Dopo
qualche anno di gavetta, Ep autoprodotti e un disco distribuito door to
door, i Pinegrove, band originaria di Montclair (New jersey), fecero il
grande salto con un disco d’esordio (Cardinal, 2016) che attirò
l’attenzione della stampa specializzata, suscitando parecchio interesse e
critiche estremamente positive. Le cose, poi, non sono andate così
lisce come ci si sarebbe aspettati. Alla fine del 2017, i Pinegrove sono
finiti sotto i riflettori per qualcosa che con la musica ha davvero
poco a che fare. Il cantante Evan Stephens Hall, infatti, è stato
accusato di "coercizione sessuale" (verbale, non fisica) da una
donna con cui in passato aveva avuto una relazione. Uno spiacevole
fatto di cronaca, risoltosi, poi, grazie all’intervento di un mediatore e
a un accordo stragiudiziale, che ebbe inevitabili riverberi sullo stato
di salute e sulle prospettive future della band.
Ora,
i Pinegrove sono tornati con un nuovo album e con nuove canzoni, nate
proprio da quella triste esperienza e figlie della sofferenza e del
disagio patito da Hall. Se Cardinal, pur nella sua immediatezza lo-fi, suonava più ondivago, incerto sulla strada da scegliere fra pop e indie folk, Marigold
risulta un disco decisamente più omogeneo, nei suoni e negli intenti.
Una maturità acquisita nel corso di questi quattro anni, che ha reso
ancora più nitida, grazie un ottimo lavoro sulla produzione e gli
arrangiamenti, la predisposizione naturale del leader (autore di quasi
tutti i brani in scaletta) per melodie capaci di sciogliere il cuore
anche del più burbero degli ascoltatori. Insomma, i Pinegrove tornano a
declinare il meglio del loro songwriting, ma lo fanno con maggior
consapevolezza e con idee brillanti e originali. La prima delle quali è
quella di rivisitare con piglio moderno un suono antico, tessendo un
delizioso arazzo di chitarre (soprattutto elettriche), rifinito
dall’ordito occasionale dell’alt country.
Tracce vibranti come Phase o l’elegante No Drugs
sfoggiano una bellezza ariosa, in un contesto in cui tutti gli episodi
possiedono una grazia accattivante. Ciò nonostante, il cuore delle
composizioni è prevalentemente triste: ci sono inevitabili rimandi
autobiografici, in queste canzoni, e Hall tratteggia storie strettamente
connesse a un’anima travagliata, sofferente, al limite del collasso
emotivo. Hall, in tal senso, canta senza filtri, si mette a nudo in
tutta la sua fragilità, ci porge il suo cuore, racchiuso nelle mani
tremanti. Di ansia e di dolore. E lo dice chiaramente, nella malinconica
esposizione di The Alarmist (con quegli echi dolenti che richiamano il Jackson Browne di Late For The Sky): “Per quello che posso vedere, è un territorio terribile, e non c’è nessuno che possa rassicurarmi”.
Un senso di inadeguatezza e di smarrimento replicato in tutta la
scaletta, che, ad esempio, contrasta con il piglio deciso e la melodia
accattivante di Phase, in cui Hall canta: ”C’è un relitto ovunque io guardi”. E non è un caso il lungo strumentale posto a fine dell’album: la title track
è liberatoria, scioglie le emozioni in una catarsi naturistica, in cui
un cielo stellato, immenso nel suo baluginare di stelle, dà respiro alla
speranza, conforta in un abbraccio rasserenante di pura consolazione.
Se c’è un difetto in Marigold
è forse la monotematicità degli argomenti trattati, una sovra
esposizione del sé di Hall, che frena l’universalità del messaggio,
rendendolo troppo personale. Un “guardarsi l’ombelico” tipico
di un certo cantautorato anni ’70 (James Taylor su tutti), che toglie
respiro alle liriche ma non alle splendide melodie di un disco che si fa
fatica ad abbandonare. I Pinegrove, piaccia o meno, lo scrissi anche a
proposito dei Big Thief, rappresentano il futuro del suono “americano”: ne replicano l’essenza, ma scavalcano il consunto steccato formale. Sono linfa vitale. Amateli.
VOTO: 8
Blackswan, martedì 11/02/2020
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