Il killer, come ogni anno, si prende qualche giorno di ferie. Riapriremo i battenti ad agosto. Buone vacanze a chi va e buona continuazione a chi resta.
Mark
Olson, si sa, se n’è andato, e la dipartita sembrerebbe definitiva,
anche se in passato, a onor del vero, si era già allontanato dalla band,
per farvi poi inaspettatamente ritorno (per contribuire alla stesura di
quel gioiellino intitolato Mockingbird Time - anno domini
2011). Una separazione quella tra Olson e Louris, l’altro titolare del
marchio Jayhawks, che ha messo fine a una delle coppie più prolifiche
degli anni ’90, quella che, per intenderci, aveva dato i natali a due
gioielli di alt country quali Hollywood Town Hall (1992) e Tomorrow The Green Grass (1995), capitoli imprescindibili della storia musicale americana del decennio.
La
mazzata avrebbe fatto affondare la nave Jayhawks, se Louris, a dispetto
di tutto, non avesse preso saldamente in mano il timone e avesse tenuto
in vita, tra alti e bassi, una band che sembrava destinata a sparire
dai radar. XOXO (baci e abbracci) esce a distanza di due anni da Back Roads and Abandoned Motels e a quattro da Paging Mr. Proust,
due dischi di buona fattura, che se da un lato mettevano in mostra il
songwriting (prevalentemente) ispirato di Louris, dall’altro segnavano
inevitabilmente la differenza qualitativa tra i Jayhawks con Olson e
quelli senza.
La
stessa cosa succede per questo nuovo lavoro, in cui Louris ha dato
spazio ai fidi sodali Marc Perlman (basso), Karen Grotberg (voce e
tastiere) Tim O’Reagan (batteria), che si sono cimentati nella
composizione dei brani. Il risultato, come per i due predecessori è più
che discreto, anche se, a ben vedere, in alcuni frangenti (Ruby, Illuminate),
la scrittura palesa perdita di smalto ed evidenzia momenti di
stanchezza, tipica di chi si limita a fare il compitino senza troppa
convinzione.
Certo, non mancano episodi notevoli, di quelli che nel tempo ci hanno fatto innamorare perdutamente della band. This Forgotten Town è il classico gioiellino Jayhawks rilucente di melodia cristallina, Dogtown Days mostra il lato più rock del gruppo, sfoggiando un cazzutissimo riff stonesiamo, e il piano blusey di Living In a Bubble
regala ai fan una di quelle canzoni che si trasformano in istant
classic fin dal primo ascolto. Gli intrecci vocali, come sempre
calibrati e fascinosi, impreziosiscono Homecoming, che diversamente sarebbe suonata un po' sciapa, mentre la straordinaria linea di basso e il ritornello beatlesiano fanno di Little Victories uno dei brani migliori del lotto.
La trasognata morbidezza di Looking Up Your Number
chiude benissimo un disco non tutto al livello qualitativo dei brani
citati, anche se, ben inteso, non c’è nulla davvero da buttare.
Semplicemente, in scaletta ci sono canzoni poco incisive, prive di
quella luce e di quei colori che da sempre caratterizzano le cose
migliori dei Jayhawks. Nel complesso, però, XOXO, pur senza incantare,
tiene bene alla distanza e si fa ascoltare con piacere. Tre brani in più
(discreti) nella versione deluxe.
La lunga carriera di Paul Weller, dai Jam fino a quest’ultimo On Sunset,
è sempre stata caratterizzata da una disarmante regolarità, un disco
via l’altro, intervallati da pause al massimo di tre anni. Il songwriter
di Woking è guidato evidentemente da un’inesausta ispirazione, con cui
talvolta ha spostato il baricentro della propria narrazione (il
penultimo True Meanings del 2018), rimanendo però fedele a se stesso e mantenendo pressoché invariata la qualità della proposta.
Superata
di slancio la boa dei quarant’anni di carriera e giunto al quindicesimo
album in studio, Weller continua a di mostrare una classe infinita e
una capacità di scrittura sopraffina. In tal senso, On Sunset
confeziona elegantemente in dieci canzoni l'essenza del Weller pensiero,
con una forbice stilistica che parte dall’avventura eighties con gli
Style Council fino ad arrivare alla delicatezza intimista del già citato
True Meanings.
E’
un Weller rilassato, ma non appagato, quello cogliamo nelle dieci
canzoni dell’album, che maneggia con sapienza da venerato maestro la
consueta materia soul pop, con vista sugli anni ’60, scossa, talvolta,
da un mai sopito ardore rock e da una propensione naturale per la
declinazione psichedelica.
In tal senso, la splendida apertura di Mirror Ball
è un sorta di zibaldone dei pensieri musicali che affollano la testa
dell’ex Jam: il velluto orchestrale e sixties dell’incipit, il senso
della melodia che ti cattura con una sola strofa, la consapevolezza per
il soul e per la ritmica che pochi possiedono, la capacità di rendere un
brano lineare in qualcosa di più complesso e seducente. Pochi bianchi
al mondo, poi, sanno divertire con dei r’n’b così clamorosamente vintage
e prevedibili (Baptiste) che però ti acchiappano al volo con
l’immediatezza del pop più ruffiano, o, per converso, sanno declinare
l’antico verbo funk una visione moderna e spolverata di elettronica (Old Father Tyme).
