Genere
: Hard Rock
Periodo
di attività : 2010 – 2013
Durati
il tempo di un caffè al bar, i Black Country Communion sono la dimostrazione
che ogni tanto anche un supergruppo può avere un cuore che pulsa e non essere solo
il frutto di estemporanee logiche commerciali. Composto da Joe Bonamassa
(chitarra, voce), Glenn Hughes (voce, basso), Derek Sherinian (tastiere) e
Jason Bonham (batteria), il progetto BCC nasce da un’idea del produttore Kevin
Shirley che ascolta Bonamassa (uno dei migliori chitarristi rock blues in
circolazione) e l’ex bassista dei Deep Purple, Gleen Hughes, jammare insieme
negli studi hollywoodiani di quest’ultimo. Al gruppo si uniscono, sempre su
suggerimento di Shirley, Jason Bonham, figlio del grande John Bonham, batterista
dei Led Zeppelin, e Derek Sherinian, ex tastierista del gruppo prog metal dei Dream
Theater. La formula proposta dal gruppo è figlia delle passate esperienze
musicali dei singoli : un solido hard rock tinteggiato di blues, che guarda
agli anni ’70 e rese leggendarie band come i Deep Purple e i Led Zeppelin.
Anacronistico ? No, se a suonarla sono quattro musicisti che non si limitano a
pavoneggiarsi per le indubbie doti tecniche, ma che sfoderano un piglio
gagliardo e una potenza di fuoco esaltata da una serie di performance live di
tutto rispetto.
L’esordio
porta il nome della band, Black Country
Communion (2010, voto : 7,5), e spazza via ogni perplessità degli scettici
che vedono nella band solo una macchinetta creata ad hoc per meri fini
commerciali. La band è affiatatissima e le esecuzioni sono tecnicamente ineccepibili;
ma ciò che davvero stupisce è l’alta qualità dei brani in scaletta e l’ardore
che permea il disco dalla prima all’ultima nota. L’uno – due iniziale (Black
Country e One Last Soul) metterebbe ko anche l’ascoltatore più distratto,
mentre Song Of Yesterday, la migliore del lotto, ci regala uno degli assoli più
convincenti della carriera di Bonamassa, che quando suona con emozionato
trasporto dimostra di avere pochi eguali al mondo.
Forse Hughes e Bonamassa
sanno che il progetto ha vita corta e spingono a più non posso sull’acceleratore.
Non passa nemmeno un anno ed esce nei negozi 2 (2011, voto : 7) secondo capitolo della saga Black Country
Communion. Il canovaccio dell'hard-rock-blues della migliore tradizione
inglese degli anni' '70 è stato tirato fuori dal cassetto e rimesso a lucido, con
un occhio di riguardo al suono Led Zeppelin: in The Battle For Hadrian's Wall
si ammicca alla deriva folk del terzo album degli Zep, mentre qui e là
spuntano tiratissimi riff di pageiana memoria (Man in the Middle) o
certe aperture orientaleggianti alla Kashmir (Save Me). Un citazionismo
che non è però stucchevole nè fine a se stesso, ma che esalta una band affiatata
e vogliosa, che mette in evidenza, con l' artigianale perizia dei
bei tempi andati, doti compositive che pur non brillando per
originalità sanno comunque colpire nel segno. Quando poi dagli amplificatori
Marshall parte l'assolo assassino di Bonamassa (An Ordinary Son) è
il momento della standing ovation e dei fuochi d'artificio.
