giovedì 5 luglio 2018

JOE BONAMASSA - BRITISH BLUES EXPLOTION LIVE (Provogue, 2018)

Che Bonamassa sia uno dei musicisti più prolifici al mondo, tanto da pubblicare un album ogni tre mesi circa (da solo, con Beth Hart, con i Black Country Communion o con i Rock Candy Funk Party) è un dato di fatto incontrovertibile.
Questa esposizione mediatica più piacere o meno, ma, a parte un talento tecnico indiscutibile, il chitarrista newyorkese è in grado comunque di stupirci ogni volta, evitando il compitino di maniera, ma cercando modalità di espressione, che pur in un ambito a lui congeniale, sono ogni volta diverse.
Dopo il blues americano, il funky jazz dei RCFP, l’hard rock dei BCC e il soul e il r’n’b in condominio con Beth Hart, il nostro guitar hero torna indietro nel tempo fino agli anni ’60, per rendere omaggio al british blues, senza il quale, come spiega lo stesso Joe nelle note di copertina dell’album, il rock blues che conosciamo oggi non sarebbe mai potuto esistere.
Un disco tributo, quindi, di una delle stagioni d’oro della musica britannica, che Bonamassa recupera evitando però banalità, e allestendo una scaletta live di brani noti, ma non notissimi, di artisti del calibro di Eric Clapton (Mainline Florida, Pretending), Led Zeppelin (Tea For One, Boogie With Stu, How Many More Times), Cream (Swlabr), John Mayall (Little Girl) e Jeff Beck (Beck’s Bolero/Rice Pudding).
Con la consueta band di fuoriclasse (Michael Rodhes al basso, Reese Wynans alle tastiere, Anton Fig alla batteria e Russ Irwin alla chitarra ritmica) e la produzione del sodale di sempre, Kevin Shirley, Bonamassa reinterpreta con gusto personale canzoni lontane nel tempo e dalla grande resa live, a cui manca il british touch che le aveva contraddistinte (Bonamassa è irrimediabilmente americano) ma a cui il chitarrista dona nuova linfa grazie a versioni frizzanti e a una performance chitarristica come al solito debordante, a volte, anche eccedendo in virtuosismi e prolissità, in altre sfoderando il giusto mix fra tecnica ed energia (Swlabr, How Many More Times e, soprattutto, Double Crossing Time).  
Da un lato, molti non approveranno l’operazione, ritenendola fuori tempo massimo e figlia di un inutile e nostalgico passatismo, mentre altri, più abituati a una musica di sostanza e a un rock chitarra-centrico, troveranno in questa nuova avventura di Bonamassa un ulteriore meritevole titolo da inserire nella propria discografia.
Non spetta a noi giudicare i gusti, il nostro compito semmai è quello di garantire la qualità di un disco. Per cui, se vi piace questa musica, questa è musica buona. Garantito al limone.

VOTO: 7





Blackswan, giovedì 05/07/2018

mercoledì 4 luglio 2018

PREVIEW




I St. Paul & The Broken Bones hanno annunciato l’uscita del loro terzo album, Young Sick Camelia, che vedrà la luce il 7 di settembre, via Sony Music. Il disco sarà composto da canzoni prevalentemente introspettive e personali, quindi abbastanza lontano, per contenuti, dal taglio politico del precedente Sea Of Noise. Per lanciare il nuovo full lenght il sestetto ha lanciato il primo singolo, Apollo, e ha iniziato le date del nuovo tour che, per il momento, non toccherà l’Europa.





Blackswan, mercoledì 04/07/2018

martedì 3 luglio 2018

IAN MCGUIRE - LE ACQUE DEL NORD (Einaudi, 2018)

1859, Patrick Sumner è un giovane medico che ha servito nell'esercito inglese durante l'assedio di Delhi. Ma nel suo passato militare c'è un evento oscuro che l'ha costretto alle dimissioni e il cui ricordo lo perseguita. Rimasto senza un soldo e in fuga dai propri fantasmi, decide di imbarcarsi come chirurgo di bordo su una nave baleniera, la Volunteer.
Nel nord della baia di Baffin, tra il Canada e la Groenlandia, c'è una polinia (una zona di mare artico dal microclima particolare dove si concentrano le balene) nota come North Water: è qui che è indirizzata la Volunteer, ed è qui che il suo equipaggio scoprirà cos'è l'inferno. Del resto sembra già una nave di dannati: a bordo della baleniera, Sumner si ritrova di fronte un'umanità perduta e violenta. Ma soprattutto si ritrova di fronte un uomo brutale, che sembra essere l'incarnazione stessa del male: Henry Drax, il ramponiere.
Quando sulla nave viene ucciso un giovanissimo mozzo, primo di una serie di brutali omicidi, Sumner è costretto a guardare in faccia il suo passato e a sfidare nuovamente l'orrore. Candidato al Man Booker Prize. Inserito in ogni lista dei migliori libri dell'anno dal «New York Times» al «Wall Street Journal», passando per il «Guardian» e il «New Statesman». Bestseller sia negli Stati Uniti sia in Inghilterra. Amato da Colm Tóibín, Hilary Mantel e Martin Amis. La Bbc ne farà una serie televisiva.
Insomma, McGuire ha convinto tutti, pubblico e critica, e non c'è da stupirsi. Perché in queste pagine c'è tutto quello che qualunque lettore vorrebbe trovare: avventura, emozione, suspense. Le acque del Nord è un thriller, un romanzo storico e di viaggio, un grande racconto che tiene incollati fino all'ultima pagina. Ma soprattutto è la prova di scrittura magistrale di un autore che ha trovato la sua personalissima voce letteraria guardando a Melville, Dickens, Conrad e McCarthy.