Numeri da autentico guru, che aprono un disco capace di conquistare anche con la retromania alla Style Council di Village (c’è Mike Talbot all’hammond) e col deragliamento jammistico della favolosa More (che
arrangiamenti!), pronta per essere l’abbrivio all’improvvisazione per i
futuri concerti, oppure sedurre con i languori dandy della title track, lo sguardo pacificato e sereno verso il sole che tramonta lontano, accarezzandoci il viso con la prima brezza della sera.
Il
disco, pur mantenendo integra la propria eleganza formale, cala
leggermente nella seconda parte, che risulta meno ispirata, con due
episodi piacevoli ma tutto sommato prescindibili (Equanimity e Walkin), con Earth Beat, altro gioiellino alla Style Council, preso in prestito dallo scrigno dei ricordi e lucidato con un po' di elettronica, e con Rockets, ballatona avvolta in una languida e melodrammatica coltre d’archi.
Nella versione deluxe ci sono cinque brani in più (degna di nota I’ll Think Of Something)
che però non aggiungono nulla alla sostanza di un disco centrato e
splendidamente suonato, che, a dispetto del titolo, testimonia di un
livello d’ispirazione ben lontano dalle ombre del tramonto.
Gli IDLES condividono il nuovo singolo “A Hymn”, il pezzo più emotivo del nuovo album della band di Bristol Ultra Mono
in uscita il 25 settembre su Partisan. Il video che lo accompagna, vede
la band guidare con le proprie famiglie per le vie della loro città
natale, documentando la vita grigia dei sobborghi inglesi che
perfettamente coincide con le atmosfere cupe del brano. Guarda il video
diretto da Ryan Gander a fondo pagina.
Riguardo al brano il frontman Joe Talbot afferma:
“A Hymn è un inno che gioisce del virus sinistro e necrotizzante del
mediocre. È il suono dei denti che affondano nel tuo collo mentre ti
alzi nel sonno con gli occhi aperti. Amen.”
“A Hymn” segue la pubblicazione dei precedenti singoli “Mr. Motivator” e “Grounds,” l’ultimo dei quali è stato apprezzato dal NY Times che ha scritto: “Cosa
dovrebbe fare una band post-punk britannica durante il periodo
di proteste afroamericane scoppiate in questi giorni in tutto il mondo?
Farsi sentire e mostrare solidarietà.”
Il 29 e 30 agosto gli IDLES ospiteranno tre concerti dal vivo in uno studio iconico (che sarà
annunciato in seguito), che saranno registrati, filmati e trasmessi in
streaming. All’acquisto del biglietto, i partecipanti riceveranno un
link unico per accedere allo spettacolo.
Talbot ha recentemente lanciato BALLEY TV,
un nuovo talk show virtuale che per tutta l’estate svelerà un nuovo
episodio ogni venerdì. Gli ospiti sono Mike Skinner (The Streets), Nadya
Tolokonnikova (Pussy Riot), Lauren Mayberry (CHVRCHES), Hak Baker e
molti altri.
Registrato a Parigi e prodotto da Nick Launay (Nick Cave, Yeah Yeah
Yeahs, Arcade Fire) e Adam ‘Atom’ Greenspan (Anna Calvi, Cut Copy), con
l’aggiunta di ulteriori effetti di Kenny Beats (FKA Twigs, DaBaby, Vince
Staples), il suono di ‘Ultra Mono’ è stato costruito per catturare il
feeling di un album hip hop. Attraverso le dodici tracce brutalmente
rilevanti, la band raddoppia gli scherni al vetriolo e i commenti
sociali presenti nei lavori passati affrontando temi di presenza attiva,
inclusività, classe sociale, disuguaglianza di genere, nazionalismo,
comunità e mascolinità tossica, che rimangono sempre più attuali. ‘Ultra
Mono’ include la voce di Jehnny Beth (Savages), e i contributi di
ospiti come Warren Ellis (Nick Cave and the Bad Seeds), David Yow, e
Jamie Cullum.
Il 4 settembre del 2001 esce Toxicity,
secondo album dei System Of A Down, e per Tankian e soci è la
consacrazione universale, che li porta a conquistare ben otto dischi di
platino. A diciannove anni dalla sua pubblicazione, Toxicity può essere considerato a buon diritto uno dei grandi classici della "letteratura " rock (metal) del nuovo millennio.
Nonostante
il secondo album dei SOAD appartenga per filiazione al movimento Nu
Metal, di cui rappresenta il vertice stilistico in condominio al primo,
imprescindibile lavoro dei Korn, è vero anche che la freschezza
creativa, le intuizioni compositive e l'immenso lavoro di raccordo
fra diverse sonorità, partorito dal binomio Tankjan-Malakian, riuscirono
a imporre all'attenzione del grande pubblico un'idea di musica capace
di scardinare i paletti del genere e universalizzare il verbo metal.
Quattordici canzoni di breve-media durata (tutte sotto i quattro minuti a eccezione della conclusiva Aerials
) connotate da uno stile di straniante efficacia, riconoscibile per una
dicotomia spesso convergente fra esplosioni di adrenalinica violenza e
aperture melodiche di inaspettata malinconia. Un caleidoscopio sonoro,
quindi, in cui convivono sotto lo stesso tetto, e in bizzarra simbiosi,
le avanguardie estreme della new wave metal, improvvise derapate
hip-hop, affascinanti suggestioni etniche in salsa armena (la coda
strumentale della già citata Aerials) e strutture a incastro, votate a un gusto teatrale a metà fra l’assurdo e il grandguignol.
