Il
singer songwriter texano, Bob Schneider, già a capo della rock band
degli Ugly Americans, ha annunciato la pubblicazione di un nuovo album,
il ventunesimo in carriera. Del disco si sa solo che si intitolerà Blood
And Bones, mentre ancora non si conosce la data della pubblicazione.
Ciò nonostante, Schneider ha rilasciato in rete il primo singolo tratto
dall’album. La canzone, che si intitola Lake Michigan, è una ballata
intimista che affronta il tema della depressione, patologia che ha
afflitto il rocker di Austin a metà degli anni ’90. Un modo per
sensibilizzare l’opinione pubblica su un argomento scomodo e per
pubblicizzare l’operato della National Suicide Prevention Lifeline.
Gli
ultimi, sono stati anni molto intensi per Rick Springfield, un’artista
che si è sempre diviso fra due grandi passioni, la musica e il cinema.
Lo abbiamo, infatti, trovato in sala di registrazione per un disco
divertente e pimpante come Rocket Science (2016) e davanti alla
cinepresa per le serie TV True Detective e Supernatural e, soprattutto,
per quel gioiellino di ironia intitolato Dove Eravamo Rimasti (2015) a
firma Jonathan Demme e con protagonista un’irresistibile Meryl Streep.
Nel
frattempo, il rocker di Sydney ha trovato anche il tempo di portare in
giro per gli Stati Uniti Stripped Down, spettacolo itinerante nel quale
ha incluso per la prima volta un paio di brani blues scritti per
l’occasione. La cosa lo ha divertito talmente tanto, che Rick ha pensato
di darle un seguito, registrando questo The Snake King, disco
interamente dedicato alla musica blues, passione nata da ragazzo e mai
sopita, nonostante il trascorrere degli anni.
Un
nuovo disco, dunque, che è in realtà un ritorno al passato, a quel
periodo in cui un ancora imberbe Springfield militava in piccole band
australiane desiderose di replicare la musica di eroi come Eric Clapton,
Jimmy Page e Keith Richards. In seguito Rick troverà la sua strada e
forgerà in uno stile unico il suo pop-rock ad alto tasso radiofonico.
L’amore per le dodici battute, però, non si è mai spento davvero e oggi
torna protagonista in un disco divertente e ispirato.
Non
un album per puristi del genere, meglio intendersi subito, ma una
scaletta di dodici canzoni in cui il blues viene proposto con il
consueto taglio mainstream e arricchito da uncinanti melodie. Ciò che
poteva diventare un pasticcio per chiunque, nelle mani sapienti di
Springfield viene, invece, gestito con misura e intelligenza. Due brani
sigillano l’album: l’iniziale Land Of The Blind, rock radiofonico a cui bastano poche note di chitarra e deliziosi coretti retrò per decollare, e la conclusiva, lunghissima, Orpheus In The Underworld, ballatone senza fronzoli di springsteeniana memoria.
Due
canzoni diverse dal mood del disco che, come si diceva poc’anzi,
rimastica la materia del blues con divertita freschezza. La travolgente The Devill That You Know evoca il sound chicagoano (cosa che succede anche in Judas Tree) con l’armonica in bella evidenza a trascinare le danze, mentre Little Demon (Part 1 & 2)
sfodera una grinta quasi hard, che si dissolve poi in una splendida
coda strumentale, in cui a essere citato è Gary Moore. Nella title track Springfield si cimenta con una scintillante resofonica e pesca dal cilindro un ritornello da k.o., mentre nella tiratissima Suicide Manifesto
Rick spinge l’acceleratore a tavoletta senza però mai perdere la rotta
melodica che è la vera specialità della casa. C’è anche spazio per Santa Is An Anagram,
un rock’n’roll basico e impetuoso, che rimanda a Chuck Berry e che
testimonia quanto sia bravo Springfield a giocare con le citazioni senza
snaturare la propria identità artistica.
In
un panorama musicale in cui è soprattutto l’hype a generare gli ascolti,
The Snake King è un disco, ahimè, destinato alle retrovie; eppure,
datemi retta, una volta provato, farete fatica a toglierlo dal lettore.
Per quanto mi riguarda, era da tempo che un disco non mi divertiva così
tanto. Quindi, chiudo qui la recensione, e vado a riascoltarlo. Enjoy!
