Quando più di
vent’anni fa, nel 1994, si sciolsero gli Uncle Tupelo, Jeff Tweedy andò a
fondare i Wilco, credendo fermamente nell’idea che fosse possibile rileggere le
radici attraverso le lenti colorate di un rock sghembo, progressista e
ammiccante al pop. Jay Farrar, invece, si fece baluardo di una visione
ortodossa, attraverso la quale i suoi Son Volt, a partire dal bellissimo Trace
del 1995, si impegnavano a tener fede ai dogmi dell’alt country, con scarti
stilistici, come si vedrà nel corso del tempo, solo estemporanei. Una musica
ingenuamente (ed epicamente) legata alla terra del Midwest, alle distese di
grano, alle smalltown e a una narrazione in qualche modo stereotipata, eppure
mai priva di un certo fascino romanzesco. Dopo ventidue anni di onorata
carriera, intervallati però da uno iato di cinque all’inizio del nuovo
millennio, Jay Farrar torna con un nuovo disco che, pur non discostandosi
troppo dal marchio di fabbrica, sembra voler imboccare strade diverse da
quelle, ad esempio, percorse nel country di stretta osservanza del precedente
Honky Tonk (2013). Il risultato è un disco che fa la sponda fra i territori
abbondantemente esplorati e quelli, invece, meno frequentati del blues in quota
North Mississippi e del rock. Un piccolo cambio di rotta, dunque, rispetto al
consueto, con cui però Farrar riesce comunque a centrare il bersaglio, sia nei
brani più ovvi, sia in quelle canzoni in cui diventa preponderante la dimensione
elettrica. L’iniziale Promise The World, ad esempio, è un country soul che
rientra nelle classiche corde della band, ma è talmente riuscito nella sua
cristallina melodia, illanguidita dalla lap steeel di Jason Kardong, da
lasciare senza fiato. Un pezzo stratosferico, nella miglior tradizione Son
Volt, che testimonia uno stato di salute eccellente. E non è da meno la
successiva Back Against The Wall, ballatone elettro acustico, fremente di
distorsioni e di epica. Piace, però, anche l’elettricità ipnotica della
cadenzata Cherokee St., il raspare perentorio della chitarra nell’hard blues di
Lost Souls (vengono in mente i North Mississippi Allstars) e i vortici slide
che risucchiano la ruvida Sinking Down. Un disco, dunque, che si tiene in
bilico su due diverse dimensioni e che trova il proprio equilibrio in una
scrittura solida e collaudata, ma capace ancora di guizzi verso l’alto e di
scarti laterali che sorprendono. Un ottimo ritorno per una band, che si
conferma ancora all’altezza del proprio passato.
VOTO: 7
Blackswan, sabato 25/02/2017
Nessun commento:
Posta un commento