martedì 5 dicembre 2017

PREVIEW



“Canzoni sfacciate, audaci e r’n’r che fondono malinconia ed euforia”, così è stato descritto dai Vaccines il loro nuovo album intitolato Combat Sports. Il disco, in uscita per la Columbia Records il prossimo 30 marzo, è il primo senza il batterista Pete Robertson, uno dei membri fondatori della band londinese fuoriuscito nella passata stagione. Qui di seguito la tracklist e un assaggio del primo singolo estratto, Nightclub.





Porter Stout, martedì 05/12/2017

lunedì 4 dicembre 2017

LYDIA LOVELESS - BOY CRAZY AND SINGLE (S) (Bloodshot Records - 2017)

Lydia Loveless prima di essere Lydia Loveless. O quasi, almeno. Questo disco rilasciato dalla Bloodshot Records, infatti, non contiene materiale nuovo, ma un intero Ep, Boy Crazy, uscito nel 2013, alcune cover e singoli sparsi. Non siamo agli albori della carriera della songwriter dell’Ohio (The Only Man è del 2010 e Indestructible Machine è del 2011), ma sicuramente queste canzoni rappresentano molto bene il punto di partenza di una sensibilità artistica che sfocerà nel 2016 in Real, disco inviso ai fans della prima ora (questa raccolta sembra quasi una sorta di risarcimento danni per il precedente album) eppure, a ben vedere, frutto di una maturità più complessa e di una scrittura incredibilmente solida ed efficace.
La canzoni di Real, è questo il motivo che fece gridare allo scandalo molti aficionados, erano canzoni pop; il che, però, non significa necessariamente un abbassamento della qualità della proposta. Anzi. Meno impetuoso, e di certo più ragionato, Real era un disco che allontanava la Loveless dalla cifra estetica che informava i primi dischi e che ci offriva, invece, l’immagine di un artista alle prese con il suo lato più cantautorale, elegante e catchy.
Il pop, d’altra parte, è sempre stato nelle corde di Lydia e questo Boy Crazy And Single(s), pur nella sua foga chitarristica, testimonia di un gusto per il mainstream coltivato fin dagli anni giovanili. Basti ascoltare la melodia diritta (e diretta) dell’iniziale All I Know, uncinante power pop da classifica, o la cover di Blind di Kesha, scelta audace di un brano smaccatamente mainstream, che la Loveless innerva di inaspettata tensione.
Certo, oltre al pop c’è molto altro e in questi primi anni questo “altro” fa la parte del leone. Forse più per ingenuità che per scelta artistica, più per incontenibile furore che per consapevolezza compositiva.
Passionaria e viscerale, Lydia imbraccia la chitarra e parte dritta come un fuso, suonando con gagliardia e senza fronzoli un alt-country imbastardito col rock (e viceversa): c’è la freschezza dei vent’anni, c’è urgenza, c’è un indole punk che talvolta tracima impetuosa (Lover’s Spat) e c’è il roots, l’humus, cioè, che ha dato sostanza alla musica della Loveless.
E poi, ci sono quelle ruvide ballate, come The Water e una Allison, dal repertorio di Elvis Costello, scarnificata all’osso, che arpionano il cuore con un’immediatezza che lascia senza parole.
Se il country di Falling Out Of Love With Me è una delle classiche portate della casa, stupisce davvero, invece, la scelta di reinterpretare I Wold Die 4 You di Prince, artista separato dalla Loveless da una distanza siderale. Eppure, questa cover, che tiene botta nei confronti dell’originale, testimonia della grandezza di un’artista abile a vestire panni diversi e sempre con incredibile fascino.
Un disco non indispensabile per coloro che seguono Lydia fin da inizio carriera (salvo avere raccolto in un unico full lenght materiale altrimenti sparso), imprescindibile, invece, per tutti quelli che vogliono approcciarsi a una delle artiste più interessanti dell’attuale panorama rock americano. Qui troveranno di che innamorarsi, a partire dalla copertina più bella del 2017.

