Jake
Smith, titolare del progetto White Buffalo (il nome rimanda al bisonte
bianco, animale sacro per i nativi americani), si è costruito, disco
dopo disco, una considerevole notorietà mediatica, conquistando platee
di fan sempre maggiori, grazie a una consistente attività concertistica e
al passaggio di alcune sue canzoni nella colonna sonora dell’acclamata
serie Sons Of Anarchy. Un successo meritatissimo, nato prima in
patria e poi estesosi in tutta Europa, grazie a un filotto di dischi
appassionati e un sapiente ibrido di country, blues e rock,
profondamente radicato nella tradizione americana.
Giunto
nel pieno della maturità artistica, Smith ha ormai perfezionato un
suono e un linguaggio, in cui la ruggine americana che ossida le sue
storie di vite ai margini, di amori finiti, di perdizione e riscatto,
trova forza espressiva in un mood altalenante fra barbagli di speranza e
crepuscolari malinconie, tra sciabolate elettriche ed evocative ballate
col cuore in mano.
Registrato in presa diretta, con il contributo di quella che Smith definisce la sua Jelly Crew
(il batterista Matt Lynott, il bassista Christopher Hoffee, e
soprattutto Shooter Jennings in veste di pianista e produttore) questo
nuovo On The Widow’s Walk ricalca gli schemi del precedente Darkest Dark, Lightest Light
(2017), amalgamando alla perfezione americana e rock, impeto elettrico e
momenti acustici appassionati e riflessivi, liriche profonde e umorale
sincerità. Il tutto rielaborando, attraverso un proprio stile ben
definito, assonanze con Bruce Springsteen e Pearl Jam, questi ultimi
evocati dal timbro vedderiano della voce di Smith.
Canzoni
diritte e dirette, prive di artifici stilistici, che prendono la mira e
centrano il bersaglio con spiazzante facilità. Eppure, rispetto ai
lavori precedenti, qualcosa manca. A parte forse la contratta e inutile Faster Than Fire, sferragliante ma sostanzialmente innocua, in scaletta non ci sono brutte canzoni; tuttavia, sembra che in On The Widow’s Walk, nonostante
l'approccio quasi live dell'esecuzione, abbia prevalso il mestiere
sulla libertà espositiva, la messa a fuoco sull’inquadratura.
Il
disco è coeso e ben suonato, ma l’impressione (suscitata avendo ben in
testa i precedenti lavori) è che manchi un po' di emozione, che il
meccanismo sia perfettamente oliato ma che solo in alcuni casi Smith
riesca a sfoderare il numero da fuoriclasse, cosa che avviene nella
tensione maligna dell’inquietante The Rapture o nel romanticismo arreso dell’emozionante chiosa di I Don’t Know a Thing About Love, illanguidita dal mesto suono di un violino.
Un
buon disco, dunque, di quelli che si ascoltano volentieri, ma che non
riesce ad avvincere e convincere come invece avevano fatto i suoi
predecessori. Il voto resta alto ed è meritato, ma da Smith, forse, è
lecito aspettarsi qualche guizzo d’ispirazione in più.
VOTO: 7
Blackswan, Giovedì 07/05/2020
1 commento:
Caspita, ritrovarmeli qui, a distanza di lustri mi fa molto piacere, li pensavo ormai sepolti, invece gran bel pezzo, grazie per la RI-scoperta !
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