Con solo due album all’attivo, ma come da miglior tradizione seventies, i BCC si autocelebrano con Live Over Europe (2012, voto : 7,5), un
granitico doppio dal vivo della durata di circa un’ora e quaranta. Diciassette
canzoni in cui è esibito tutto, ma proprio tutto, il repertorio che fa spellare
le mani dagli applausi a coloro che sono cresciuti ascoltando dischi leggendari
come Made In Japan, The Song Remains The Same e On Stage. Intro sinfonica, uan
pletora infinita di assoli che portano la durata media dei brani oltre i cinque
minuti, fuorvianti incipit strumentali che, poi, all’improvviso, svelano il
riffone di turno. Il tutto condito con sonorità che inevitabilmente richiamano
alla mente i dischi degli Zep e
dei Purple, e che vivono di
originalità e modernità soprattutto nel verbo chitarristico del grande Joe Bonamassa, qui più incisivo che
mai. Live Over Europe (c'è anche
la versione in dvd) soddisfa pienamente le aspettative di tutti gli amanti del
genere : è divertente, è ben suonato (Glenn
Hughes, ragazzino di sessantanni, canta come un ventenne
indemoniato, e va via di acuti di cui ormai Gillan si è scordato da tempo
immemore), ha una scaletta che alterna focose cavalcate a lentoni da cantare
tutti in coro e con gli accendini accesi.
Tra le chicche, il collaudato incipit
di Black Country e One Last Soul, la potenza di fuoco
senza compromessi di The Outsider
e Man In The Middle, il soul al
vetriolo di The Great Divide, e
una chilometrica versione di Song Of
Yesterday, in cui Bonamassa stempera la tensione malinconica della
versione in studio con un bel taglio di vitale energia. Il live si chiude con
la cover di Burn dei Deep
Purple, che pur pagando un debito di brillantezza all’originale (in cui Hughes
duettava a colpi di vertigine con Coverdale), resta comunque un gran bel
sentire. Siamo ai saluti, ma c’è tempo per regalare un’altra gioia ai fans.
Esce Afterglow (2012, voto : 7,5) e
invece di tirare i remi in barca, i quattro fenomeni pagaiano che è un piacere.
Che i ragazzi sapessero suonare divinamente se ne
sarebbe accorto anche un sordo e quindi la considerazione lascia il tempo che
trova, è inutile e gratuita. Stupisce semmai il piglio e la freschezza di
queste undici canzoni (prodotte magnificamente dal solito Kevin Shirley – già
Aerosmith, Hoodoo Gurus, Slayer e Iron Maiden) che non mostrano un punto debole
che sia uno, che hanno un bel suono vintage ma mai arcaico, e che si colorano
della sbrigliata e sudata freschezza di una jam improvvisata su due piedi (ascoltate
la funambolica Common Man, e il rincorrersi degli assoli, nei quali i Deep
Purple all’improvviso si trovano a braccetto con uno scintillante funky rock).
Aggiungiamoci anche che finalmente Sherinian si è guadagnato lo spazio che si
meritava (e il suono ne ha guadagnato perché è diventato più pieno) e che
Hughes azzanna alla gola le canzoni con un’ugola che, strano a dirsi, è migliorata
con l’età, e avremo il quadro completo. Anzi no, dimenticavo: le ballate sono
state praticamente accantonate, così come le aperture più melodiche, e i quattro
picchiano come fabbri dall’inizio alla fine con un piglio da rocker di razza (la
conclusiva Crawl, col suo riff bluesy e sabbathiano e gli arabeschi
fulmicotonici di Bonamassa, ne è la prova provata). Il gruppo, nemmeno troppo
sorprendentemente si scioglie : Hughes pretende più impegno da Bonamassa, ma
quest’ultimo è un vagabondo del rock e non intende prendere domicilio
definitivo. I Black Country Communion sono quindi arrivati al capolinea.
Hughes, pare abbia intenzione di continuare con Bonham e Sherinian ma sotto un
altro nome. Staremo a vedere.
DISCOGRAFIA ESSENZIALE :
BLACK COUNTRY COMMUNION (2010)
Blackswan, martedì 12/11/2013
5 commenti:
Questo rock sa come invecchiare bene!
@ Berica : è invecchiato benissimo ! :)
Qui Black non ci arrivo (ascoltato diligentemente TUTTO!).
Roba troppo densa per una maestra con un sacco di vizi :))))
@ Gioia : Appunto : un pò di densità serve a compensare la leggerezza dei vizi :)
Il rock non invecchia, caso mai matura.
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