"Mi
vergognerei a voler fare il leader del Paese, quando sa l'italiano peggio di
me...Sa quante ne sento io di fregnacce da certi professori e anche dai 5
Stelle che ce ne sono parecchi qui al Senato, che poi si mettono a ridere
tutti...Quello, quando cazzo ha lavorato?" (Antonio Razzi).
Questa è la
sgangherata (e sgrammaticata) considerazione del senatore Razzi, ormai ex, su
Luigi Di Maio. Nulla di nuovo sul fronte occidentale, direbbe qualcuno. Peccato
però che di fregnacce ne sentiamo parecchie anche noi, caro Razzi. Con la
differenza che ci viene da piangere. A cominciare da Silvietto, l'incandidabile
che si candida con buona pace (o alla faccia, se preferite) della Corte di
Strasburgo, dell'Unione Europea tutta e di quegli italiani (tanti, si spera)
che hanno ancora un po' di sale in zucca da non farsi abbindolare
dall'incantatore di Arcore e dall'accozzaglia Salvini-Meloni. Ci viene perlopiù
da singhiozzare, quando assistiamo impotenti all'arroganza straripante di un
Matteo Renzi mai resipiscente, alle sparate e e alle disparate promesse da
parte di tutti gli attori politici di abolizione di tasse, balzelli, lacci,
lacciuoli, canoni, bolli e amenità assortite in grado di sedurre solo qualche
allocco o qualche elettore sprovveduto. Come se tutta questa visionaria
mistificazione sventolata a reti unificate non avesse un prezzo. Altro che scie
chimiche, qui si vaneggia, signori miei. Roba forte che metterebbe in
difficoltà perfino un appassionato della filmografia di David Cronenberg. E
mentre le fregnacce ci invadono come acari, il gigante cinese avanza e
l'America riparte. Almeno, così dicono. Noi, invece, restiamo al palo ancora
con Silvio, i suoi miracoli e quei mirabolanti fogli in mano branditi come una
spada.
All That Must Be,
il secondo album di George FitzGerald, sarà disponibile dal 9 marzo
2018. FitzGerald ha condiviso anche il nuovo singolo “Roll Back”, in
collaborazione con Lil Silva.
Sulla collaborazione con Lil Silva per il singolo “Roll Back”, FitzGerald afferma: “”Roll Back
è una canzone triste ma durante la fase compositiva c’era tanta
felicità. Sessioni in tarda notte tra Londra e Bedford. Treni vuoti e
bus notturni per tornare a casa. Le cose andavano perfettamente in
studio.”
All That Must Be
è un album con radici psicologiche in due città, Berlino e Londra.
Documenta la fine del periodo berlinese di FitzGerald, quando tornò a
Londra e diventò padre per la prima volta. Ed è in questo contesto che All That Must Be
iniziò a prendere forma e il risultato è un album che tratta del
processo di cambiamento, accettazione e rinnovamento che colpisce tutti
noi.
All That Must Be
è una raccolta di brani ipnotici ed elettronici che si muove in
entrambi i sensi. L’album vede la collaborazione di Lil Silva, Bonobo e
Tracey Thorn (Everything But The Girl) e traccia un percorso che
attraversa il paesaggio mentale e fisico di FitzGerald nel corso di 18
mesi.
“Volevo rappresentare la stranezza che provi quando accade qualcosa di veramente grosso nella tua vita”, spiega FitzGerald, “tutto sembra e suona uguale ma in qualche modo è diverso. Ciò che ti circonda è meno comprensibile.”
FitzGerald
ha modificato il proprio processo creativo, focalizzandosi maggiormente
sul piano, in opposizione al computer e combinando la batteria
elettronica del precedente album Fading Love, con le
percussioni registrate in studio. Ne risulta un album con un’energia
umana e una maturità emotiva, accennati solo quando FitzGerald ha gli
occhi e le orecchie fissati sulla pista da ballo.
All That Must Be verrà pubblicato in edizione deluxe doppio vinile, edizione standard doppio vinile, CD e in digitale.
C’era
molta attesa per questo disco d’esordio a firma Devin Dawson, e da
tempo la stampa specializzata americana ne parlava come una delle
possibili rivelazioni del 2018. Continui rumors, sempre più ingigantiti
dall’inspiegabile successo del primo singolo tratto dall’album, All On Me,
canzone che su Spotify ha avuto più di 43 milioni di streaming e che
qualche giorno fa era sul punto di entrare nella top ten della Country
Airplay Chart (oggi ce la trovate di sicuro).