Prendere in mano un libro e tornare ragazzini, viaggiare verso un mondo lontano di terre selvagge e estreme, perdersi in un’avventura pericolosa, al limite delle nostre capacità. La fantasia che diventa reale, nello stesso modo di quando, bambini, ci immergevamo in quei romanzi di formazione che hanno costituito il nostro scheletro etico, l’approdo al mondo adulto.
Questa la prima sensazione provata dopo aver letto l’ultima pagina di Le Acque Del Nord, un romanzo che si legge tutto d’un fiato e che strega per intensità e qualità di scrittura. Un romanzo di avventura, di quelli di una volta, che inizia con un brutale omicidio, che ci porta su una baleniera in viaggio verso i mari del Nord, che vive momenti palpitanti in lande desolate e gelide, e che si chiude a Hull, in un redde rationem violento e salvifico.
Le Acque Del Nord, però, è anche un libro che racconta di un uomo assediato da lontani fantasmi, incapace di dare un senso alla propria vita, che cerca un’impossibile redenzione, quale che sia.
McGuire cita con gusto personale i grandi della letteratura, partendo ovviamente dal Moby Dick di Melville e da Cuore Di Tenebra di Joseph Conrad, e tratteggiando con vivido carattere anche quell’umanità sordida che riempiva le pagine dei romanzi sociali di Dickens. Un’umanità sempre al limite, connotata dalla contiguità con il male assoluto, violenta e priva di scrupoli, un’umanità di corpi sporchi e maleodoranti, in cui protagonista assoluta è la carne, straziata, lacerata, putrefatta, emblema di un rozzo materialismo in cui anche la luce di Dio assume solo connotati di superstizione e sterile predicazione.
C’è avventura, dunque, ci sono i colpi di scena che animano il thriller, ma c’è anche la riflessione esistenziale di un uomo che, pur guardando alla vita con cinismo disarmante e senza più speranza, è capace ancora, quando tutto intorno a lui precipita nella brutalità e nella violenza, di trovare quell’afflato etico che lo redimerà fino alla salvezza. Emozionante e scritto benissimo. Consigliato.

Blackswan, martedì 03/07/2018

lunedì 2 luglio 2018

DAWES - PASSWORDS (HUB Records, 2018)

Cosa sia successo ai Dawes è una domanda alla quale è quasi impossibile dare risposta. La band losangelina composta da Taylor Goldsmith alla voce e alla chitarra, suo fratello Griffin alla batteria, Wylie Weber al basso e Alex Casnoff alla chitarra, ha infatti dilapidato in cinque anni il patrimonio di credibilità artistica messo in sicurezza con quel piccolo gioiello datato 2013 e intitolato Stories Don’t End.
Quello era un disco di west coast, inciso fuori tempo massimo e zeppo di citazioni (CSN&Y, Jackson Browne, Eagles, James Taylor), ma caratterizzato da un sound ben riconoscibile e strutturato, e pur muovendosi su un percorso conosciuto, la band evitava accuratamente la main street, preferendo invece un itinerario personalizzato, meno agevole, certo, ma proprio per questo lontano dai più scontati luoghi comuni.
Il successivo All Your Favorite Bands (2015), appena un gradino sotto il predecessore, ribadiva il brillante stato di forma di un gruppo, la cui visione moderna era in grado di nuovo di stupirci attraverso un suono vintage e risaputo, eppure maneggiato con gusto personale e originalità.
Poi, qualcosa si è rotto, e il successivo We’re All Gonna Die (2016) ha segnato un deciso cambio di passo, o meglio una clamorosa involuzione, rispetto a quel disco, che solo un anno prima, aveva strappato numerosi consensi da parte della stampa specializzata. Accantonata per buona parte la tradizione west coast, Goldsmith e soci sfornarono una pasticciatissima scaletta di corbellerie, confusa nelle idee e nelle intenzioni, e che sembrava solo (ma forse neppure) lontana parente di una discografia fino ad allora ineccepibile.
Questo nuovo Passwords ci racconta oggi di una band che sembra aver perso completamente la bussola e che naviga a vista in un mare di mediocrità apparentemente senza approdi. Pur ritornando a rimasticare il genere west coast che ne avevano caratterizzato la prima parte di carriera e sfoderando, quindi, tutto l’armamentario di suoni vintage di californiana memoria, passatismo seventies e citazioni a go go, i Dawes sembrano aver smarrito l’ispirazione di un tempo, ovviando alla mancanza di canzoni (qui di passabili ce ne sono davvero poche) con arrangiamenti bolsi e melensi, necessari evidentemente a sorreggere composizioni scialbe e senza mordente.
Il primo singolo, Living In The Future, sfodera un bel suono di chitarra e un discreto ritornello, ma non supera gli standard di chi con mestiere procede con il pilota automatico. Stay Down è un folk rock sbiadito con retrogusto messicano, i cui echi vorrebbero rimandare agli Eagles, mentre Crack The Case guarda al nume tutelare Jackson Browne, ma risulta verbosa e sdolcinata invece che malinconica, come era probabilmente nelle intenzioni.
Decisamente meglio il mid tempo di Feed The Fire, che rincuora un po’ con una bella melodia e un centrato ritornello che cita addirittura gli America. Un buon brano che però non può nulla contro la successiva My Greatest Invention, indigeribile polpettone alla melassa, reso ancora più letifero da un arrangiamento in cui archi e archetti, tastiere e tastieroni e chitarra pizzicata fanno la parte del leone soffocando ogni presunta velleità di pathos. Una canzone tanto brutta da far passare la voglia di cimentarsi con il resto della scaletta, la quale, tra leziosità e amenità assortite, si chiude con la discreta Time Files Either Way, ballata ancora una volta ispirata da Jackson Browne, che testimonia le virtù, ormai quasi del tutto smarrite, di una band in evidente crisi creativa.

