Quella voce lì, una voce che riconosceresti fra mille e in una frazione di secondo. Una voce capace di scrostare l’intonaco dei muri, di far tremare i lampadari, di togliere le ragnatele dal soffitto: dolcemente sensibile ma al contempo potente, fumosa ma tracimante di soul, focosa ma anche gelidamente inesorabile, appassionata ma incredibilmente vulnerabile. Questa è Beth Hart, iconica singer del mondo blues rock che, al netto di oziosi paragoni con Janis Joplin, possiede la maturità, l’estensione e la tecnica di approcciarsi senza timori reverenziali al songbook dei Led Zeppelin, come nella sua ultima fatica (A Tribute To Led Zeppelin) risalente a due anni fa.
You Still Got Me è il nuovo album di brani originali della cantante losangelina, pubblicato a distanza di cinque anni da War In My Mind,
lavoro risalente al 2019, che palesava, a dire il vero, un certo calo
di ispirazione. Tutt’altra storia, invece, questo splendido disco che
spazia a trecentosessanta gradi nel suono americano, affrontando generi
diversi con consapevolezza e passione, aprendo il proprio cuore, mai
come oggi, per affrontare tematiche politiche e, soprattutto, i tormenti
di un’anima bella, che ha vissuto una vita difficile, spesso lontano
dal sole dei baciati dalla fortuna, e che si è costruita una carriera
con le unghie e col sangue. Una sensibilità che ha creato un ponte
emotivo con i propri fan, e che oggi viene espressa attraverso
l’ennesima prova vocale da urlo, di un’artista, però, che mai come
prima, ha definitivamente trovato misura ed equilibrio espressivo.
In scaletta, undici canzoni, una più bella dell’altra, attraverso le quali la Hart esce dalla comfort zone del rock blues e del soul, dando vita a un disco decisamente più vario. Non uno stravolgimento, sia chiaro, ma un tentativo, riuscitissimo, di cimentarsi con sonorità, non certo lontanissime dal suo background, ma tali da rendere You Still Got Me una sorta di abbecedario su come declinare il suono americano.
Il rock blues, grande amore della songwriter californiana, è presente nello sferzante uno due iniziale: la sinistra "Savior With A Razor", con Slash come ospite alla chitarra, e la ruspante "Suga N My Bowl", che vanta la presenza di un altro pezzo da novanta della sei corde, quale Eric Gales.
Poi, il disco prende strade diverse, e che vedono la Hart cimentarsi con l’ironico cabaret di "Never Underestimate a Gal" e con le vellutatissime atmosfere jazzy di "Drunk On Valentine", prova vocale maiuscola accarezzata dal suono avvolgente della tromba di Andrew Carney. Una volta diradatesi le coltri fumose da jazz club, parte "Wanna Be Big Bad Johnny Cash", divertentissimo omaggio country rock a the man in black (il boom chica boom della ritmica è uno spasso) in cui la cantante azzecca un ritornello uncinante e dichiara amore eterno uno dei padri della tradizione musicale a stelle e strisce ("Elvis is alive or so they say, Marilyn Monroe, she's just okay, I don't know enough about James Dean, But Johnny is the man that I wanna be").
"Wonderfull
World", dedicata alla nipote, è una dolce ballata per pianoforte che
trabocca ottimismo, mentre "Little Heartbrake Girl" gira dalle parti
dell’americana più classica, abbacinando con un singalong tanto
immediato quanto irresistibile.
Da questo momento in avanti, inizia un filotto di ballate da urlo: la title track, avvolta da un vaporoso arrangiamento d’archi e da un retrogusto sixties, dedicata a suo marito e alla famiglia ("PS: I love my husband, the best ever"), il piano blues di "Pimp Like That", e soprattutto "Don’t Call The Police", probabilmente il miglior brano mai scritto in carriera dalla Hart. Una ballata, questa, struggente e traboccante di pathos, un j’accuse nei confronti della polizia americana e delle violenze perpetrate nei confronti dei cittadini di colore ("Don't call the police, If you wanna live another day, Another day, Another day, Black bodies in the street, Black bodies in the street, America, Beauty, Empathy, Prosperity, Consciousness, Decadence, Poverty, Apathy!"). Un grido di dolore, pervaso da una tensione che attanaglia i visceri, di fronte alla quale è impossibile non sciogliersi in un pianto rabbioso.
Chiude
il rock scorbutico e oscuro di "Machine Gun Vibrato", in cui la
cantante dà ennesimo sfoggio di una tecnica e di una versatilità di
livello superiore.
You Still Got Me è l’apice della carriera della cantante losangelina, il suo più bello dai tempi lontanissimi di Immortal (1996). Un disco che forse allontana la Hart dalla sua fanbase votata esclusivamente al blues, ma che testimonia, in modo definitivo, il talento di una musicista che può fare quello che vuole, facendolo benissimo. Un disco eterogeneo anche dal punto di vista emotivo, capace di diversi registri (ironia, ottimismo, rabbia, dolore, passione), tutti declinati con una consapevolezza che solo i grandi. Chapeau!
Voto: 9
Genere: Rock, Blues, Soul, Americana
Blackswan, venerdì 13/12/2024
Nessun commento:
Posta un commento