La
suggestione (o autosuggestione), poi, era cresciuta moltissimo per
l’hype creato ad arte dal songwriter californiano, il quale, le cronache
raccontano, è cresciuto a due passi dalla leggendaria Folsom Prison e
da sempre sfoggia un look virato verso il total black. Circostanze,
queste, che hanno spesso indotto a paragoni forzatissimi con il padre
del roots a stelle e striscie, Johnny Cash.
Del
quale, basterebbe un solo ascolto del singolo sopracitato, Dawson ha
ereditato solo la passione per gli abiti scuri e una fortunata
coincidenza geografica. Per il resto, questo primo, tanto atteso, Dark
Horse, è quanto di più concettualmente lontano si possa immaginare dalla
musica che usciva dalla voce e dalla chitarra di “the man in black”.
Certo, alcune performance live acustiche, messe in rete lo scorso anno,
avevano tratto in inganno e fatto presagire per Dawson altissimi
standard qualitativi, di cui in questo esordio non c’è, però, quasi
ombra.
Insomma,
chi si aspettava dal ventottenne californiano un disco di country duro e
puro, avrà una cocente delusione, perché in questo esordio il roots,
sempre ammesso che vi sia, è così annacquato da essere pressoché
impalpabile. Strano, quindi, che di Dark Horse stiano parlando, e anche
in termini lusinghieri, tutte le riviste di settore (che sono tante): le
canzoni in scaletta, inutile girarci intorno, sono, infatti,
smaccatamente pop, e solo a tratti vengono rimescolate a vaghe
sensazioni soul e r’n’b, plasmate però a evidenti esigenze commerciali.
Insomma, siamo di fronte a un disco furbissimo, debordante di ganci
melodici e impermeabilizzato da una patina radiofonica talvolta ai
limiti dello stucchevole. Questa, è la Nashville che impera in America,
quella del mainstream che vende milioni di copie, ma che risulta
indigeribile agli amanti del vero country.
Un
lotto di dieci canzoni, prodotte da Jay Joyce (già con Eric Church) e
confezionate con artificiosa eleganza, che procedono in senso unico: far
vendere l’album e scalare le charts. Non solo All On Me, canzonetta d’amore post adolescenziale e autentico tormentone, ma anche lentoni soul alla melassa (Secondhand Hurt), ammiccanti poppettini in chiave dance (Placebo) e tamarrate riempipista da balera di quart’ordine (War Paint).
Chiude la title track,
unica nota positiva di un disco altrimenti inascoltabile, almeno per
tutti quelli che hanno più di diciotto anni e non soffrono di paranoie
autolesioniste. Peccato, perché in quest’ultima canzone, depurata dal
solito arrangiamento lezioso, si intravvede qualcosa, una luce in fondo
al tunnel che si chiama sincera ispirazione. Delusione totale.
Canadese
di Montreal, Melissa Plett è un’artista poco nota dalle nostre parti e
che merita, tuttavia, di essere raccontata attraverso questo suo nuovo
disco, secondo full lenght in carriera, uscito sul finire dello scorso
anno. Un album, Ghost Town, che piacerà a tutti coloro che seguono il
genere americana, rivisitato dalla Plett, in questo caso, con ombroso
piglio personale e inaspettati accenti rock.
Come
evocato dal titolo, in questa musica aleggiano molti fantasmi, quelli
che Melissa si porta dietro ormai da anni. Fantasmi che evocano il
dolore di una vita difficile, segnata all’età di tredici anni da un
pauroso incidente automobilistico, in cui la songwriter canadese perse
la cugina e si salvò per miracolo, dopo un lungo ricovero in ospedale.
E
poi, la recente perdita della mamma a causa di un tumore al cervello,
lutto che ha avuto effetti devastanti su Melissa, tanto da costringerla
ad abbandonare le scene per più di un anno. Ghost Town è quindi un
ritorno in nero, un disco in cui la Plett rielabora le proprie pene,
cercando nella musica la forza per reagire alle angherie della vita, un
modo per mettere sul pentagramma note e lacrime, accordi e amare
riflessioni, e trovare l’abbrivio per ricominciare, nonostante tutto.