In
questo quadro di debordante eclettismo (in cui mette mano in maniera
efficace il geniale produttore Rick Rubin), dominano il colore rosso
intenso del canto istrionico di Tankjan, la cui voce nasale e rutilante
passa con inquietante semplicità dall'urlo belluino al falsetto dai toni
melodrammatici, e il sinistro scintillio della chitarra tossica e
demoniaca di Malakian.
Toxicity
si sviluppa nell'arco di quarantacinque minuti che non lasciano spazio a
riempitivi o passi falsi, denotando semmai una coesione qualitativa che
permea ogni singola traccia del disco. Tra i tanti brani che
meriterebbero una citazione, la centrale Chop Suey!,
probabilmente il brano più famoso della band, è la pietra angolare per
comprendere quanto la musica dei SOAD sia difficilmente etichettabile,
coacervo sferragliante di opposte intuizioni, punto di collisione fra
inconciliabili moti dell’anima.
Da
un lato, la matrice hip hop, destrutturata e schizoide e il fragore
assordante di una rabbia belluina, dall’altro, una linea melodica nitida
e un ritornello di inesplicabile lirismo. Un pezzo strutturato
mirabilmente, con tre chitarre (una acustica e due elettriche) che
aprono sostenendo un crescendo ritmico vertiginoso, le bordate metal
rap, la sospensione melodica, il ritornello sofferto, i repentini cambi
tempo, il continuo alternarsi fra noise e melodia, un lick pianoforte
che, nel finale, compare in sottofondo a rimarcare la dolente epica del
brano.
Chop Suey!
non è una ballata, eppure riesce a suggerire malinconia e tristezza,
merito anche di liriche incentrate sul tema della morte e del suicidio.
Il chitarrista Daron Malakian in un’intervista ebbe modo di spiegare: “La
canzone parla di come siamo considerati a seconda del modo in cui
muoriamo…tutti dobbiamo morire, ma se ora dovessi morire per abuso di
droga, potrebbero dire che me lo sono meritato perché ho abusato di
droghe pericolose”.
La canzone, originariamente, era intitolata "Self-Righteous Suicide",
ma la Columbia Records costrinse la band a cambiarla per evitare
polemiche. Il titolo ufficiale è quindi il risultato di un gioco di
parole basato sull’assonanza: da Self Right Suicide a Self-Right(Chop Suey)cide.
Il consueto ricorso all’assurdo (Tankjan in tal senso è un maestro) per
mitigare la provocazione (ma se fate attenzione nell’introduzione al
brano la parola suicide viene comunque pronunciata, così come nel testo).
Un’ultima curiosità: per accentuare la carica mistica del brano, nel testo compaiono anche due passaggi tratti dal Vangelo: «Father, into your hands I commend my spirit» e «Father, why have you forsaken me?». Le ultime parole di Gesù prima di morire sulla croce.
"Song For Our Daugher", il nuovo album di Laura Marling, sarà finalmente disponibile in CD e LP dal 24 luglio su Chrysalis/Partisan, distribuzione Self.
Pubblicato a sorpresa lo scorso aprile, durante il periodo di lockdown,
solo sulle piattaforme digitali, il settimo album solista di Laura
Marling è stato registrato con il produttore Ethan Johns.
Riguardo al nuovo album, Laura ha affermato:
“Il
nuovo album Song For Our Daughter esce questa settimana, prima del
previsto. Visto il momento che stiamo affrontando non vedo perchè
posticiparlo, potrebbe intrattenere e dare un certo senso di unione e
partecipazione.
È
strano vedere gli aspetti della nostra vita quotidiana dissolversi
lasciando solo l’essenziale; coloro che amiamo e per cui ci
preoccupiamo. Un album spogliato di tutto ciò che la modernità e la
proprietà causano, è essenzialmente un pezzo di me e vorrei che voi lo
aveste. Vorrei che voi ascoltaste una strana storia sull’esperienza
frammentaria e insensata del trauma e una richiesta di capire cosa
significa essere una donna in questa società. Adesso quando lo
riascolto, lo capisco di più di quando l’ho scritto. La mia scrittura,
come sempre, era avanti mesi, anni rispetto alla mia mente. Era tutto lì
sin dall’inizio, guidandomi dolcemente attraverso il caos della vita. E
ciò descrive il sentimento dietro all’album – come potrei guidare mia
figlia, prepararla alla vita e a tutte le sue sfaccettature? Sono più
grande ora, grande abbastanza da avere una figlia e sento la
responsabilità di difendere La Ragazza. La Ragazza che potrebbe essersi
persa, strappata all’innocenza prematuramente o distrutta da forze che
dominano la società. Voglio supportarla sussurrandole all’orecchio tutta
la sicurezza e l’affermazione che ho trovato difficile procurare a me
stessa. Questo album rappresenta quello strano sussurro, un po’
distorto, un po’ fuori sequenza, come la vita.”
Gli
studi classici da bambina, l’innamoramento per i Deftones e il metal
più estremo, una chitarra trovata per strada, le prime composizioni, un
omonimo Ep e, poi, il salto di qualità, con un vinile 10” intitolato Exit In Darkness
e composto in collaborazione con la band giapponese di post rock dei
Mono. Sono queste le tappe della breve carriera di A.A. Williams,
giovane londinese che con Forever Blue, esordio pubblicato via Bella Union, si cimenta finalmente sulla lunga di stanza.
