“Canzoni
sfacciate, audaci e r’n’r che fondono malinconia ed euforia”, così è
stato descritto dai Vaccines il loro nuovo album intitolato Combat Sports.
Il disco, in uscita per la Columbia Records il prossimo 30 marzo, è il
primo senza il batterista Pete Robertson, uno dei membri fondatori della
band londinese fuoriuscito nella passata stagione. Qui di seguito la
tracklist e un assaggio del primo singolo estratto, Nightclub.
Lydia
Loveless prima di essere Lydia Loveless. O quasi, almeno. Questo disco
rilasciato dalla Bloodshot Records, infatti, non contiene materiale
nuovo, ma un intero Ep, Boy Crazy, uscito nel 2013, alcune cover e
singoli sparsi. Non siamo agli albori della carriera della songwriter
dell’Ohio (The Only Man è del 2010 e Indestructible Machine è del 2011),
ma sicuramente queste canzoni rappresentano molto bene il punto di
partenza di una sensibilità artistica che sfocerà nel 2016 in Real,
disco inviso ai fans della prima ora (questa raccolta sembra quasi una
sorta di risarcimento danni per il precedente album) eppure, a ben
vedere, frutto di una maturità più complessa e di una scrittura
incredibilmente solida ed efficace.
La
canzoni di Real, è questo il motivo che fece gridare allo scandalo
molti aficionados, erano canzoni pop; il che, però, non significa
necessariamente un abbassamento della qualità della proposta. Anzi. Meno
impetuoso, e di certo più ragionato, Real era un disco che allontanava
la Loveless dalla cifra estetica che informava i primi dischi e che ci
offriva, invece, l’immagine di un artista alle prese con il suo lato più
cantautorale, elegante e catchy.
Il
pop, d’altra parte, è sempre stato nelle corde di Lydia e questo Boy
Crazy And Single(s), pur nella sua foga chitarristica, testimonia di un
gusto per il mainstream coltivato fin dagli anni giovanili. Basti
ascoltare la melodia diritta (e diretta) dell’iniziale All I Know, uncinante power pop da classifica, o la cover di Blind di Kesha, scelta audace di un brano smaccatamente mainstream, che la Loveless innerva di inaspettata tensione.
Certo,
oltre al pop c’è molto altro e in questi primi anni questo “altro” fa
la parte del leone. Forse più per ingenuità che per scelta artistica,
più per incontenibile furore che per consapevolezza compositiva.
Passionaria
e viscerale, Lydia imbraccia la chitarra e parte dritta come un fuso,
suonando con gagliardia e senza fronzoli un alt-country imbastardito col
rock (e viceversa): c’è la freschezza dei vent’anni, c’è urgenza, c’è
un indole punk che talvolta tracima impetuosa (Lover’s Spat) e c’è il roots, l’humus, cioè, che ha dato sostanza alla musica della Loveless.
E poi, ci sono quelle ruvide ballate, come The Water e una Allison, dal repertorio di Elvis Costello, scarnificata all’osso, che arpionano il cuore con un’immediatezza che lascia senza parole.
Se il country di Falling Out Of Love With Me è una delle classiche portate della casa, stupisce davvero, invece, la scelta di reinterpretare I Wold Die 4 You
di Prince, artista separato dalla Loveless da una distanza siderale.
Eppure, questa cover, che tiene botta nei confronti dell’originale,
testimonia della grandezza di un’artista abile a vestire panni diversi e
sempre con incredibile fascino.
Un
disco non indispensabile per coloro che seguono Lydia fin da inizio
carriera (salvo avere raccolto in un unico full lenght materiale
altrimenti sparso), imprescindibile, invece, per tutti quelli che
vogliono approcciarsi a una delle artiste più interessanti dell’attuale
panorama rock americano. Qui troveranno di che innamorarsi, a partire
dalla copertina più bella del 2017.
A distanza di tre anni dal fortunato Did Not He Ramble, uscirà il prossimo 19 gennaio il nuovo album del cantautore irlandese Glen Hansard. Il disco intitolato Between Two Stories
è stato registrato in Francia nei Black Box Studios con la
collaborazione del produttore David Odlum e dei Fellowship Band, il
gruppo che negli ultimi anni accompagna Hansard nell’attività dal vivo. Time Will Be The Heather è il primo singolo estratto.