Un
disco breve (poco meno di mezz’ora la durata) ma intenso, registrato a
Nashville presso gli Omnisound Studios, con l’aiuto e la guida di Pat
Severs, noto musicista e produttore locale, e la collaborazione di un
pugno di validi sessionisti. Non siamo però di fronte al classico disco
country nashvilliano: come dicevano, infatti, il mood è crepuscolare e
la Plett è brava a trovare equilibrio fra testi densi di riflessioni
agrodolci e composizioni che alternano momenti frizzanti ad altri più
intimi e raccolti.
Così, se l’iniziale Stay è un languido country attraversato dalle malinconiche note di un violino, la successiva Handle Of Whisky, la bottiglia come lenimento al dolore, è un brano venato di rock e dall’andamento caracollante, mentre Sunshine And Liquor
procede dritta e grintosa, accelerando il passo e sfoderando un
bell’interplay fra chitarre elettriche e acustiche. I momenti migliori,
però, arrivano alla fine del disco, con la cupa Trigger, murder ballad dalle atmosfere livide e dal testo inquietante e violento, e con la mestissima Gone, in cui Melissa sfodera una performance vocale di grande suggestione.
La
Plett, in definitiva, porta a casa il risultato pieno, dimostrando di
avere talento da vendere, sia come cantante che come songwriter, e la
misura di quest’album, asciutto e centrato, fa presagire grandi cose nel
futuro artistico della ragazza. La quale, così come ha superato le
tribolazioni della propria vita, ha tutte le carte in regola per
aggiudicarsi uno spazio importante nella variegata, ma non sempre
qualitativa, scena nashvilliana.
Gli
Erasure (Andy Bell e Vince Clarke) hanno annunciato una collaborazione
con gli Echo Collective, colletivo di musicisti post-classici di base a
Bruxelles, noti per il loro lavoro assieme a A Winged Victory for the
Sullen, Johann Johannsson, Dustin O’Halloran e Stars of the Lid.
Si tratta della rilavorazione in chiave post-classica dell’ultimo lavoro del duo, World Be Gone, re-intitolato World Beyond; è stato registrato in dieci giorni da Andy Bell e sette interpreti degli Echo Collective.
L’album,
in uscita il 9 marzo, è stato prodotto dagli stessi Echo Collective,
missato da Gareth Jones e arrangiato da Gary De Cart, Margaret Hermant e
Neil Leiter. Spiega quest’ultimo: “Si tratta di un vero e proprio
processo di decostruzione e riproposizione. Abbiamo iniziato ascoltando
ogni traccia, ogni singolo strato di ogni traccia; successivamente,
utilizzando le parti che ci hanno ispirato o che abbiamo trovato
essenziali, abbiamo ricostruito le tracce a livello strumentale.”
I brani presenti su World Beyond
ci mostrano Vince Clarke e Andy Bell in uno stato più riflessivo che
fornisce una disamina ponderata al mondo e ai recenti sconvolgimenti
politici.
Gli Erasure sono in tour in Europa fino ad aprile, e successivamente si sposteranno in America.
Trentenne,
originaria di Bowmanville, Ontario, Meghan Patrick si è affacciata al
mondo della musica come leader degli Stone Sparrows, popolarissima roots
band canadese, che è stata in attività fino al 2013. A partire da
questa data, la Patrick ha iniziato a mettere in piedi un progetto di
attività solista, che si è concretizzato con la firma di un contratto
per la Warner Music Canada e quindi con la pubblicazione di Grace &
Grit, album d’esordio del 2016, che ha trasformato Meghan in una
stellina del country canadese, grazie a un pugno di singoli che hanno
scalato le classifiche nazionali (su tutti Bow Chicka Wow Wow, una vera
bomba).
Un
successo di pubblico e di critica che è valso alla cantante un bel
filotto di nomination e di premi, tra cui due CCMA Awards (il Grammy
canadese) come artista donna dell’anno e come miglior esordiente. Questo
nuovo Country Music Made Me Do It conferma quanto di buono fatto in
precedenza e si profila, a pochi giorni dall’uscita nei negozi
specializzati, come l’ennesimo successo commerciale. Una premessa, però,
è d’obbligo: nonostante l’esplicito titolo dell’album, questo
sophomore, ancor più del suo predecessore, è soprattutto un disco di
pop, concepito per scalare le classifiche.