Otto
canzoni per quaranta tre minuti di lunghezza, in cui la giovane
songwriter mette a frutto i suoi studi e la passione per il rock più
sperimentale. Fin dal primo ascolto del disco, infatti, si colgono
influssi di band quali i citati Mono, i Rachel’s, gli Explosions In The
Sky, i Sigur Ros e i Cult Of Luna, ricollocati in un contesto sonoro in
cui emergono anche tessiture di classica contemporanea e aperture a un
folk livido e crepuscolare. Sarebbe però assai riduttivo inquadrare
questo esordio attraverso le sue fonti d’ispirazione: nel disco,
infatti, emerge tutto il talento di una giovane artista che scrive
grandi canzoni e ha tante cose da dire attraverso la propria originale
visione artistica.
Forever Blue
è in primo luogo la rappresentazione perfetta della drammatica liturgia
dei nostri tempi, la spettrale fotografia di un mondo alla deriva e
senza speranza, un epicedio sulle macerie di un’umanità destinata a un
lento viaggio verso la profondità degli inferi. Su tutto regnano tanatos
e un senso incombente di afflizione e di resa, le atmosfere sono cupe e
sprofondate nell’ombra, e i rari momenti di estasi sono un fugace
sguardo che tende all’assoluto.
La
struttura dei brani è quella classica del post rock: trame melodiche
intrecciate lentamente, una fase centrale di stasi contemplativa e
quindi il ricorso al climax per creare un effetto di progressione che
enfatizzi il tema melodico suggerito all’inizio.
Il disco si apre con All I Asked For (Was It To End),
ballata per piano e voce dall’impianto molto classico, che lentamente
acquisisce maggior respiro attraverso un arrangiamento d’archi, il
raddoppio della voce e il tetro metronomo della batteria. Un brano
malinconico e pregno di afflizione, come evidenziato dallo splendido
video che accompagna la canzone: la morte come dissolvimento materiale e
ritorno all’humus della terra, la carne che torna a essere parte del
tutto, in una rappresentazione sonora che evoca i versi di Sylvia Plath
di Io Sono Verticale. Una canzone che è il punto di partenza
per tracciare la perfetta circonferenza di un cerchio che si chiude con
la delicatezza vaporosa della conclusiva I’m Fine, ballata per
pianoforte e voce, accarezzata da un languido violoncello e attraversata
da un esile raggio di sole evocato nel cinguettio finale degli uccelli.
All’interno di questo percorso circolare, aperto e chiosato dai due momenti più “leggeri” del disco, si sostanzia una parte centrale in cui si raggrumano tensione e drammaticità. Il basso che apre Melt
sono passi nel cuore della notte maligna e dissonante, la voce della
Williams è una corda tesa nell’abisso tremante, che si spezza poi, nel
battente sconquasso che chiosa il brano in un crescendo di pathos tanto
caro ai Sigur Ros. Il lamento e la lentezza esasperata di Dirt,
cantata in duetto con Tom Fleming dei One True Pairing, sanno di terra
brulla e riarsa, di sogni spezzati e di desolazione senza fine. La
stessa desolazione che attraversa Fearless, sprofondo
definitivo nelle viscere della terra, che suona come un’illustrazione
dell’inferno dantesco fatta da Gustave Dorè. Una canzone di una mestizia
infinita, romantica rappresentazione di un mondo ultraterreno che altro
non è se non la fotocopia della realtà, qui enfatizzata dal tocco
orrorifico del growl di Johannes Persson dei Cult Of Luna, presente come
ospite.
Suona grave e disperata anche Glimmer,
la cui melodia di bellezza spettrale è schiacciata dal peso di un cielo
plumbeo e senza stelle, mentre il cantato austero, quasi ieratico della
Williams in Love And Pain, imprigionato dai magli di un basso metallico e arcigno, trova sfogo in un crescendo a volute che vibra di ascensione mistica.
Prima del finale c’è spazio per la malinconia senza appello di Wait,
extrasistole di un cuore sul punto di spezzarsi in un’ipnotica spirale
discendente che trasfigura la speranza in una pallida chimera. Su tutto
incombe, pervasivo, un senso di imminente e devastante tragedia.
Forever Blue
è al momento il miglior esordio dell’anno, un disco complesso e
fascinoso, contornato da una tristezza che non evapora nemmeno di fronte
ai rilucenti colori e alla frivolezza che accompagnano l’estate. Un
ascolto che, proprio per questo, si fa straniante, un po' come ascoltare
Pornography dei Cure sotto l’ombrellone a Riccione: la pece nera di un
dolore interiore e tangibile prende forma sotto l’azzurro cristallino
del cielo. Ciò non toglie nulla alla bellezza di un disco destinato a
essere annoverato fra le cose migliori di questo 2020. E sarà bello
riascoltarlo quando fuori tutto sarà pioggia, nebbia e oscurità, e
l’autunno saprà regalare nuove sfumature a queste otto, bellissime e
disperate canzoni.
Anno
magico, il 1992, con tante uscite discografiche importanti ed
emblematiche del suono allora in voga e di quello che, da lì a poco,
prendere consolidata forma. E’, infatti, l’anno della techno ambient
ipnotica di Selected Ambient Works 85-92 degli Aphex Twin, dell’alternative lo-fi sporco e grezzo dei Pavement di Slanted And Enchanted,
del militante metal rap dei Rage Against The Machine e del loro
infuocato esordio, del capolavoro grunge a tinte metalliche del
leggendario Dirt degli Alice In Chains.
Decisamente
contro tendenza rispetto alle mode del momento è, invece, l’esordio dei
Black Cat Bone, power trio americano, proveniente dal Kentucky.