Originari
di Bath, centro termale della contea di Somerset, Roland Orzabal e Curt
Smith, danno vita da giovanissimi ai Graduate, gruppo di mod revival
(vedi Jam), che nel 1980 piazza un singolo, Acting My Age,
nella top 100 britannica. I Graduate però rappresentano solo un
trampolino di lancio per il duo, che ha in testa tutta un’altra musica.
Orzabal e Smith si sentono maggiormente attratti dal post punk e da
quelle nuove sonorità elettroniche che stanno marcando la nascente epoca
del synth pop e della new wave. Abbandonati alla loro sorte gli altri
componenti dei Graduate, i nostri eroi formano un nuovo gruppo, The
History of Headaches, a cui quasi subito cambiano nome in Tears For
Fears, ispirandosi a un trattamento psicoterapeutico inventato dallo
psicologo Arthur Janov. Orzabal e Smith hanno le idee ben chiare:
fondere il rock sixties di matrice beatlesiana con il pop, l’elettronica
e una punta di soul e di psichedelia. Grazie al produttore Dave Bates
vengono messi sotto contratto dalla Phonogram Records, che nel 1981
pubblica il loro primo 45 giri, Suffer The Children. Dopo altri due singoli di successo, Pale Shelter (1982) e Mad World
(1983), esce il loro primo full lenght, The Hurting (1983). Se è vero
che fin dai primi ascolti si capisce che Orzabal è cresciuto con
l’intera discografia dei Beatles sotto il cuscino, e altrettanto vero
che i due sono bravi ad attualizzare e rinfrescare quelle melodie, e a
rimeditare in chiave adulta il synth pop che impazza in quegli anni,
usando le tastiere con gusto ed equilibrio, senza disdegnare però l’uso
delle chitarre. L’album, quasi un concept sull’infanzia difficile
vissuta da Orzabal (la foto del bambino in copertina è in tal senso
assai esplicita), piace molto al pubblico inglese, così tanto che in
breve tempo vola al primo posto delle charts britanniche. Merito di un
pugno di singoli dalla melodia irresistibile: oltre ai citati Mad World (che Gary Jules riporterà al successo nel 2005 reinterpretandola per la colonna sonora del, sopravvalutato, Donnie Darko), Suffer the Children e Pale Shelter, a far sfracelli è soprattutto un brano molto dance intitolato Change,
premiatissimo nelle vendite anche in Italia. Spinti dall’inaspettato
successo dell’esordio, i Tears For Fears, perfezionano la loro idea di
musica, distaccandosi ulteriormente dal synth pop, e rendendo sempre più
complessi i testi delle canzoni, che oltre alla psicologia e
all’infanzia, questa volta rivolgono uno sguardo anche alla scena
politica nazionale e internazionale. Quando esce Songs From The Big
Chair (1985), il nuovo suono è frutto di un impasto equilibratissimo fra
rock e pop, che parla un linguaggio universale e scala le classifiche
di tutto il mondo (USA compresi), arrivando addirittura a conquistare
quattro dischi di platino. L’ispirazione è ai massimi livelli, le
melodie acquistano qualità grazie a un taglio malinconico e, talvolta,
ombroso, che non toglie però brillantezza a brani che possiedono un alto
contenuto energetico. Così su MTV e per radio impazzano veri e propri
tormentoni (di qualità) che portano il nome di Shout (potente, tribale e solenne) ed Everybody Wants To Rule The World (entrambe prime negli Stati Uniti). A ben ascoltare, però, c’è altro e anche meglio: il blues sofferto di I Believe, il basso pulsante che introduce il rock adrenalinico di Broken, la solarità funky dell’incredibile Heads Over Heels,
irresistibile esplosione di vitalità adolescenziale e forse la loro
miglior canzone di sempre. Dopo quattro anni di guadagni e lodi
