus Lizard, una delle primarie fonti
d’ispirazione dei Chat Pile.
Come per Gone Dark
degli Human Impact, band quasi gemella del gruppo dell’Oklahoma, lo
sguardo di Raygun Busch e soci è focalizzato sulle miserie del mondo,
sul male di vivere, su un’esistenza deprivata dalla speranza, che si
affaccia su un futuro tetro e ineluttabile. Il suono è, quindi,
inevitabilmente pesante, fangoso, sporco, quasi totalmente privo di
trame melodiche (presenti nel post punk slabbrato di "Shame" o
nell’incedere disperatamente arreso di "Milk Of Human Kindness"), spinto
da groove ritmici ripetuti ossessivamente ("Frownland"), abrasi da riff
di chitarra taglienti e asettici che rimandano ai Korn ("Funny Man") e
portati al parossismo dalla prova vocale di Busch che ringhia, sbuffa,
grida e agonizza in un deragliamento vocale che terrorizza e lascia
impietriti ("The New World").
Se l’esordio era più compresso in un suono coerente fino a risultare quasi monolitico, in Cool World,
invece, il linguaggio si fa più vario, riprendendo e rimasticando la
lectio magistralis dei citati Jesus Lizard e Korn, ma anche di Harry
Rollins, Big Black, Killing Joke, e, perché no, Fugazi, come esplicitato
nel cruento hard core punk di "The New World".
Pur
aggiungendo qualche novità rispetto all’esordio (la malinconia che
ghermisce il post punk disperato di "Masc") e palesando una superiore
maturità compositiva, il suono dei Chat Pile ha mantenuto intatta la
propria aggressività, il proprio impeto furente, la propria forza
iconoclasta. Un disco non per tutti, ma nuovamente in grado di accendere
il fuoco della passione in quanti avevano creduto in questa
straordinaria band fin dagli esordi.
Molti pensano, sbagliando, che Everlong
sia una canzone incentrata sulla dipendenza dalla droga del defunto
Kurt Cobain, che era nei Nirvana insieme al frontman dei Foo Fighters,
Dave Grohl, autore del brano. Fu lo steso Grohl, intervistato dalla
rivista Mojo, ha spiegare di aver scritto il brano, profondamente
autobiografico, durante uno dei momenti più bassi della sua vita, nel
Natale del 1996.
Il
frontman dormiva in un sacco a pelo sul pavimento di un amico, dopo
aver divorziato dalla moglie e fotografa Jennifer Youngblood, e di
conseguenza era un senzatetto. Oltre a ciò Grohl non aveva accesso al
proprio conto bancario, e sia il suo batterista, William Goldsmith, che
il chitarrista, Pat Smear, erano sul punto di lasciare i Foo Fighters.
In questo momento di profonda depressione, come reazione allo sfacelo
della propria vita, compose questa canzone d'amore (in circa 45 minuti)
per dedicarla alla frontwoman dei Veruca Salt, Louise Post, con cui si
era legato sentimentalmente, dopo essersi separato dalla Youngblood. La
Post era una delle poche persone che gli era stato vicino in quei
momenti bui, ed Everlong la omaggiava per essersi legata a lui da un profondo vincolo tanto fisico quanto spirituale.
La
canzone evoca il vero amore, quella sensazione di timidezza, ma allo
stesso tempo di eccitazione, che si prova quando ci si innamora per la
prima volta. È un brano che parla di un sentimento così forte e
totalizzante, che vorresti durasse per sempre, anche se, poi, lo
sappiamo bene, niente dura mai per sempre.
La
band ne fece un’esecuzione memorabile al Late Show With David
Letterman, il 21 febbraio 2000, quando Letterman tornò sulle scene da un
complicato intervento al cuore. Letterman presentò la band, spiegando
che quella canzone gli diede forza e motivazione durante la lunga
convalescenza, tanto da chiedere ai Foo Fighters di eseguirla la prima
notte del suo ritorno in tv. La band, che era in turnè per promuovere There Is Nothing Left To Lose,
abbreviò il tour per poter partecipare allo show, ma in cambio
ricevette un caloroso endorsement da parte del conduttore, che li
presentò al pubblico come "la mia band preferita che suona la mia canzone preferita".
Da quel momento, il gruppo è diventato uno dei pilastri di Letterman,
apparendo nello show per un'intera settimana nel 2014; e quando il
conduttore andò in onda per un’ultima puntata, il 20 maggio 2015, i Foo
Fighters suonarono nuovamente questa canzone, ricevendo ancora una volta
un'introduzione emozionante da parte di Letterman.
Quando
Grohl inventò per la prima volta il riff di chitarra, pensò che fosse
una scopiazzatura di un brano dei Sonic Youth. Per cui, fece un demo
della canzone e la fece ascoltare a Thurston Moore, convinto di aver
copiato un loro brano. Ovviamente, non era così. Pertanto, dopo averla
ascoltata, Moore lo guardò sbalordito e gli chiese: "Perché è solo un demo? Perché non è già nel nuovo album?"