Composta dal chitarrista e cantante David Angstrom, dal bassista Mark
Hendricks e dal batterista Jon McGee, la band, che visse una stagione
brevissima, fu oggetto di culto di una ristrettissima cerchia di fan,
nonostante quel nome, Black Cat Bone, evocasse immediatamente i ben più
famosi Black Cat Bones di Paul Kossoff, band londinese di blues rock
operativa a Londra alla fine degli anni sessanta e dalla cui costola,
poi, nasceranno i Free.
Truth
fu un esordio, come si diceva, controcorrente rispetto all’allora
panorama musicale, dal momento che i tre ragazzi del Kentucky andavano a
rendere omaggio all’hard rock blues degli anni d’oro, citando a manetta
veri e propri miti come Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Thin Lizzy, Free e
ZZ Top. Da questi ultimi, i Black Cat Bone, ereditarono come surplus
torridi accenti sudisti, ma la proposta rispetto alle fonti
d’ispirazione era decisamente più dura, rumorosa, sferragliante,
accelerata da un’urgenza quasi punk.
Riff
trucidi, assoli letali come un lanciafiamme in un campo di grano, e una
sezione ritmica vibrante, inesausta e martellante, con il basso
talvolta slappato, rendevano le dodici canzoni in scaletta un assalto
sonoro selvaggio e senza compromessi. Un suono classico, certo, ma non
frusto o anacronistico, dal momento che sotto l’armatura metal della
band batteva un cuore in extrasistole funky, vero segno distintivo della
proposta dei Black Cat Bone (emergono qui e là collegamenti con i coevi
Living Colour).
Un
disco lungo (un’ora secca di durata), sferragliante e votato al corpo a
corpo, in cui i pochi attimi di sospensione vengono utilizzati come
blocchi di partenza per impetuose e devastanti accelerazioni. Il riff
zeppeliniano dell’iniziale The Epic Continues (con quel ritornello che è più Zep degli stessi Zep), la derapata funky di Dynamic (che incorpora citazioni sabbathiane), la ritmica furente e in levare di Be Like Me, i deragliamenti jammistici di Dream e della title track, l’hard blues micidiale di Too Cool/Shoe Shine sono sventagliate ad alzo zero che feriscono a morte e non lasciano scampo.
Un
esordio fulminante e gagliardo, che apriva le porte a un futuro
luminoso per un gruppo che andava, si, controcorrente, ma che sarebbe
potuto arrivare ovunque, grazie alla potenza di tiro e a qualità
tecniche di alto prospetto. Peccato che la storia della band finisca
qui: David Angstrom, anima dei Black Cat Bone, molla il colpo e più
tardi andrà a fondare un altro killer trio, i Supafuzz. Ma questa, come
si suol dire, è tutta un’altra storia.
Patrick
Spain e i suoi due bambini vengono ritrovati morti in un complesso
residenziale mezzo abbandonato per colpa della crisi. Jenny, la madre, è
in fin di vita. All'inizio Mick «Scorcher» Kennedy, incaricato delle
indagini, pensa alla soluzione più scontata: un padre sommerso dai
debiti, travolto dalla recessione, ha tentato di uccidere i propri cari e
si è tolto la vita. Ma ci sono troppi elementi che non quadrano: le
telecamere nascoste nell'appartamento, i file cancellati su uno dei
computer e il fatto che Jenny temesse che qualcuno fosse entrato in casa
loro per spiarli. A complicare il quadro, c'è il quartiere in cui
vivevano gli Spain - un tempo noto come Broken Harbour - che riporta a
galla ricordi dolorosi del passato di Scorcher.
Broken
Harbour, località costiera a più di un’ora di strada da Dublino, doveva
essere il sito di una zona residenziale da favola, un complesso di
villette per famiglie attrezzato di negozi, scuole, centro fitness,
biblioteca. La promessa di un futuro radioso di fronte a un panorama da
favola. Invece, la crisi, ha spazzato via i sogni di gloria e di
benessere: il sito è in stato di abbandono, l’incuria le erbacce e la
salsedine dominano incontrastate, e delle tante ville che si dovevano
costruire ne sono state completate poche e con materiali scadenti.
In
una di queste, vengono ritrovati i corpi di Patrick Spain e dei suoi
due bambini. Assassinati. Jenny, la madre, viene tratta in salvo per il
rotto della cuffia, ed è in ospedale a lottare tra la vita e la morte.
L’indagine viene messa in mano a Mike Kennedy, detective irreprensibile,
ma con un passato (e un presente) doloroso e ancora tutto da
rielaborare, e alla giovane recluta Richie Currant, ragazzo dai modi
dimessi e gentili.
I
due, con uno strattagemma, arrestano subito un sospettato, il quale,
messo alle strette, confessa l’efferato crimine. Tutto troppo semplice,
però, così semplice che è evidente che qualcosa non quadri. Perché
dietro l’apparente perfezione di una famiglia felice, dietro l’amore
idilliaco che lega i coniugi Spain, emerge qualcosa di oscuro e poco
chiaro: un fantomatico animale che si aggira rumorosamente nella
soffitta di casa, strani buchi nei muri, del tutto inconciliabili con la
perfetta pulizia dell’abitazione. Così, anche se il caso potrebbe
essere immediatamente archiviato, i due detective continuano a indagare.
Cosa è successo davvero agli Spain?