VOTO: 7,5





Blackswan, lunedì 04/12/2017

domenica 3 dicembre 2017

PREVIEW




A distanza di tre anni dal fortunato Did Not He Ramble, uscirà il prossimo 19 gennaio il nuovo album del cantautore irlandese Glen Hansard. Il disco intitolato Between Two Stories è stato registrato in Francia nei Black Box Studios con la collaborazione del produttore David Odlum e dei Fellowship Band, il gruppo che negli ultimi anni accompagna Hansard nell’attività dal vivo. Time Will Be The Heather è il primo singolo estratto.





Porter Stout, domenica 03/12/2017 

sabato 2 dicembre 2017

TEARS FOR FEARS - RULE THE WORLD GREATEST HITS (Mercury, 2017)

Originari di Bath, centro termale della contea di Somerset, Roland Orzabal e Curt Smith, danno vita da giovanissimi ai Graduate, gruppo di mod revival (vedi Jam), che nel 1980 piazza un singolo, Acting My Age, nella top 100 britannica. I Graduate però rappresentano solo un trampolino di lancio per il duo, che ha in testa tutta un’altra musica. Orzabal e Smith si sentono maggiormente attratti dal post punk e da quelle nuove sonorità elettroniche che stanno marcando la nascente epoca del synth pop e della new wave. Abbandonati alla loro sorte gli altri componenti dei Graduate, i nostri eroi formano un nuovo gruppo, The History of Headaches, a cui quasi subito cambiano nome in Tears For Fears, ispirandosi a un trattamento psicoterapeutico inventato dallo psicologo Arthur Janov. Orzabal e Smith hanno le idee ben chiare: fondere il rock sixties di matrice beatlesiana con il pop, l’elettronica e una punta di soul e di psichedelia. Grazie al produttore Dave Bates vengono messi sotto contratto dalla Phonogram Records, che nel 1981 pubblica il loro primo 45 giri, Suffer The Children. Dopo altri due singoli di successo, Pale Shelter (1982) e Mad World (1983), esce il loro primo full lenght, The Hurting (1983). Se è vero che fin dai primi ascolti si capisce che Orzabal è cresciuto con l’intera discografia dei Beatles sotto il cuscino, e altrettanto vero che i due sono bravi ad attualizzare e rinfrescare quelle melodie, e a rimeditare in chiave adulta il synth pop che impazza in quegli anni, usando le tastiere con gusto ed equilibrio, senza disdegnare però l’uso delle chitarre. L’album, quasi un concept sull’infanzia difficile vissuta da Orzabal (la foto del bambino in copertina è in tal senso assai esplicita), piace molto al pubblico inglese, così tanto che in breve tempo vola al primo posto delle charts britanniche. Merito di un pugno di singoli dalla melodia irresistibile: oltre ai citati Mad World (che Gary Jules riporterà al successo nel 2005 reinterpretandola per la colonna sonora del, sopravvalutato, Donnie Darko), Suffer the Children e Pale Shelter, a far sfracelli è soprattutto un brano molto dance intitolato Change, premiatissimo nelle vendite anche in Italia. Spinti dall’inaspettato successo dell’esordio, i Tears For Fears, perfezionano la loro idea di musica, distaccandosi ulteriormente dal synth pop, e rendendo sempre più complessi i testi delle canzoni, che oltre alla psicologia e all’infanzia, questa volta rivolgono uno sguardo anche alla scena politica nazionale e internazionale. Quando esce Songs From The Big Chair (1985), il nuovo suono è frutto di un impasto equilibratissimo fra rock e pop, che parla un linguaggio universale e scala le classifiche di tutto il mondo (USA compresi), arrivando addirittura a conquistare quattro dischi di platino. L’ispirazione è ai massimi livelli, le melodie acquistano qualità grazie a un taglio malinconico e, talvolta, ombroso, che non toglie però brillantezza a brani che possiedono un alto contenuto energetico. Così su MTV e per radio impazzano veri e propri tormentoni (di qualità) che portano il nome di Shout (potente, tribale e solenne) ed Everybody Wants To Rule The World (entrambe prime negli Stati Uniti). A