Solitamente, dicembre è un mese in cui si cominciano a tirare le fila, a fare il
bilancio della stagione trascorsa, a imbastire le classifiche dei dischi
più belli. Tuttavia, vista la qualità delle uscite di quest’ultimo
scorcio d’anno (mi vengono in mente Allison Moorer, Kate Davis, Leonard
Cohen, come esempi) i giochi sembrano tutt’altro che fatti e si
preannuncia un fine 2019 davvero interessante.
A
dimostrazione di quanto affermato, ecco, quasi sul filo del traguardo,
uno dei dischi che occuperà posizioni molto alte nelle classifiche di
chi avrà la fortuna di ascoltarlo. Shame Engine/Blood Pressure è
il settimo album in studio degli Health & Beauty, nome che sembra
rubato a un centro benessere, sotto il quale invece si cela un ensemble
chicagoana capitanata dall’eclettico Brian J Sulpizio, songwriter nativo
dell’Ohio e unico membro fisso del progetto. Intorno alla sua figura,
infatti, da sempre ruotano svariati musicisti, di diverse estrazioni,
che danno linfa alla visione idiosincratica di Sulpizio nei confronti di
generi preconfezionati. Una visone fieramente libera, il coraggio
dell’incoerenza, la volontà di contaminare e di miscelare suoni
apparentemente distanti, fanno degli Health & Beauty un gruppo
anomalo, legato al suono americano, ma capace di rielaborarlo,
arricchirlo, in alcuni casi persino stravolgerlo.
Questo nuovo Shame Engine / Blood Pressure
è dunque l’ennesimo capitolo visionario dell’ispirazione onnivora di
Sulpizio, uno che riesce a far convivere all’interno dello stesso album
country folk, rock per chitarra, esplosioni noise, derive jammistiche
ereditate dal free jazz e pop. Un disco dalla struttura spigolosa,
dall’andamento tortuoso (brani di tre minuti si alternano a canzoni
chilometriche), e concettualmente complesso, ostico ai più, ma ricco di
fascino ed estremamente eccitante per tutti coloro che amano osare e
mettere il naso fuori dalla loro comfort zone.
Sono
solo dieci le canzoni in scaletta, ma a parte la lunga durata del disco
(più di un’ora), la complessità è data dai frequenti cambi di registro,
dal continuo alternarsi fra momenti morbidi ad altri decisamente
rumorosi, pur in un contesto che, da un punto di vista sonoro, rimane
immediatamente riconoscibile.
Shame Engine / Blood Pressure si apre con i quasi undici minuti di Saturday Night,
canzone che non ammette mezze misure: o vi innamorerete immediatamente e
perdutamente, o sarà anche il vostro ultimo saluto a Sulpizio e alla
sua musica fuori dagli schemi. Un giro di basso ipnotico, ripetuto
all’infinito a cui si incolla un giro di chitarra elettrica che vi
introdurrà in cupe atmosfere notturne del Nick Cave più crepuscolare: è
solo l’abbrivio per spingervi in un blues inquietante, ossianico, reso
ancora più malevolo dalla voce cantilenante di Sulpizio e da una
stratificazione di chitarre che trasfigurano Hendrix in un trip
psichedelico a lenta combustione.
La successiva Yr Wives
farà immediatamente crollare tutte le certezze che l’ascoltatore si è
costruito nei dieci minuti precedenti: giro di basso tonante e riff di
chitarra elettrica che aprono a un ritornello di una dolcezza inusitata,
dai sentori quasi brasiliani, per poi perdersi in un finale puntuto e
dissonante. Le atmosfere ipnagogiche di Rat Shack tratteggiano
una melodia inafferrabile, accarezzata da una voce femminile che fa da
contraltare a quella di Sulpizio e da un vellutato suono di tromba. Ci
sono moduli jazz in questa canzone (provate a coglierli sottotraccia) e
tutto il genio visionario di un artista che plasma la materia rock con
un’originalità sorprendente.
Resterete
a bocca aperta, poi, quando parte la successiva Clown, dieci minuti di
ballata elettrica che tesse trame disilluse e malinconiche, riportando
in vita il fantasma del mai dimenticato Jason Molina.
C’è
un contrasto stridente fra l’approccio jammistico e l’impatto live con
cui gli Health & Beauty affrontano le canzoni in scaletta e la
complessità di idee che prendono forma, ascolto dopo ascolto. Picchi di
songwriting tanto geniale da indurre la più spontanea delle standing
ovation, come avviene nella superba Bottom Leaves, in cui
esplosioni noise mutuate dal free jazz intervallano una melodia
nostalgica e dolcissima che sembra presa a prestito dal songbook del
nostro Luigi Tenco. Un brano talmente ricco, spiazzante e inusuale da
lasciare senza fiato. E non è finita.
Judy è una ballata che fonde mirabilmente Neil Young a dissonanze jazz, Escaping Error evoca fragranze folk con leggerezza estatica, Recourse
è un country rock che cita nuovamente Neil Young (uno dei pallini di
Sulplizio), architettando una melodia sghemba e colorandola con tonalità
di verde irlandese, mentre la conclusiva Love Can Be Kind,
chiude con dieci minuti di ballata elettrica, la chitarra e la voce di
Sulpizio a lambire le stelle del cielo, e un’atmosfera da locale jazz
all’ora del bicchiere della staffa a scaldare il cuore.
La chiosa perfetta di un disco non facile, poco accessibile, forse, ma di una bellezza stordente. Perderlo sarebbe un delitto.
VOTO: 9
Blackswan, giovedì 05/12/2019
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