Born In The Usa rifatto
per intero, canzone per canzone, dall’inizio alla fine. E’ questo il progetto
messo in piedi da alcuni artisti orbitanti intorno alla scena country rock
americana, per celebrare il trentennale del disco, se non più bello,
sicuramente più famoso, di Bruce Springsteen. La domanda sorge subito spontanea:
ha senso un’operazione di questo tipo? Cosa ne può determinare la riuscita
sotto il profilo artistico ? Perché, diciamolo senza peli sulla lingua, a
prescindere dalla caratura dei musicisti coinvolti e dal corretto approccio
filologico alla musica del boss, ciò che conta è avere idee che permettano di
tenersi lontano dalla riproposizione, sic et simpliciter, di una scaletta già
conosciuta per filo e per segno, dando nuova linfa a vecchie canzoni,
decontestualizzandole e riproponendole come fossero nuove. Se no, inutile ribadirlo,
meglio ascoltarsi il disco originale. Fatta la dovuta premessa, possiamo allora
affermare che Dead Man’s Town ha colto nel segno e merita senz’altro la spesa per
acquistarlo e la fatica per riuscire a reperirlo (su itunes non si trova e
dovrete ordinarlo presso il vostro rivenditore di fiducia). Due sono i motivi
che hanno attirato la nostra attenzione. In primis, il fatto che a cimentarsi
nel progetto siano quasi tutti musicisti giovani, che all’epoca dell’uscita del
disco non erano ancora nati o al massimo ciucciavano il latte dal biberon.
Particolare, questo, non di poco conto: i ragazzi coinvolti nel disco non si
portano dietro il loro bagaglio di ricordi e la mitizzazione di una musica che la
mia generazione ha vissuto in prima persona, e sono quindi liberi di leggere
queste canzoni per quello che sono, non per quello che hanno significato. Il
secondo aspetto è invece relativo al mood dell’album: festoso ed energico nella
sua accezione originaria, incredibilmente cupo in questa riproposizione 2.0.
Nel complesso le dodici canzoni di Born In The Usa ci sono piaciute quasi tutte,
con l’eccezione di Darlington County rivista dai Quaker City Nighthawks e My
Hometown riproposta dai North Mississippi Allstars, che non sono affatto
brutte, ma restano ancora troppo limitrofe all’originale per creare nuove
suggestioni. Meglio fanno Nicole Atkins con una narcolettica Dancing In The Dark,
sussurrata ed elettronica, e gli Apache Relay che trasformano Cover Me nel
risveglio da un trip psichedelico. La cose migliori, però, sono quelle che stravolgono
completamente l’assetto primigenio della canzone. La sensualità di I’m On Fire
è trasformata dai Low in una nenia funebre, Ryan Culwell spoglia di ogni
epicità Bobby Jean, lasciandone solo lo scheletro e ghermendo alla gola con due
note di piano che arrivano dall’aldilà e una voce ruvidissima, mentre la Glory Days
rifatta da Justin Townes Earle (il figlio
del mitico Steve) è una passeggiata, fra la polvere e sotto la canicola, sulle
strade dell’America rurale. Il capolavoro lo azzecca proprio a inizio disco Jason
Isbell insieme alla violinista Amanda Shires (già militante nei 400 Unit, la
band che accompagna Isbell dal vivo): il potente inno antimilitarista della
title track diviene la visione spettrale di un campo di battaglia livido di
sangue. Da brividi.
VOTO: 7
Blackswan, domenica 21/09/2014
2 commenti:
L'originale fu il primo LP comprato da mio fratello per il nuovo stereo, ricordo che avevo imparato tutti i passaggi per mettere il disco sul piatto ed ascoltarmelo con le cuffie...e lo ascoltavo tante volte :)
@ Baol: io lo consumo anche oggi :)
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