domenica 21 settembre 2014

DEAD MAN’S TOWN/ A TRIBUTE TO BORN IN THE USA – VARIOUS ARTISTS




Born In The Usa rifatto per intero, canzone per canzone, dall’inizio alla fine. E’ questo il progetto messo in piedi da alcuni artisti orbitanti intorno alla scena country rock americana, per celebrare il trentennale del disco, se non più bello, sicuramente più famoso, di Bruce Springsteen. La domanda sorge subito spontanea: ha senso un’operazione di questo tipo? Cosa ne può determinare la riuscita sotto il profilo artistico ? Perché, diciamolo senza peli sulla lingua, a prescindere dalla caratura dei musicisti coinvolti e dal corretto approccio filologico alla musica del boss, ciò che conta è avere idee che permettano di tenersi lontano dalla riproposizione, sic et simpliciter, di una scaletta già conosciuta per filo e per segno, dando nuova linfa a vecchie canzoni, decontestualizzandole e riproponendole come fossero nuove. Se no, inutile ribadirlo, meglio ascoltarsi il disco originale. Fatta la dovuta premessa, possiamo allora affermare che Dead Man’s Town ha colto nel segno e merita senz’altro la spesa per acquistarlo e la fatica per riuscire a reperirlo (su itunes non si trova e dovrete ordinarlo presso il vostro rivenditore di fiducia). Due sono i motivi che hanno attirato la nostra attenzione. In primis, il fatto che a cimentarsi nel progetto siano quasi tutti musicisti giovani, che all’epoca dell’uscita del disco non erano ancora nati o al massimo ciucciavano il latte dal biberon. Particolare, questo, non di poco conto: i ragazzi coinvolti nel disco non si portano dietro il loro bagaglio di ricordi e la mitizzazione di una musica che la mia generazione ha vissuto in prima persona, e sono quindi liberi di leggere queste canzoni per quello che sono, non per quello che hanno significato. Il secondo aspetto è invece relativo al mood dell’album: festoso ed energico nella sua accezione originaria, incredibilmente cupo in questa riproposizione 2.0. Nel complesso le dodici canzoni di Born In The Usa ci sono piaciute quasi tutte, con l’eccezione di Darlington County rivista dai Quaker City Nighthawks e My Hometown riproposta dai North Mississippi Allstars, che non sono affatto brutte, ma restano ancora troppo limitrofe all’originale per creare nuove suggestioni. Meglio fanno Nicole Atkins con una narcolettica Dancing In The Dark, sussurrata ed elettronica, e gli Apache Relay che trasformano Cover Me nel risveglio da un trip psichedelico. La cose migliori, però, sono quelle che stravolgono completamente l’assetto primigenio della canzone. La sensualità di I’m On Fire è trasformata dai Low in una nenia funebre, Ryan Culwell spoglia di ogni epicità Bobby Jean, lasciandone solo lo scheletro e ghermendo alla gola con due note di piano che arrivano dall’aldilà e una voce ruvidissima, mentre la Glory Days  rifatta da Justin Townes Earle (il figlio del mitico Steve) è una passeggiata, fra la polvere e sotto la canicola, sulle strade dell’America rurale. Il capolavoro lo azzecca proprio a inizio disco Jason Isbell insieme alla violinista Amanda Shires (già militante nei 400 Unit, la band che accompagna Isbell dal vivo): il potente inno antimilitarista della title track diviene la visione spettrale di un campo di battaglia livido di sangue. Da brividi.

VOTO: 7





Blackswan, domenica 21/09/2014

2 commenti:

Baol ha detto...

L'originale fu il primo LP comprato da mio fratello per il nuovo stereo, ricordo che avevo imparato tutti i passaggi per mettere il disco sul piatto ed ascoltarmelo con le cuffie...e lo ascoltavo tante volte :)

Blackswan ha detto...

@ Baol: io lo consumo anche oggi :)