Tana
French, pluripremiata scrittrice americana di origini irlandesi,
costruisce con maestria un romanzo giallo dall’andamento molto classico,
in cui all’azione, praticamente inesistente, sostituisce la pura
indagine, la testimonianza delle persone informate dei fatti, il lavoro
della polizia scientifica, il ragionamento deduttivo. Eppure, nonostante
i ritmi compassati, il libro funziona alla meraviglia e il romanzo
avvince dalla prima e ultima pagina, in un finale che forse non
sorprende, ma che riesce a essere plausibile e sconvolgente.
Nelle seicentocinquanta pagine che compongo Il Rifugio,
però, non è solo il delitto a essere protagonista: il detective Kennedy
rivive il proprio passato (Broken Harbour era il luogo in cui la sua
famiglia si receva in vacanza) e affronta i propri sensi di colpa, e la
French si abbandona a riflessioni acute su giustizia, verità e funzione
dell’indagine poliziesca. Un thriller scritto bene, lontano dalle
banalità del genere, che vi terrà compagnia sotto l’ombrellone, e vi
conquisterà senza mandare in vacanza anche i vostri neuroni.
Josiah Johnson – ex membro e fondatore dei The Head and the Heart – annuncia oggi il suo album di debutto solista Every Feeling On A Loop, in uscita il 04 settembre su ANTI-, distribuzione Self.
Nel nuovo singolo estratto “Nobody Knows”,Johnson
canta perché le persone trovino il coraggio di condividere e ricevere
le verità presenti nei loro cuori. I messaggi che canta, così come la
sua essenza, sono una gradita boccata d’aria. “Buona parte della crescita documentata in questo album riguarda l'assumermi la responsabilità di come mi mostro al mondo e questa canzone parla proprio dell'assumermi la responsabilità di come mi prendo cura di me stesso", afferma Johnson. “Un
parte della mia esperienza con la dipendenza è ben rappresentata dal
fatto che nonostante stessi vivendo un brutto periodo, non stavo
chiedendo l’aiuto di cui avrei avuto bisogno.”
Se il seducente Goodnight Rhonda Lee
del 2017 è stato per Nicole Atkins una sorta di ritorno alla vita (non
solo artistica), dopo un lungo e difficile periodo di dipendenze, questo
nuovo Italian Ice aggiunge un ulteriore e fondamentale
tassello alla crescita di una delle songwriter tra le più interessanti
dell’ultimo decennio.
Registrato
ai Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield, in Alabama, uno dei luoghi
della memoria e patrimonio storico del rock statunitense, Italian Ice
ha visto la Atkins fare le cose in grande, contornandosi di un nutrito
gruppo di musicisti fuoriclasse (il tastierista Spooner Oldham e dal
bassista David Hood, militanti nella Muscle Shoals Rhythm Section, il
chitarrista Binky Griptite dei Dap-Kings, Jim Sclavunos e Dave Sherman
dei Bad Seeds di Nick Cave e il batterista dei Midlake, McKenzie Smith) e
di qualche ospite di lusso (Seth Avett degli Avett Brothers, Erin Rae e
John Paul White), che hanno contribuito a definire ulteriormente uno
stile già ben marcato nel capitolo precedente.
Sono
undici le canzoni in scaletta, con cui la Atkins intesse, con eleganza e
rigoglio di arrangiamenti, un coloratissimo melange di pop, soul,
blues, funky e psichedelia: i piedi ben piantati nel presente, ma lo
sguardo rivolto agli amati anni ’60 (che già erano la cifra stilistica
che informava Goodnight Rhonda Lee) e in parte agli anni ’70.
Modernità e vintage, dunque, per un disco che possiede un’ottima resa
soprattutto se ascoltato in cuffia, in modo da cogliere sfumature,
intuizioni e suoni che, arricchiscono un già di per sè intrigante
paesaggio melodico.
Apre Am Gold, numero da vera fuoriclasse: un sognante drive di pianoforte (che evoca The Great Gig In The Sky
dei Pink Floyd) conduce a un irresistibile groove funky soul che prende
letteralmente il volo sulle ali della potente voce della Atkins e su
quei coretti che fanno da giocoso contrappunto. Splendido incipit per un
disco che prosegue giocando con la psichedelia nella trasognata Captain e nella baldanzosa Mind Eraser, che invita alla spensieratezza con il pop in chiave FM di Forever, che spinge sul dancefloor con la disco funk di Domino e che replica sornione un modulo r’n’b che sembra rubato a Mama Told Me Not To Come di Randy Newman (Never Going Home Again).
E poi, ci sono gli anni ’60, habitat naturale per la Atkins: l’intrigante melodia di St. Dymphna (il santo patrono delle sofferenze da afflizioni nervose e mentali), la languida svenevolezza di Far From Home, l’appassionata cover di Road To Nowhere, brano datato 1966 e preso dal repertorio di Carole King, e la breve ma splendida These Old Roses,
con cui Nicole rende omaggio nuovamente a Roy Orbison, nume tutelare
che aveva già ispirato alcuni dei momenti migliori di Rhonda Lee.
Di quel disco, Italian Ice
è quasi una sorta di secondo capitolo, poiché attinge alle stesse
influenze, allargandone però i confini. E’ egualmente potente, eppure
meglio organizzato, meglio suonato e, in qualche modo più calibrato e
consapevole. Cosa manchi a questa ragazza per diventare una stella di
prima grandezza, non è dato sapere. La strada è comunque intrapresa e
se, come ritengo, questa nuova fatica comparirà molto in alto nelle
classifiche di fine anno, per la Atkins sarà forse il momento del
definitivo grande salto. Non certo qualitativo (quello è già in atto),
ma mediatico e commerciale.