ben ascoltare, però, c’è altro e anche meglio: il blues sofferto di I Believe, il basso pulsante che introduce il rock adrenalinico di Broken, la solarità funky dell’incredibile Heads Over Heels, irresistibile esplosione di vitalità adolescenziale e forse la loro miglior canzone di sempre. Dopo quattro anni di guadagni e lodi sperticate, i Tears For Fears tornano sulle scene con un album che si discosta non poco dai suoi due predecessori. The Seeds Of Love (1989), costato un milione di sterline e il quasi fallimento della Mercury Records, si presenta come un disco raffinato, pretenzioso e ricco di sonorità jazzy e soul che levigano elegantemente la grande passione di Orzabal per i Beatles. Non tutto è centrato, a tratti il suono si fa verboso e ricco di orpelli, e la super produzione con ospitate di grido (Phil Collins, Manu Katchè, Oleta Adams), imbolsisce un po’ il tutto. Le cose buone, comunque, non mancano, a partire dal singolo Woman In Chains (straordinaria interpretazione vocale di Oleta Adams), alla hit Sowing The Seeds Of Love, beatlesiana fino al midollo e venata da una polemica a distanza con Paul Weller, accusato di aver messo fine all’avventura Jam (“kick out the styles, bring back the jam”), e al soul cristallino di Advice For The Young At Heart, sicuramente la miglior canzone del disco. Alla fine delle registrazioni Smith se ne va, sbattendo la porta, stufo dell’egocentrismo di Orzabal e del suo modo cerebrale e pignolo di approcciarsi a composizione e produzione. Dal canto suo, Orzabal, che ha ormai perso il suo tocco magico, si tiene stretto il marchio di fabbrica e continua a sfornare dischi, questa volta, però, non particolarmente ispirati. Elemental (1993), dalle sonorità marcatamente soul, e Raoul And The King Of Spain (1995), un pretenzioso concept album privo di leggerezza e divertimento, sono un flop in termini di vendite e mostrano una creatività da raschio del barile. Nel 2001, Orzabal e Smith, che per tutto il decennio precedente non avevano smesso di attaccarsi e insultarsi attraverso la stampa specializzata, finalmente si riappacificano, tornano a frequentarsi, meditano la reunion e cominciano a pensare a un nuovo album. Dopo numerose traversie, e solo nel 2005, viene alla luce Everybody Loves A Happy Ending, che sotto il titolo autoironico nasconde un buon lavoro, in cui è ancora la passione per la musica dei Beatles a farla da padrona, anche se questa volta l’elettronica è quasi completamente abbandonata in favore di strumenti acustici. Splendida la title track, migliore episodio di un album che, nonostante l’impegno del duo, vende davvero pochino. Oggi, Orzabal e Smith, superata abbondantemente la cinquantina, hanno ritrovato intesa ed equilibrio, registrando cover (bellissima Ready To Start dal repertorio degli Arcade Fire) e lavorando al nuovo album che, dopo annunci e smentite, dovrebbe essere pronto per la primavera del 2018. In tale attesa, la band ha pubblicato il 10 novembre di quest’anno Rule The World, ennesimo greatest hits, contenente sedici canzoni, di cui undici già presenti in Tears Roll Down (1992), due prese da lavori più recenti (Break It Down Again da Elemental e Raoul and the Kings of Spain dall’omonimo album) oltre a due inediti. La registrazione è scintillante (si coglie davvero l’essenza di composizioni che possiedono ormai le stigmate di ever green), ed è questo forse l’unico motivo per approcciarsi a un repertorio arcinoto. I due nuovi brani (erano ormai tredici anni che i fans attendevano un inedito), a dirla tutta, non sono, infatti, un granché: Stay è un lentone sofferto, ma abbastanza ovvio (siamo dalle parti degli ultimi Coldplay) mentre I Love You But I’m Lost, modernissima nei suoni, è un brano dance molto ruffiano ma povero di contenuti. Ottimo vademecum per neofiti, sostanzialmente inutile per tutti gli altri.

