In attività ormai da
quarant’anni, Willie Nile, dopo due decenni tribolati, ha ritrovato, negli anni
’00, una clamorosa verve creativa, come stanno a testimoniare i cinque dischi pubblicati
dal 2009 a oggi. Dopo il tentativo, peraltro ben riuscito, di virare verso una
dimensione più intima (il confessionale di If I Was A River del 2014), con
World War Willie, Nile torna al suo rock diretto e sincero, che porta nel Dna
il segno distintivo di New York e delle sue infinite strade. Una musica fatta
di slanci, venata di folk e di punk, capace di replicarsi disco dopo disco, senza
scendere mai a compromessi verso le mode del momento. Questo rock primitivo, prevedibile quanto
vuoi, ma generoso fino al midollo, continua a stupirci e a divertirci. Non tanto
per la scrittura, che mostra qualche crepa e in questo ultimo full lenght
appare un po’ usurata, quanto, semmai, per l’energia con cui Nile si approccia
a ogni canzone, come se non fosse passato un solo giorno dal suo folgorante
esordio datato 1980, come se ogni singola nota tentasse di abbattere gli spazi
angusti dello studio di registrazione per riappropriarsi della propria
dimensione stradaiola. In tal senso, World War Willie è il fratello minore dello
straordinario American Ride (2013), più ovvio e meno brillante a livello
compositivo, ma altrettanto verace nel suo impatto di elettricità ad alto
voltaggio. Si parte a mille, con il piano springsteeniano di Forever Wild, una
canzone, forse risaputa, ma travolgente per quel mood da caciara per sbornia
conclamata che la pervade. Niente di nuovo, certo, ma clamorosamente divertente. Così come
irresistibili sono Grandpa Rocks, sudatissima tirata che sfoggia un riffone
alla Ac/Dc, la title track, graffio punk e manifesto della consanguineità fra
Nile e i Clash, o il convulso rock’n’roll di Hell Yeah che arriva direttamente
dagli anni ‘50. Non manca, poi, lo spazio per le consuete ballate ruvide e
virili (Runaway Girl, Beautiful You) e per un paio di sinceri tributi a due
grandi icone del rock a stelle e strisce: il folk di When Levon Sings, dedicata
al compianto Levon Helm, batterista della Band, e la cover di Sweet Jane di Lou
Reed. Il tutto per cinquanta minuti circa di musica che, con tutti i suoi
limiti, riesce comunque a farci stare bene. Perché le canzoni di Willie Nile non
cambieranno certo il corso della storia, ma sanno raccontarla con il cuore in
mano, come solo in pochissimi, oggi, sono in grado di fare.
VOTO: 7
Blackswan, domenica 17/04/2016
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