Quale sia il
motivo per cui Shannon McNally non è ancora una stella di prima grandezza in
ambito Americana resta un mistero. Sono, infatti, sette gli album pubblicati a
partire dal 2002 e tutti caratterizzati da una scrittura di ottimo livello
oltre che da doti di grande interprete dovute a una voce possente
caratterizzata da un timbro leggermente rauco; ha collaborato con leggende come
Dr. John (in uno splendido disco tributo a Bobby Charles pubblicato nel 2013) e
Jim Dickinson (deceduto subito dopo le registrazioni di Western Ballads del
2010); ha scritto e registrato canzoni con Dave Alvin, Charlie Sexton e Jim
Lauderdale ed è andata in tour con i Son Volt, John Mellecamp e Rodney Crowell,
per citarne alcuni. Eppure, nonostante l’apprezzamento di tanti insigni
colleghi, non è mai riuscita a sfondare veramente, rimanendo bloccata, se non
in una vera e propria nicchia, a quel gradino posizionato appena sotto il
grande successo commerciale. Così, anche ad ascoltare questo nuovo Black Irish,
ci si domanda come sia possibile che la McNally non riesca a piazzare i propri
dischi in vetta alle charts statunitensi. A produrre c’è il già citato Rodney
Crowell, garanzia di qualità, il quale si è portato in studio alcuni dei
musicisti più apprezzati della scena di Nashville, quali i chitarristi Colin
Linden (che ha collaborato con The Band, Lucinda Williams e Emmylou Harris) e
Audley Freed (che ha un passato come membro dei Black Crowes). Il resto ce lo
mette Shannon: una bellissima e inconfondibile voce e una scaletta di grandi
canzoni, alcune originali e altre pescate tra i dischi preferiti della
cantautrice newyorkese. Anche Black Irish, come i precedenti full lenght, è un
album segnato dalla vena eclettica della McNally che partendo dalle
radici, propone un’efficace miscela in cui trovano spazio rock, blues, swamp,
pop e soul. Ad aprire le danze, c’è proprio un pezzo scritto a quattro mani con
Rodney Crowell, You Make Me Feel For You, un rock blues dal retrogusto swamp e
quasi una sorta di ringraziamento della Shannon verso al cantautore texano per
l’intesa artistica da cui è nato il disco. Subito dopo, il registro
cambia e si passa da I Ain’t Gonna Stand For It, cover soul pop di un classico di
Stevie Wonder (lo trovate su Hotter Than July del 1980) a Banshee Moan, ballata amarognola con cui Shannon riflette sulla condizione della donna. I Went To The Well
suona, invece, come un classico Stax, il basso dall’incedere felpato e quell’organo che
sembra uscito da un disco di Booker T., mentre Roll Away The Stone sfoggia un
abito decisamente rock, cita i Rolling Stone e l’honking sax di Jim Hoke
ricorda quello di Bobby Keys. Le sorprese non sono però finite: la cover di
Prayer In Open D di Emmylou Harris, ballata dolce amara cantata divinamente
dalla McNally, varrebbe da sola il prezzo del biglietto, mentre il country pop
di Isn’t That Love? è una delle più irresistibili radio song ascoltate
quest’anno. C’è tempo anche per un ritorno alle origini blues con una rockeggiante
versione di The Stuff You Gotta Watch, dal repertorio di Muddy Waters, e per il
gospel di Let’s Go Home, brano del 1962 a firma Staples Singers. Un disco
vario, dunque, in cui l’americana assume colori diversi a seconda degli umori
della McNally, capace di essere moderna ma al contempo mantenere uno stretto
legame con la grande tradizione a stelle e strisce. Un altro piccolo gioiello
che, con un po’ di fortuna e un’adeguata promozione, potrebbe portare Shannon
là dove merita di stare: nei primi posti in classifica e nella ristretta
cerchia delle grandi songwriters statunitensi.
VOTO: 8
Blackswan, mercoledì 12/07/2017
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