E’
inutile girarci intorno: Sophie Auster da sempre vive portandosi sulle
spalle il peso della predestinazione. E’ quasi inevitabile, se tuo padre
si chiama Paul Auster, uno dei più grandi romanzieri contemporanei
americani, e tua madre, Siri Hustvedt, altra penna di peso del panorama
letterario a stelle e strisce. Cresci mangiando pane e arte, sentendo la
pressione di chi è, volente o nolente, sempre al centro dell’attenzione
dei media, di chi, all’effetto genitoriale, si trova ben presto a
sostituire lo spirito di competizione, l’impellente desiderio di
sentirsi all’altezza delle aspettative della propria geniale stirpe.
Sophie
si è misurata presto con il mondo, iniziando fin da bambina a recitare,
facendo leva sulla propria avvenenza (e su qualche atteggiamento sopra
le righe) per conquistarsi le prime pagine delle riviste, e coltivando
la passione per la musica, campo nel quale ha debuttato nel 2004 con un
omonimo album, in cui trasformava in note le poesie, comprese quelle del
padre, con cui era cresciuta.
Next Time
è la terza prova della Auster sulla lunga distanza, locuzione, questa,
non usata a casaccio, visto che ha iniziato a lavorare al disco nel
lontano 2016, allestendo un repertorio di quasi cento canzoni, poi
ridotte a dodici, grazie a un meticoloso lavoro di cernita operato con
la supervisione di Tore Johansson (New Order, Suede, Nicole Atkins,
etc), qui in veste di produttore.
La
musica di Sophie ruota intorno all’idea di un pop rock meticcio, capace
di trovare un perfetto equilibrio tra classicismo e modernità, tra
mainstream e intimismo, pescando a piene mani anche dalla tradizione
r’n’b e soul, assecondata attraverso l’utilizzo di scintillanti
arrangiamenti di ottoni.
Un
songwriting elegante, quello della Auster, che denota una maturità
compositiva sorprendente e che viene corroborato da una voce
notevolissima, capace di alzarsi in punta di piedi fino a toccare i rami
più alti dell’albero delle note, così come adagiarsi con grazia e
padronanza tecnica sulle tonalità più basse.
Attraverso le liriche di Next Time,
la Auster riflette sul traguardo raggiunto dei trent’anni, sugli errori
del passato e sulla consapevolezza che è arrivato il tempo per cambiare
e crescere. Lo fa con canzoni dal mood altalenante, talvolta gonfie di
sole ed entusiasmo, in altri casi, attraversate da un’uggia malinconica e
languori agrodolci. Ecco, allora, il pop in chiave mariachi
dell’irresistibile Mexico, che apre il disco con una pimpante allegrezza, o Dance With Me, modernizzazione sorniona del Fleetwood Mac sound, o ancora il r’n’b saltellante e grintoso di My Baby, a cui si contrappongono la tessitura melo del velluto pop soul della splendida Dragon Blood Tree o la tenue filigrana folk della dolente Rising Sun.
A
Next Time manca solo la hit capace di spostare gli equilibri, quel
singolone trainante che possa mangiarsi le charts in un sol boccone. Per
il resto, siamo di fronte a un disco compattato da una maturità artista
solida e strutturata, e da idee, forse non originalissime, ma
sviluppate con grande efficacia ed eleganza. Insomma, le belle canzoni
si sprecano e la voce della Auster è di quelle che, decisamente, non
passano inosservate. D’altra parte, buon sangue non mente.
VOTO: 7,5
Blackswan, venerdì 31/05/2019