Era
 da un po’ che tenevamo d’occhio Jade Bird, da quando le sue prime 
canzoni hanno iniziato a girare per il web, a partire da quella 
impressionante cover di I’ve Been Everywhere di Johnny Cash, 
pubblicata quasi due anni. Da quel momento, la ventunenne londinese ha 
iniziato a conquistarsi l’interesse dei media, suonando prima in piccoli
 locali della metropoli inglese, poi aprendo i concerti di Brandi 
Carlile e Colter Wall, quindi partecipando a festival di spessore quali 
Bonnaroo, Stagecoach e Mountain Jam. Quindi, alcuni video piazzati ad 
hoc su youtube e l’endorsement di Jason Isbell e Father John Misty, che 
l’hanno voluta in tour con loro, ha corroborato ulteriormente l’attesa 
per questo album d’esordio, che conferma tutte le qualità che si erano 
intraviste nei mesi precedenti.
Che
 questa ragazza, figlia della terra d’Albione, fosse attratta dalla 
musica americana, si intuiva abbastanza chiaramente dalla sua prima 
uscita discografica sulla breve distanza, un Ep pubblicato nel 2017, dal
 titolo inequivocabile Something American. Così se non fosse 
nota la sua collocazione geografica ed evidentemente britannica la sua 
dizione, si potrebbe pensare di lei come a una singer songwriter a 
stelle e strisce. Il suono, d’altra parte, è quello, un folk rock, 
talvolta imbellettato di pop dall’appeal radiofonico, che oscilla fra 
ballate e brani più tirati, i cui riferimenti sono immediatamente 
riconoscibili.
L’opener acustico di Ruins, ad esempio, fa pensare immediatamente alle Indigo Girls, mentre brani più rockeggianti, come la travolgente Uh Huh, due minuti e mezzo di adrenalina pura, o Love Has All Been Done Before
 rimandano alla mente inequivocabilmente l’Alanis Morissette di Jagged 
Little Pill (la matrice potrebbe essere You Oughta Know). C’è altro, 
ovviamente, in questo disco d’esordio, che denota un songwriting 
derivativo, ma frizzante e passionale. Alcune ballate per piano, 17 e If I Die, aprono a momenti più raccolti e intimisti, Lottery, invece, è un singolo pop furbetto ma irresistibile, My Motto una ballata in crescendo da cantare in concerto fra lo sfavillio degli accendini; e se Going Gone suona come la zampata rabbiosa con cui la giovane cantante liquida con astio una relazione finita male, I Get No Joy, esagerando un po',  potrebbe addirittura giocarsi la carta dell’inno generazionale, una sorta di I Can’t Get No Satisfaction 2.0 in salsa indie rock, in cui la Bird canta la frustrazione di un’esistenza inappagante (“you live, you love, you learn, you’re dead”).
Le
 stigmate della songwriter di razza ci sono proprio tutte, su questo non
 ci piove, e la scaletta, dodici canzoni per trentasei minuti di durata,
 travolge per freschezza, sfrontatezza ed irruenza. Qualche piccolo 
difetto, visto anche la giovane età, e nonostante l’abilità di un 
co-produttore del calibro di Simone Felice, è evidente: la struttura dei
 brani spesso si ripete e mancano guizzi di vera originalità, mentre la 
Bird, dotata di una voce potentissima, dovrebbe cercare di modularla 
meglio e lavorare più sulle sfumature. Si tratta però di carenze di poco
 conto, che la maturità saprà emendare e che nulla tolgono a un esordio 
di grandissimo impatto emotivo.
VOTO: 7
Blackswan, sabato 04/05/2019 
 

 
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