sperticate, i Tears For Fears tornano sulle scene con un album che si
discosta non poco dai suoi due predecessori. The Seeds Of Love (1989),
costato un milione di sterline e il quasi fallimento della Mercury
Records, si presenta come un disco raffinato, pretenzioso e ricco di
sonorità jazzy e soul che levigano elegantemente la grande passione di
Orzabal per i Beatles. Non tutto è centrato, a tratti il suono si fa
verboso e ricco di orpelli, e la super produzione con ospitate di grido
(Phil Collins, Manu Katchè, Oleta Adams), imbolsisce un po’ il tutto. Le
cose buone, comunque, non mancano, a partire dal singolo Woman In Chains (straordinaria interpretazione vocale di Oleta Adams), alla hit Sowing The Seeds Of Love,
beatlesiana fino al midollo e venata da una polemica a distanza con
Paul Weller, accusato di aver messo fine all’avventura Jam (“kick out the styles, bring back the jam”), e al soul cristallino di Advice For The Young At Heart,
sicuramente la miglior canzone del disco. Alla fine delle registrazioni
Smith se ne va, sbattendo la porta, stufo dell’egocentrismo di Orzabal e
del suo modo cerebrale e pignolo di approcciarsi a composizione e
produzione. Dal canto suo, Orzabal, che ha ormai perso il suo tocco
magico, si tiene stretto il marchio di fabbrica e continua a sfornare
dischi, questa volta, però, non particolarmente ispirati. Elemental
(1993), dalle sonorità marcatamente soul, e Raoul And The King Of Spain
(1995), un pretenzioso concept album privo di leggerezza e divertimento,
sono un flop in termini di vendite e mostrano una creatività da raschio
del barile. Nel 2001, Orzabal e Smith, che per tutto il decennio
precedente non avevano smesso di attaccarsi e insultarsi attraverso la
stampa specializzata, finalmente si riappacificano, tornano a
frequentarsi, meditano la reunion e cominciano a pensare a un nuovo
album. Dopo numerose traversie, e solo nel 2005, viene alla luce
Everybody Loves A Happy Ending, che sotto il titolo autoironico nasconde
un buon lavoro, in cui è ancora la passione per la musica dei Beatles a
farla da padrona, anche se questa volta l’elettronica è quasi
completamente abbandonata in favore di strumenti acustici. Splendida la title track,
migliore episodio di un album che, nonostante l’impegno del duo, vende
davvero pochino. Oggi, Orzabal e Smith, superata abbondantemente la
cinquantina, hanno ritrovato intesa ed equilibrio, registrando cover
(bellissima Ready To Start dal repertorio degli Arcade Fire) e
lavorando al nuovo album che, dopo annunci e smentite, dovrebbe essere
pronto per la primavera del 2018. In tale attesa, la band ha pubblicato
il 10 novembre di quest’anno Rule The World, ennesimo greatest hits,
contenente sedici canzoni, di cui undici già presenti in Tears Roll Down
(1992), due prese da lavori più recenti (Break It Down Again da Elemental e Raoul and the Kings of Spain
dall’omonimo album) oltre a due inediti. La registrazione è
scintillante (si coglie davvero l’essenza di composizioni che possiedono
ormai le stigmate di ever green), ed è questo forse l’unico motivo per
approcciarsi a un repertorio arcinoto. I due nuovi brani (erano ormai
tredici anni che i fans attendevano un inedito), a dirla tutta, non
sono, infatti, un granché: Stay è un lentone sofferto, ma abbastanza ovvio (siamo dalle parti degli ultimi Coldplay) mentre I Love You But I’m Lost, modernissima
nei suoni, è un brano dance molto ruffiano ma povero di contenuti.
Ottimo vademecum per neofiti, sostanzialmente inutile per tutti gli
altri.
Talvolta,
a mia insaputa, vengo colto da lancinanti fiammate di retro-mania.