VOTO: 7





Blackswan, sabato 02/12/2017

venerdì 1 dicembre 2017

THE CORRS - JUPITER CALLING (East West Records, 2017)

Talvolta, a mia insaputa, vengo colto da lancinanti fiammate di retro-mania. Succede, ad esempio, quando incrocio qualche band il cui nome richiama un tempo lontano in cui la mia vita era tutta rose e fiori. Anni spensierati, in cui vivevo nella logica dettata dall’incontro tra due massimi sistemi: quello del calcio e quello della figa. A quei tempi, la musica era inevitabilmente lo specchio delle mie giornate, colonna sonora di leggerezza e speranza; così, a riascoltarli, quei vecchi dischi, anche quelli appartenenti ai tanto vituperati anni ’80, mi procurano sempre un’iniziale dose di euforia (salvo, poi, accorgermi, dopo qualche minuto d’ascolto, che la profondità artistica di certe canzoni è tale perchè amplificata da un mio senescente senso di nostalgia). In questi giorni, ho provato un piccolo brivido passatista anche con i Corrs, band della quale, a dire il vero, non sono mai stato fans, ma i cui vecchi singoli ricollego con istinto pavloviano ad alcuni dei miei giorni più felici. Canzoni come Forgiven, Not Forgotten e Runaway, per citarne un paio, risuonano ancora nelle mie orecchie come bucolica colonna sonora di lontane storie d‘amore o giornate dedicate al cazzeggio amicale. Composta da quattro fratelli, tre belle gnocche e un reggi moccolo, la band dei The Corrs proponeva un soft pop acustico, leggermente profumato di fragranze d’Irlanda, la loro terra d’origine. Amati da tutti coloro che avevano a cuore la cultura e il fascino dello smeraldo verde (trend geografico che in quegli anni andava per la maggiore), ma che, per converso, non avevano le orecchie adatte a tollerare l’asprezza alcolica dei Pogues o l’approccio ortodosso dei Chieftains, i Corrs si presentavano al pubblico come la versione light dei Cranberries oppure come quella metalcore di Enya (questo dipende essenzialmente da quello che pensate della narcolettica new age dell’autrice di Orinoco Flow). L’Irlanda dei Coors, alla resa dei conti, era sostanzialmente un’Irlanda da cartolina e, non bastando certo un violino e un piffero a evocare la grande tradizione folk celtica, quelle canzoni avevano il gusto di un cicchetto di Paddy allungato con mezzo litro d’acqua naturale. La formula, nonostante siano trascorsi una quindicina d’anni dal periodo d’oro della band (la cui carriera, peraltro, ha avuto un lungo iato, dal 2005 al 2015, in cui i quattro fratelli si sono, qualcuno direbbe fortunatamente, dedicati ad altro), resta invariata anche in questo nuovo Jupiter Calling, settimo album in studio, prodotto, inopinatamente, da T Bone Burnett, sulle cui qualità di compositore e produttore è impossibile dir male. E infatti, il meglio arriva proprio da Burnett, la cui manina santa aggiusta il suono, rendendolo più maturo, omogeno e intimista ed epurandolo da quasi tutti i riferimenti celtici. Difficile, però, fare miracoli, se mancano brani di spessore e il tasso di zucchero è a livello da diabete fulminante. Le canzoncine che trainano il disco e puntano alle parti alte della classifica ci sono (Son Of Solomon, S.O.S.) e, ci mancherebbe pure altro, possiedono un appeal radiofonico perfetto. A parte questo, però, il disco, pur nella sua omogeneità (o forse a causa di questa, dipende dai punti di vista), si dipana stancamente e senza sussulti per ben cinquantasei minuti, nei quali si ha la sensazione di deambulare, strafatti di camomilla, attraverso strade lastricate di zucchero filato e melassa. Tutto a modino, tutto perfettino, tutto carino, tutto patinato come una copertina di Vogue. Quando, poi, inizia The Sun And The Moon, brano di quasi otto minuti che chiude il disco, l’abbiocco è ormai in fase zenitale, la palpebra trema indifesa di fronte alle lusinghe di Morfeo e lo stato ipnagogico si trasforma, con sollievo, in un sonno profondo e ristoratore. Più facile, insomma, avere un infarto a Disneyland (Bebbe Viola, cit.), che provare un sussulto d’emozione durante la scaletta di Jupiter Calling. Così, a fine ascolto, maledico la mia retro mania e, per compensare l’apoteosi dolciaria, passo a tutto volume God Hates Us All degli Slayer. Ma nemmeno la voce assassina di Tom Araya riesce a salvarmi da un esiziale stato di zuccherino torpore.

VOTO: 5





Blackswan, venerdì 01/12/2017