VOTO: 5





Blackswan, lunedì 02/07/2018

domenica 1 luglio 2018

PREVIEW




La band dream-pop canadese Dizzy è orgogliosa di annunciare l’album di debutto Baby Teeth, in uscita il 17 agosto su Communion Music / Royal Mountain Records, distribuzione Universal.

La giovane band formata dai tre fratelli Spencer, Alex (chitarra), Mackenzie (basso) e Charlie (batteria) e dall’amica di Charlie, Katie Munshaw (voce), ha collaborato con il produttore nominato ai Grammy Damian Taylor (Bjork, Braids, Arcade Fire) al Golden Ratio Studios di Montreal.

La band ha debuttato nel Regno Unito con due show a Londra e due a Brighton, al The Great Escape. Il 18 settembre torneranno nel Regno Unito per uno spettacolo che li vedrà protagonisti all’Omeara.

La cantante e paroliera Katie Munshaw descrive il nuovo brano “Joshua” come “un addio a qualcuno che mi ha lasciata all’improvviso.” Il regista Ryan Faist ha preso ispirazione dall’amore giovanile e da quella sensazione di struggimento viscerale: “C’è questo profumo che qualcuno utilizzava quando avevo 12 o 13 anni e ancora lo associo a quella sensazione che non riesco a descrivere. Ritrovo questa fragranza ogni tanto, se sono fortunato. Finalmente la trovai e la spruzzammo in tutta la stanza per il video. Sembra stupido, ma mi fece sentire qualcosa. Il profumo e la canzone assieme.”

In periferia la vita avanza lentamente; la routine viene apprezzata e i gossip alimentano le notizie locali. I Dizzy sono una band che proviene da Oshawa, Ontario e con la loro musica vogliono combattere l’ansia della noia provinciale. Così come molti millenial dei piccoli paesi, i membri della band frequentavano le feste nelle cantine, si innamoravano e si sentivano insicuri. Ma diversamente da molti loro compagni, i Dizzy abbandonarono la routine del liceo per proseguire con il college e scrivere canzoni sulla vita al di fuori.

Cresciuta con la musica alternative (Alvvays, Bright Eyes) e con il country pop (Taylor Swift, Dixie Chicks), Munshaw spiega che Baby Teeth “racconta i miei anni da teenager. Per me la musica deriva dal mio essere estremamente sensibile a tutto. Quando sei così vicino a tante persone, è facile incontrare individui che ti incasinano così tanto da iniziare a scrivere di loro. Oshawa mi ha introdotta all’amicizia, allo struggimento e al cambiamento, ma allo stesso tempo mi annoiava così tanto che finivo per starmene a casa a scrivere di tutto ciò.”

Per i fratelli Spencer fare musica sembrava già essere il loro destino – grazie ai genitori che diedero loro degli strumenti sin dall’infanzia. “Ci hanno sempre incoraggiati a imparare come volevamo, o prendendo lezioni o studiando canzoni che ci piacevano semplicemente ascoltandole,” Charlie racconta. La noia suburbana è stata un’altra forza dietro al loro interesse per la musica e una volta trovato uno spirito affine al loro, in Munshaw, la band iniziò a prendere forma.

In Baby Teeth, Munshaw ci ricorda che “a volte, tutto ciò che puoi fare è girarti sulla schiena, prendere fiato e galleggiare per un po”. Baby Teeth segna l’arrivo di una giovane e brillante band la cui carriera è solo agli inizi.





Blackswan, domenica 01/07/2018