Cosa
sia successo ai Dawes è una domanda alla quale è quasi impossibile dare
risposta. La band losangelina composta da Taylor Goldsmith alla voce e
alla chitarra, suo fratello Griffin alla batteria, Wylie Weber al basso e
Alex Casnoff alla chitarra, ha infatti dilapidato in cinque anni il
patrimonio di credibilità artistica messo in sicurezza con quel piccolo
gioiello datato 2013 e intitolato Stories Don’t End.
Quello
era un disco di west coast, inciso fuori tempo massimo e zeppo di
citazioni (CSN&Y, Jackson Browne, Eagles, James Taylor), ma
caratterizzato da un sound ben riconoscibile e strutturato, e pur
muovendosi su un percorso conosciuto, la band evitava accuratamente la
main street, preferendo invece un itinerario personalizzato, meno
agevole, certo, ma proprio per questo lontano dai più scontati luoghi
comuni.
Il successivo All Your Favorite Bands
(2015), appena un gradino sotto il predecessore, ribadiva il brillante
stato di forma di un gruppo, la cui visione moderna era in grado di
nuovo di stupirci attraverso un suono vintage e risaputo, eppure
maneggiato con gusto personale e originalità.
Poi, qualcosa si è rotto, e il successivo We’re All Gonna Die
(2016) ha segnato un deciso cambio di passo, o meglio una clamorosa
involuzione, rispetto a quel disco, che solo un anno prima, aveva
strappato numerosi consensi da parte della stampa specializzata.
Accantonata per buona parte la tradizione west coast, Goldsmith e soci
sfornarono una pasticciatissima scaletta di corbellerie, confusa nelle
idee e nelle intenzioni, e che sembrava solo (ma forse neppure) lontana
parente di una discografia fino ad allora ineccepibile.
Questo nuovo Passwords
ci racconta oggi di una band che sembra aver perso completamente la
bussola e che naviga a vista in un mare di mediocrità apparentemente
senza approdi. Pur ritornando a rimasticare il genere west coast che ne
avevano caratterizzato la prima parte di carriera e sfoderando, quindi,
tutto l’armamentario di suoni vintage di californiana memoria,
passatismo seventies e citazioni a go go, i Dawes sembrano aver smarrito
l’ispirazione di un tempo, ovviando alla mancanza di canzoni (qui di
passabili ce ne sono davvero poche) con arrangiamenti bolsi e melensi,
necessari evidentemente a sorreggere composizioni scialbe e senza
mordente.
Il primo singolo, Living In The Future,
sfodera un bel suono di chitarra e un discreto ritornello, ma non
supera gli standard di chi con mestiere procede con il pilota
automatico. Stay Down è un folk rock sbiadito con retrogusto messicano, i cui echi vorrebbero rimandare agli Eagles, mentre Crack The Case
guarda al nume tutelare Jackson Browne, ma risulta verbosa e sdolcinata
invece che malinconica, come era probabilmente nelle intenzioni.
Decisamente meglio il mid tempo di Feed The Fire,
che rincuora un po’ con una bella melodia e un centrato ritornello che
cita addirittura gli America. Un buon brano che però non può nulla
contro la successiva My Greatest Invention, indigeribile
polpettone alla melassa, reso ancora più letifero da un arrangiamento in
cui archi e archetti, tastiere e tastieroni e chitarra pizzicata fanno
la parte del leone soffocando ogni presunta velleità di pathos. Una
canzone tanto brutta da far passare la voglia di cimentarsi con il resto
della scaletta, la quale, tra leziosità e amenità assortite, si chiude
con la discreta Time Files Either Way, ballata ancora una volta
ispirata da Jackson Browne, che testimonia le virtù, ormai quasi del
tutto smarrite, di una band in evidente crisi creativa.
VOTO: 5
Blackswan, lunedì 02/07/2018
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