Succede, ad esempio, quando incrocio qualche band il cui nome richiama
un tempo lontano in cui la mia vita era tutta rose e fiori. Anni
spensierati, in cui vivevo nella logica dettata dall’incontro tra due
massimi sistemi: quello del calcio e quello della figa. A quei tempi, la
musica era inevitabilmente lo specchio delle mie giornate, colonna
sonora di leggerezza e speranza; così, a riascoltarli, quei vecchi
dischi, anche quelli appartenenti ai tanto vituperati anni ’80, mi
procurano sempre un’iniziale dose di euforia (salvo, poi, accorgermi,
dopo qualche minuto d’ascolto, che la profondità artistica di certe
canzoni è tale perchè amplificata da un mio senescente senso di
nostalgia). In questi giorni, ho provato un piccolo brivido passatista
anche con i Corrs, band della quale, a dire il vero, non sono mai stato
fans, ma i cui vecchi singoli ricollego con istinto pavloviano ad alcuni
dei miei giorni più felici. Canzoni come Forgiven, Not Forgotten e Runaway,
per citarne un paio, risuonano ancora nelle mie orecchie come bucolica
colonna sonora di lontane storie d‘amore o giornate dedicate al
cazzeggio amicale. Composta da quattro fratelli, tre belle gnocche e un
reggi moccolo, la band dei The Corrs proponeva un soft pop acustico,
leggermente profumato di fragranze d’Irlanda, la loro terra d’origine.
Amati da tutti coloro che avevano a cuore la cultura e il fascino dello
smeraldo verde (trend geografico che in quegli anni andava per la
maggiore), ma che, per converso, non avevano le orecchie adatte a
tollerare l’asprezza alcolica dei Pogues o l’approccio ortodosso dei
Chieftains, i Corrs si presentavano al pubblico come la versione light
dei Cranberries oppure come quella metalcore di Enya (questo dipende
essenzialmente da quello che pensate della narcolettica new age
dell’autrice di Orinoco Flow). L’Irlanda dei Coors, alla resa dei conti,
era sostanzialmente un’Irlanda da cartolina e, non bastando certo un
violino e un piffero a evocare la grande tradizione folk celtica, quelle
canzoni avevano il gusto di un cicchetto di Paddy allungato con mezzo
litro d’acqua naturale. La formula, nonostante siano trascorsi una
quindicina d’anni dal periodo d’oro della band (la cui carriera,
peraltro, ha avuto un lungo iato, dal 2005 al 2015, in cui i quattro
fratelli si sono, qualcuno direbbe fortunatamente, dedicati ad altro),
resta invariata anche in questo nuovo Jupiter Calling, settimo album in
studio, prodotto, inopinatamente, da T Bone Burnett, sulle cui qualità
di compositore e produttore è impossibile dir male. E infatti, il meglio
arriva proprio da Burnett, la cui manina santa aggiusta il suono,
rendendolo più maturo, omogeno e intimista ed epurandolo da quasi tutti i
riferimenti celtici. Difficile, però, fare miracoli, se mancano brani
di spessore e il tasso di zucchero è a livello da diabete fulminante. Le
canzoncine che trainano il disco e puntano alle parti alte della
classifica ci sono (Son Of Solomon, S.O.S.) e, ci
mancherebbe pure altro, possiedono un appeal radiofonico perfetto. A
parte questo, però, il disco, pur nella sua omogeneità (o forse a causa
di questa, dipende dai punti di vista), si dipana stancamente e senza
sussulti per ben cinquantasei minuti, nei quali si ha la sensazione di
deambulare, strafatti di camomilla, attraverso strade lastricate di
zucchero filato e melassa. Tutto a modino, tutto perfettino, tutto
carino, tutto patinato come una copertina di Vogue. Quando, poi, inizia The Sun And The Moon,
brano di quasi otto minuti che chiude il disco, l’abbiocco è ormai in
fase zenitale, la palpebra trema indifesa di fronte alle lusinghe di
Morfeo e lo stato ipnagogico si trasforma, con sollievo, in un sonno
profondo e ristoratore. Più facile, insomma, avere un infarto a
Disneyland (Bebbe Viola, cit.), che provare un sussulto d’emozione
durante la scaletta di Jupiter Calling. Così, a fine ascolto, maledico
la mia retro mania e, per compensare l’apoteosi dolciaria, passo a tutto
volume God Hates Us All degli Slayer. Ma nemmeno la voce assassina di
Tom Araya riesce a salvarmi da un esiziale stato di zuccherino torpore.