Canzoni
di facilissima presa, appeal radiofonico e giusto qualche spruzzata di
roots e rock per dare un po’ di sostanza alla scaletta. Insomma, i
riferimenti di Meghan sono tutti nashvilliani, e non è un caso che a
produrre sia Jeremy Stover, songwriter e produttore, che in Tennesse ha
messo radici artistiche e che è noto per essere l’alter ego di Justin
Moore. Agli amanti del country, si sa, la parola Nashville fa storcere
il naso ed è considerata come sinonimo di mainstream, zuccheri e
svenevolezze assortite.
Eppure,
la Patrick, pur sfornando un prodotto che più commerciale non si può,
ha dalla sua un pugno di canzoni davvero buone, canta divinamente e,
soprattutto, risulta credibile e genuina. La title track apre il disco
con una dichiarazione d’amore per il genere che l’ha fatta innamorare
fin da quando era piccina: country per modo di dire, certo, brano
sfacciatamente pop, ritornello vincente e assai furbetto, ma canzone
irresistibile. Gli omaggi continuano anche nella seconda traccia del
lotto, intitolata esplicitamente George Strait, artista che gli
americani considerano The King Of Country e una vera e propria leggenda
vivente. Anche in questo caso, che è di sicuro il pezzo più roots del
lotto, la scrittura è cristallina e i ganci melodici si sprecano.
E’
questo il leit motiv di un disco di facile presa, eppure al contempo
ispirato e divertente: Meghan non nasconde i suoi intenti, ma gestisce
la materia con misura e sapienza, evitando, è questo il rischio più
grave quando si maneggia il sound nashvilliano, di sbracare nel melenso.
Così risultano vincenti quasi tutte le scelte in scaletta, sia quando
la Patrick utilizza un filo di elettronica in The Bad Guy, sia quando sfodera la chitarra elettrica in The Buzz o quando accenna un riff swamp in Hardest On My Heart. Chiude Underrated,
ballata dal retrogusto vagamente sixties, che sigilla un disco
orecchiabile e radiofonico, ma decisamente centrato. Non tutto il
mainstream viene per nuocere, se fatto con intelligenza: Meghan Patrick
ne è la prova provata. Brava!
Josienne Clarke & Ben Walker annunciano oggi il loro quinto album intitolato Seelings All in uscita il 23 marzo 2018 su Rough Trade Records (distribuzione Self)!
Seedlings All è il primo album di Josienne Clarke & Ben Walker ad essere interamente formato da brani originali. Josienne Clarke
spiega: “Per la prima volta sono là fuori da sola con una manciata di
canzoni che espongono le mie insicurezze e la mia paura di fallire. Le
canzoni trattano di pensieri specifici e sentimenti sulla decisione di
intraprendere questa carriera e il prezzo da pagare dal punto di vista
delle relazioni e dello stile di vita…mi sono posta la domanda – ne vale
ancora la pena?”
È questo il tema della prima traccia dell’album intitolata “Chicago”, che il duo ha svelato oggi, con il video girato dal regista Bob Gallagher
Riguardo
a questa canzone Josienne spiega: “Abbiamo guidato tutto il giorno per
arrivare a Chicago, ma alla fine nessuno si presentò al concerto. È
stato uno di quei concerti dove ti chiedi se vale la pena andare avanti,
ma avendo degli obblighi contrattuali, abbiamo suonato. Dopo il
concerto, uno dei ragazzi della band di supporto mi disse che secondo
lui la nostra esibizione era stata troppo lunga perché “è quel tipo di
musica che devi ascoltare quando vuoi pensare ed è sabato e nessuno
vuole ciò”. Questo episodio mi ha ispirata per scrivere questa canzone.”
Dopo
aver passato l’autunno a perfezionare il loro già incredibile show,
supportando Richard Thompson nel suo tour britannico, sono sicuri che
non ci saranno più sale da concerto vuote nel prossimo tour europeo.