BILL CALLAHAN annuncia il nuovo album GOLD RECORD, in uscita il 4 settembre su Drag City Records.
Per
il suo primo disco in… beh, poco più di un anno, Bill Callahan ci
regala un “disco d’oro”. Potremmo anche chiamarlo “dischi d’oro”: le
canzoni sembrano tutte autonome, come se fossero singoli, in modo da
poterle avvicinare profondamente, come se fossero tante relazioni,
dall’inizio alla fine. E cosa ottieni quando hai un album fatto di
singoli e, ammettiamolo, singoli da classifica? Ottieni un Gold Record, un disco d’oro.
Per
Bill, prepararsi al tour di Shepherd In a Sheepskin Vest significava
stare lontano da casa per lunghi periodi di tempo, mesi, stagioni, forse
anche un anno intero, chi poteva saperlo? Percependo ciò, Bill tirò
fuori dal suo taccuino alcuni schizzi e li terminò. Prima di rendersene
conto, aveva un pugno di nuove canzoni.
È
successo tutto in fretta. Le basi sono state registrate dal vivo, con
Matt Kinsey alle chitarre e Jaime Zurverza al basso. Batteria e fiati
sono stati aggiunti poi a un paio di tracce. Dei dieci brani, sei sono
prime take e anche le sovraincisioni, dove necessarie, sono state fatte
molto velocemente. Ascoltando il disco si nota una coesione intuitiva
molto ricca, dietro la titanica voce di Bill: la gentile ma spiritata
conversazione tra le chitarre di Bill e Matt, le sottili linee di basso,
i ritmi della batteria e le bizzarrie della tromba, dei fiati e dei
synth colgono note sorprendenti e discordanti come il suono naturale che
accompagna ogni vita vissuta.
A
quarantaquattro anni, Ana Popovic è quel che si dice un’artista
affermata: si è fatta un nome in ambito rock blues e si è creata, grazie
a una già considerevole discografia, un seguito di fan appassionato e
fedele. Chitarrista tecnica, ma non priva di una certa gagliardia
espressiva, la musicista serba ha giocato negli anni con uno spettro di
sonorità (rock, blues, jazz, soul) che ha saputo sempre maneggiare con
autorevolezza, senza però mai tentare azzardi o aprirsi alla
sperimentazione.
Si
è sempre mossa, cioè, in una propria comfort zone, evitando di
assumersi grandi rischi, e virando spesso verso certe patinature
(immediatamente riconoscibili dalle copertine dei suoi album) che hanno
sopito l’ardore, piegandolo a logiche più smaccatamente mainstream. Se
in studio, i risultati sono stati altalenanti (l’ottimo e monumentale Trilogy del 2016, il prescindibile e mediocre Like It On Top
di due anni fa), dal vivo, la Popovic ha sempre dato il meglio di sé,
come se, fuori dagli angusti spazi della sala di registrazione,
ritrovasse improvvisamente libertà espressiva e sacro fuoco.
Questo
nuovo album è, in tal senso, la riprova di quanto la chitarrista sul
palco riesca a esprimere le sue doti migliori, che, fortunatamente, non
solo quelle di una tecnica indiscutibile. Registrato il 2 novembre del
2019, a Issoudun (Francia) presso il Centre Culturel Albert Camus, Live For Live
fotografa una serata vibrante, in cui la passione e la propensione al
groove si sposano con l’ottima performance della Popovic e di una
fantastica backing band, composta per tre quinti da musicisti italiani
(Michele Papadia alle tastiere, Davide Ghidoni alla tromba, Claudio
Giovagnoli al sax), oltre a Buthel al basso e Jerry Kelley alla
batteria.
Il
risultato è un disco molto suonato, in cui tutti gli elementi della
band si ritagliano momenti di assolo importanti, dando vivacità e colori
all’esecuzione dei brani e alzando il livello tecnico della
performance: se suonare tanto è un bene, suonare bene è meglio.
Ana
guida le danze, cantando con mestiere in tutti i brani e accendendo la
miccia alla sua esplosiva Fender: piede spesso schiacciato sul pedale
wah wah, e profilo minimal durante l’esecuzione, salvo, poi, al momento
giusto, prendersi gli spazi per impetuosi e ficcanti assolo. Tante note,
ma mai sprecate, tanta grinta, velocità e tecnica.
Un
live stilisticamente elegante, in cui la forma è sostanza, e la
sostanza possiede l’impeto d’improvvisazione delle migliori jam band.
Ogni brano in scaletta è vera goduria per le orecchie: dal groove funky
delle infuocate Can You Stand The Heat e Fencewalk, ai fiati scintillanti in stile New Orleans di New Coat Of Paint, dal blues indemoniato e adrenalinico Can’t You See What You’re Doing To Me (Albert King) fino alle atmosfere sensuali e in punta di plettro della lunga, vibrante Johnnie Ray, è tutto un susseguirsi di emozioni, sudore, giocosa e divertente musica.
Se
la Popovic riuscisse in studio a replicare anche solo la metà di questa
pura energia che riesce a creare sul palco, avremmo dischi di caratura
impressionante. Al momento, però, così non è, e ci tocca “accontentarci” di questo, che è uno dei migliori live pubblicati nel 2020.
