La grandezza e l’importanza
storica dei Led Zeppelin è cosa nota e non si discute. E nonostante il tempo passato,
quella favolosa discografia non può certo essere definita archeologia musicale:
anche oggi, ascoltare un disco del dirigibile è cosa buona e giusta e fonte di
salvezza. Altra cosa, invece, sarebbe replicare quel suono all’infinito, reiterare
ad libitum i fasti di una leggendaria stagione ormai chiusa da quasi quarant’anni.
Che poi di giovani band che ci provano, con approccio filologico, entusiasmo e
piglio modernista ne è pieno il mondo. Così il buon Robert, separatosi dall’amico
Jimmy, ha cercato di battere nuove strade, di esplicitare le proprie
convinzioni musicali, basandosi più sull’istinto e l’intuizione che sul
riepilogo periodico dei bei giorni che furono. All’inizio, a dire il vero,
balbettando un po’ ed esibendo un repertorio non all’altezza della fama (cito
per tutti un disco penoso come Manic Nirvana del 1990), ma ritrovando poi,
negli ultimi anni (ci avviciniamo ai settanta, caro Robert) una voglia e una
convinzione che sembrava smarrita per sempre. Nel 2007, la sorprendente
collaborazione con Alison Krauss, a metà strada tra roots (americano) e rock, e
nel 2010, un album a nome Band Of Joy (il suo primo progetto musicale), hanno
rilanciato alla grande, soprattutto in termini di apprezzamento critico, uno
degli artisti più amati di ogni tempo. Non sorprende affatto, quindi, che
Lullaby And…The Ceaseless Roar prosegua l’ottimo percorso intrapreso e si
presenti alle orecchie dell’ascoltatore come un album davvero bello. Bello perché
inconsueto, inaspettato e ambizioso. Se l’attenzione è ancora rivolta a
sonorità folk (ma questa volta i riferimenti si trovano in Inghilterra e in Galles)
e il rock vive sottotraccia, come un tizzone coperto di cenere che al primo
soffio di vento potrebbe tornare ad ardere (Turn It Up), Robert azzarda però un
curioso impasto di elettronica e suoni africani che spiazza. Spiazza perché l’intuizione
è azzeccata, perché si ha talvolta la sensazione assai curiosa di ascoltare i
Chieftains alle prese con un repertorio magrebino (il traditional Little
Maggie), perché Plant, invece di puntare l’ugola verso note ormai imprendibili,
modella la voce alle nuove esigenze, sfoderando una prestazione sorniona, che
riesce a essere nel contempo carezzevole e aspramente malinconica. Non so dire
se Lullaby…sia un punto di arrivo o solo un nuovo approdo nel lungo viaggio
intrapreso da Plant.
Ad ogni modo appare chiaro, fin dalle prime note, che questo full
lenght ci restituisce nuovamente integro il talento di un artista capace di
sfidare il proprio passato senza tuttavia mai rinnegarlo. Lo spirito del rocker
c’è ancora, ma è del tutto inutile scontrarsi coi limiti di una conclamata
senescenza. Meglio adattarsi e trovare il modo migliore per esprimere il
proprio vissuto, la propria cultura, quel desiderio di essere ancora
protagonisti nonostante siano passati secoli da Whole Lotta Love. In questo,
Plant dimostra di avere un’intelligenza artistica sopra la media, perché è stato
capace di assecondare il proprio istinto, plasmandolo però in qualcosa che non
risulti mai patetico e suoni invece ancora futuribile. Una consapevolezza che
cuce e ricama canzoni, che racconta una vita, che impone riflessioni e che, con
lo sguardo malinconico di chi vede il traguardo finale innanzi a se, sa ancora
toccare le corde del cuore. Senza furore, senza quell’energia primordiale che
animava il sound del dirigibile, ma con quell’intimo lirismo con cui si spoglia
chi esibisce senza filtri la propria anima. Così, quando iniziano le prime note
di A Stolen Kiss, amara riflessione sulla fine della relazione con l’amata Patty
Griffin (Love waits for no one, there is
so little time. It’s cruel and elusive and so hard to find. And moving
further and further each day. I’m
gone), i Led Zeppelin appaiono un lontano ricordo, e noi siamo
felici che Plant continui a farci compagnia con altre belle canzoni.
Sicuramente diverse e inaspettate, ma in grado comunque di emozionarci.
VOTO: 7,5
Blackswan, sabato 20/09/2014
3 commenti:
Faccio quello che non si dovrebbe fare mai, e cioè commentare un disco che non ho sentito.
Ma in realtà vorrei esprimere un pensiero relativo a tutto il Robert Plant recente.
Faccio fatica sia a sentirlo che a vederlo.
Temo sia, purtroppo, il più bolso di tutte le rockstar degli anni 70 tuttora in pista.
Con la sola eccezione, forse, di Ozzy che però ha altri problemi.
La faccia gli è crollata, i movimenti sul palco stanno al minimo sindacale e la voce è poco più di un sussurro.
Nessuna di queste tre cose è una colpa, ovviamente, e non avrebbe senso rimproverare un cavallo vecchio perchè non corre più come quando era giovane.
Però le tre cose insieme un po' mi devastano, e mi rendono difficile apprezzare le corde che lui tocca adesso.
E pensare che solo in occasione del Celebration Day a Londra era stata tutta un'altra storia, e parliamo del 2007, mica dei tempi di Francesco Giuseppe.
Ma magari sbaglio io, e bene farei invece ad abituarmi all'idea.
@ Ezzelino: Azz... sei un vero rottamatore, altro che Renzi ! :)))
A dire il vero, Plant è in gran forma (visto dal vivo a Milano tre anni fa) e sforna ancora grandi dischi. E poi, meglio adattare la propria voce a nuove esigenze, che continuare a tentare quello che per natura è ormai impossibile. I Led Zeppelin se ne sono andati secoli fa: dispiace, ma bisogna farsene una ragione. E come disceva un certo Wilde: l'unica attrattiva del passato è che è passato. :)
Sì, appunto, io rottamerei Renzi.
Boh, posso dirti che a giugno per esempio sono andato a vedere gli Aerosmith.
Steven Tyler, pur devastato da tutto quello che sappiamo, canta e si muove ancora come una volta.
E che gli dei mi perdonino l'accostamento.
Forse Plant si sente cambiato al punto che le cose di un tempo ha proprio deciso di non farle più.
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