Alle
soglie di una carriera trentennale, Hap e Leonard sembrano ormai aver
rinunciato a cambiare il mondo. Il primo si è appena ripreso da una
brutta ferita da coltello; il secondo sembra piú interessato a esplorare
l'universo degli incontri online che a gettarsi a capofitto in una
nuova indagine. Ma quando Louise Elton, bellicosa donna di colore,
chiede loro di fare chiarezza sull'omicidio del figlio, capiscono che è
arrivato il momento di rientrare nella mischia.
Studente
brillante destinato a un futuro diverso, Jamar aveva cominciato a
investigare sul poliziotto che insidiava la sorella minore, per poi
restare coinvolto in una vicenda di sbirri corrotti e combattimenti tra
cani, a un passo da una verità che minaccia di lacerare la cittadina
texana dove si è consumato il delitto. Tra dialoghi al vetriolo e
inesorabili colpi di scena, Lansdale tratteggia in queste pagine
l'ennesimo scorcio dell'America profonda, quella dove la violenza è una
moneta di scambio pericolosamente diffusa.
Torna
una delle coppie meglio assortite della letteratura poliziesca. Hap e
Leonard, giunti alla decima avventura della loro fortunata saga, hanno
qualche anno e qualche acciacco in più ma, a parte questo, continuano a
essere due irresistibili macchiette dal cuore d’oro. Ambientato
nuovamente nella cornice dell’amato Texas, micro universo entro il quale
si svolgono quasi tutte le storie di Lansdale, Bastardi In Salsa Rosa
sviluppa un’appassionante trama noir che ruota intorno alla strana morte
di un giovane di colore e a una losca cricca di poliziotti corrotti.
In
realtà, però, come spesso accade, la trama gialla, peraltro abilmente
sviluppata, è solo un pretesto per gettare un occhio cinico e
disincantato sulla società americana e per dare l’occasione
all’affiatata coppia di mettere in scena le consuete e spassosissime
dinamiche interpersonali. Come sempre, in tal senso, i dialoghi sono il
piatto forte della casa: disinibite, urticanti e politicamente
scorrette, le chiacchiere in libertà dei due detective rappresentano il
meglio di un romanzo divertente e frizzante, che nonostante qualche
forzatura e qualche inutile scurrilità, si gode dalla prima all’ultima
pagina. Non ai livelli di Una Stagione Selvaggia e di Mucho Mojo, ma
comunque una lettura raccomandata.
Sarà
l’etichetta newyorkese Daptone Records a pubblicare il nuovo disco di
James Hunter, uno dei più interessanti musicisti soul bianchi in
circolazione. Il seguito di Hold On! (2016) si intitolerà Whatever It
Takes ed è il primo disco di un artista britannico pubblicato
dall’etichetta statunitense. L’album, che uscirà nei negozi il 2
febbraio, è stato registrato presso i Penrose Studios di Riverside,
California, e vede al fianco di James Hunter, in fase di produzione,
Bosco Mann, co-fondatore dell’etichetta. Il primo singolo è già in
circolazione, si intitola I Got Eyes ed è stato scritto da Hunter on the
road, durante gli spostamenti dell’ultimo tour americano.
Ci
sono ottimi musicisti che, per quanto facciano, non riescono a uscire
dall’anonimato o dalla ristretta cerchia della nicchia. Altri, invece,
per i quali, a un certo punto della carriera, le cose cambiano
radicalmente, magari per un colpo di fortuna, per una crescita
improvvisa di popolarità innescata da una canzone o un video, oppure,
più semplicemente, perché grinta e pertinacia, alla fine, riescono ad
averla vinta.
Non
esiste un manuale per il successo né regole che valgano per tutti: il
music business è una brutta bestia da domare e spesso basta davvero poco
a essere disarcionati. Di sicuro, Anderson East ha fatto tutto quello
che era nelle sue possibilità, riuscendo a trovare la formula vincente e
l’abbrivio verso un futuro dorato. Trent’anni, originario di Athens
(Alabama), Anderson a cominciato a masticare musica fin da piccino. Suo
nonno, infatti, era prete in una chiesa battista, suo padre cantava nel
coro di una chiesa e suo madre suonava il pianoforte. Sempre in chiesa.
