sabato 4 aprile 2015

TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS – THE NEW YORK SHUFFLE




Ho amato, e amo, Tom Petty qualunque cosa abbia fatto, dischi belli (Full Moon Fever), dischi brutti (The Last Dj), dischi così così (Highway Companion). Figuriamoci che gioia è stata, allora, ritrovarmi fra le mani questo bootleg, uscito il mese scorso, e contenente la registrazione di un live act tenutosi nel lontano 1977 al My Father’s Place di Roslyn. Erano gli anni del debutto, quando un giovane Petty, accompagnato da una band di talentuosissimi rocker (Mike Campbell alla chitarra, Benmont Tench alle tastiere, Ron Blair al basso e Stan Lynch alla batteria) aveva appena dato alle stampe l’omonimo album d’esordio e sfornato American Girl, un singolo (il secondo tratto dall’album, dopo Breakdown) che in un lampo aveva scalato le classifiche statunitensi. Artista inizialmente collocato nel mare magnum del punk, Tom con i suoi Heartbreakers aveva in realtà fatto confluire la grande tradizione del rock’n’roll a stelle e strisce in un collage dalle svariate sfumature, nel quale convivevano garage, southern rock, Bob Dylan e Byrds, r’n’b e Beatles. Il tutto suonato con un approccio scarno, immediato, graffiante, esattamente a metà strada fra hype metropolitano e la beata ingenuità della provincia rurale. Un successo, quello di Petty e della sua band, che arrivò non solo attraverso l’inequivocabile bellezza delle loro canzoni, ma anche grazie alla qualità dei loro concerti, questi si, per impeto e ruvidezza, assimilabili in qualche modo a quello che stava succedendo, più o meno nello stesso periodo, al CBGB di New York. Questo bootleg, che a dire il vero non so dirvi se ufficiale o no, coglie proprio il momento magico di quegli anni sferraglianti, in cui i cinque rockers, che nel 1979 metteranno in cantiere il loro primo capolavoro (Damn The Torpedos), assaltano uno sparuto gruppo di spettatori con l’energia tritatutto di uno show tirato e fragoroso. Rock ‘n’ roll senza se e senza ma, irrequieto e selvaggio, che spacca gli amplificatori e scuoia ogni melodia con il coltellaccio della distorsione. Le hit, da Breakdown ad American Girl, da Fooled Again a Anything That’s Rock And Roll, ci sono proprio tutte; ma lo show comprende pure una chilometrica e inedita Dogs On The Run (comparirà più tardi, nel 1985, su Southern Accents), con Petty e Campbell a battagliare con la sei corde e la sezione ritmica a giocare con un groove funky, e il ringhio r’n’b di Shout, il grande successo degli Isley Brothers, qui più convulsa che mai. La qualità della registrazione non è eccelsa ma è comunque più che buona, il contenuto del cd, come direbbe Sacchi, è, invece, straordinerio.

VOTO: 8





Blackswan, sabato 04/04/2015

DALLA PARTE DEL KILLER

giovedì 2 aprile 2015

RYLEY WALKER - PRIMROSE GREEN



Chi ha una buona conoscenza, anche iconografica, della storia della musica pop, riconoscerà nella copertina di questo secondo album di Ryley Walker un serie di rimandi visivi ad artisti con cui il songwriter chicagoano ha più di un punto di contatto (uno su tutti il Van Morrison di Astral Week). L'artista immerso nella natura e un immediato richiamo a languide atmosfere tra il bucolico e lo psichedelico richiamano concettualmente la musica folk e una stagione musicale ricompresa fra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70. Basta, quindi, un occhio alla copertina per inquadrare, più o meno, il contenuto di questo secondo full lenght di un artista che meriterebbe più attenzione di quella che finora ha avuto. Ma andiamo con ordine. Primrose Green è un ottimo disco, derivativo e anacronistico finchè si vuole, ma estremamente raffinato nelle atmosfere e decisamente ben suonato. L'immaginario musicale di Ryley Walker ruota intorno a quella scena folk di cui si parlava poc'anzi (uno sguardo alla terra d'Albione e uno sguardo agli States), ma declinata con la libertà espressiva di chi il genere lo colorava contaminandolo col rock, il jazz e la psichedelia. Non c'è una canzone della scaletta di Primrose Green, infatti, che non abbia un suo nume tutelare: vengono in mente i Pentangle e il grandissimo Bert Jansch (la title track), Nick Drake (Hide In The Roses), Tim Buckley (Summer Dress) e John Martin (Sweet Satisfaction). Ed è forse a quest'ultimo artista che Ryley Walker sembra ispirarsi con maggior devozione, così che, per buona parte del disco, sembra di aver (ri)messo sul piatto dello stereo Solid Air. Tanto evidente, a volte addirittura smaccato, citazionismo rappresenta, dispiace scriverlo, un punto a sfavore per il giovane artista americano che, a livello compositivo, si muove su territori già abbondantemente esplorati. Walker è però un virtuoso della chitarra (acustica) ed è dotato di una padronanza tecnica che sbriglia nei frequenti momenti strumentali di cui è composto il disco. L'approccio jammistico è così l'aspetto migliore di Primrose Green, soprattutto in quei casi (la già citata Sweet Satisfaction), in cui la tessitura acustica del brano è disturbata da improvvise scariche di elettricità. In definitiva, ci troviamo di fronte a un artista che ha potenzialità smisurate e un bagaglio tecnico che gli consentirebbe di affrancarsi dalla tradizione e cercare un suo peculiare percorso. Primrose Green resta, invece, un disco riuscito ma troppo debitore verso il passato, troppo legato a un suono immediatamente riconoscibile in capolavori come Solid Air e Starsailor. Talento smisurato ma, almeno fino a oggi, non molta originalità: è comunque un bel sentire.

VOTO: 7





Blackswan, giovedì 02/04/2015

SCHOOL OF ROCK: E' LIVE !