La
religione, Dio e appunto, la chiesa: nel Sud degli States, anche se non
sei nero, spesso il connubio fra fede e musica risulta essere
indissolubile. E così è stato per il giovane East, che ha studiato, ha
imparato a suonare il piano e a comporre canzoni, ispirandosi ai suoi
genitori e facendo il pieno di quella musica soul e gospel che in
Alabama è strettamente connessa al Dna e all’aria che si respira. La
carriera di Anderson è iniziata nel 2009, con un paio di dischi
autoprodotti e un paio di Ep, che hanno formato il carattere del ragazzo
e hanno rodato un talento, come si suol dire, cristallino.
Ed
ecco la svolta: il talento viene notato, East firma con l’Elektra, Dave
Cobb lo prende sotto la sua ala protettrice, esce Delilah e il ragazzo
fa il botto. Quello grosso. Da quel momento le cose cambiano
radicalmente. East partecipa a popolari talk show, una sua canzone viene
inserita nella colonna sonora di Cinquanta Sfumature di Grigio (che è
una merda di film, ma è anche quello che gli americani chiamano high
profile movie: porta grana e porta fama), dà vita a performance live
irresistibili e, gossip non olet, si fidanza con la stellina del
country, Miranda Lambert, finendo sulle pagine di Us Weekly e People.
Anderson, però, è un ragazzo con la testa sulle spalle e non si fa
concupire dalle sirene del successo. Si rimette al lavoro e, fra una
comparsata televisiva e un charity album (partecipa a Cover Stories,
tributo benefico a un disco di Brandi Carlile) esce con questo nuovo Encore.
Ovviamente,
East si è tenuto stretto Dave Cobb, che mette mano anche alla
produzione del sophomore, con un lavoro fantastico sul suono, che
risulta vintage e moderno allo stesso tempo, e un utilizzo misuratissimo
ma decisivo, di archi e fiati, che esaltano il timbro vocale del
songwriter di Athens. Aroma di caffè caldo al mattino, accompagnato da
una sigaretta e un cucchiaino di mele: ruvida e al contempo carezzevole,
la voce di East trova sempre la strada per arrivare al cuore delle
emozioni. Il repertorio in scaletta è puro southern soul, riletto però
con una sensibilità e una passione che fanno la differenza. Non ci sono
sostanziali differenze rispetto al disco d’esordio, e i riferimenti
(Stax, Otis Redding, Van Morrison, etc.) restano invariati. Tuttavia, a
parte la più lunga durata del minutaggio, Encore possiede una maggiore
consapevolezza, una qualità superiore delle composizioni e una più
spiccata inclinazione mainstream.
Il disco alterna ballate caldissime (la classicissima If You Keep Leaving Me, la vanmorrisiana King For A Day) a sferzanti impennate R&B (Sorry You’re Sick, Surrender),
in cui scintillano fiati grassi che portano dritto al centro del dance
floor. Havin’ a party! I fiori all’occhiello della scaletta sono il
singolo Girlfriend, groove funky irresistibile, arrangiamento suntuoso e assolo di moog che manda in estasi, All On My Mind, incedere sensuale, visione moderna, pezzo stratosferico, Without You, ballatone strappa mutande dal retrogusto sixties (qualcuno ha detto A Whiter Shade Of Pale?) e la conclusiva Cabinet Door,
intima, crepuscolare e intensa. Un lotto di canzoni impressionanti,
dunque, a cui la mano di Dave Cobb ha aggiunto ulteriore verve.
Se
è vero, come canta Caparezza, che “il secondo album è sempre il più
difficile nella carriera di un’artista”, Anderson ha brillantemente
superato l’ostacolo, proponendosi come una delle più eccitanti realtà
soul oggi in circolazione.
Will
Toledo, meglio conosciuto con il moniker di Car Seat Headrest, ha
firmato un contratto con la Matador Records. La prima uscita
discografica con la nuova etichetta sarà la reissue di Twin Fantasy, uno
dei primi dischi di Toledo, pubblicato nel 2011. Le dieci canzoni in
scaletta saranno completamente ri-registrate. Il disco uscirà una prima
volta il 16 di febbraio e poi ancora, in una speciale edizione
intitolata Twin Fantasy – Mirror To Mirror, il 21 di aprile, quando si
celebrerà il Record Store Day. L’annuncio della pubblicazione dell’album
è coincisa con un nuovo video, diretto dallo stesso Toledo, girato per
la canzone Nervous Young Inhumans. E’ già stato previsto un tour di promozione di Twin Fantasy che però, al momento, non prevede date europee.