Tre anni dalla publicazione dell’acclamato album Poison The Parish, la band multiplatino SEETHER annuncia l’atteso nuovo album Si Vis Pacem, Para Bellum in uscita il 28 agosto su Fantasy Records/Spinefarm. Tratto come “se vuoi la pace, preparati per la guerra,” l’album contiene 13 brani, un mix di euforia e tormento, senza dubbio il materiale più forte dell’illustre carriera dei SEETHER, tra cui il bellissimo e tormentato singolo “Dangerous”
disponibile da oggi e accompagnato da un video creato dal regista turco
Mertcan Mertbilek (Santana, Ray Charles, Ravi Shankar, Elvis Costello).
“Questi
brani sono stati creati per annidarsi nelle tue orecchie come un
piccolo coniglio di velluto che stringe un coltello a serramanico,” afferma il leader Shaun Morgan.
Questa franchezza coraggiosa tocca le corde musicali e liriche dei
brani, esplorando ed eviscerando i demoni personali e culturali. “Questo album rappresenta me stesso che affronto questo processo. Mi espongo fino al punto da non sentirmi più a mio agio,” afferma. “Ma penso che sia ok. Sono orgoglioso di essere un po’ più vulnerabile in questo album."
Ottavo album in studio per i SEETHERSi Vis Pacem, Para Bellum
è stato prodotto da Morgan e mixato da Matt Hyde (Deftones, AFI) a
Nashvile nei mesi di dicembre 2019 e gennaio 2020. In questo nuovo album
è presente il nuovo membro Corey Lowery (ex
chitarrista e cantante dei Saint Asonia e Stuck Mojo), amico di Morgan
da 16 anni, nonchè assistente nella produzione del disco. “Corey ha molta esperienza ed è anche un grande chitarrista; è il fratello più grande che non ho mai avuto,” aggiunge Morgan.
La sezione ritmica dei SEETHER è formata dal membro fondatore e
bassista Dale Stewart e dal batterista John Humphrey (che si è unito
alla band nel 2003).
In Si Vis Pacem, Para Bellum
Morgan porta la sua sensibilità cantautorale ai groove heavy rock della
band. Ispirandosi all’oscurità e alla franchezza cruda del grunge, al
punk underground e al metal sud africano con i quali Morgan (e Stewart)
sono cresciuti, il mix sonoro dei SEETHER è inconfondibile e senza tempo.
Il primo singolo estratto “Dangerous” si fa subito notare. Mentre la band preferisce lasciare “Dangerous” aperto alle interpretazioni, il testo “It’s so dangerous all this blamelessness / and I feel like I lost all the good I’ve known” è un’accusa generale alla società. In “Beg”, Morgan urla “See hope fading out of your eyes / This time the pain is going to feel unreal.” I testi di Si Vis Pacem, Para Bellum sono brutali e bellissimi e infondo a questi brani un’urgenza catartica come in “Failure”: “I live my life like a broken-hearted failure / I’m trying to shed some light on the scars left by the razors.”
I
Cornershop si formano a Leicester, anche se i membri, in realtà, sono
originari della vicina Wolverhampton. E’ il 1992, quando i fratelli
Tjinder (voce) e Avtar (basso) Singh e David Chambers (batteria) escono
dalla line up dei General Havoc e danno vita a un nuovo progetto (a loro
si unirà anche il tastierista e chitarrista Ben Ayres).
L’idea
che sta alla base della loro musica è semplice ma estremamente
suggestiva: ibridare il pop rock di matrice britannica che imperversa in
quegli anni con il folk indiano, utilizzando ritmiche dance a fare da
collante. L’intento è musicale, certo, ma anche interculturale: dare
voce e visibilità alla nutrita comunità indiana che vive in Gran
Bretagna e tracciare una strada festaiola e divertita per la convivenza
fra giovani di estrazione etnica tanto diversa.
Un sodalizio India/Inghilterra che parte con tre dischi (Elvis Sex Change del 1993, Hold On It Hurts del 1994 e Woman’s Gotta Have It
del 1995) molto interessanti in prospettiva, un po' acerbi, ma
frizzanti e spassosi. Il botto, quello vero, i Cornershop lo fanno,
però, nel 1997 con la pubblicazione di When I Was Born For The 7th Time capolavoro di meticciato, trainato da un singolo bomba come Brimful Of Asha.
E’ questa canzone la chiave per aprire le porte del successo e per
ritagliarsi un angolo di fama nel composito panorama britannico
dell’epoca. Primitiva nella sua essenzialità, ballabile e contagiosa, Brimful Of Asha
si piazza al sessantesimo posto nelle chart britanniche, ma possiede la
forza per trainare il disco, di cui è la seconda traccia, fino alla
diciassettesima piazza, conferendo alla band lo status, tanto caro agli
inglesi, di “next big thing”. Sarà poi un remix dell’ex
Housemartins, Fatboy Slim, pubblicato l’anno successivo, ha consegnare
la canzone al successo planetario e alla storia.
When I Was Born For The 7th Time non è, però, solo Brimful Of Asha:
le quindici canzoni in scaletta sono un equilibrato compendio di pop e
musica indiana, di rumori, campionamenti e melodie anni ‘60, tutte
brillanti, fresche e ispiratissime.
L’ipnotica raga dance We’re In Yr Corner, il groove irresistibile di Good Shit, l’extrasistole funky di Funky Days Are Back Again, il pop stravagante e acchiappone di Sleep On The Left Side, il sincretismo straniante di Candyman, che fonde blues e dance, e l’irriverente cover di Norvegian Wood
dei Beatles, spinta fino a confini più estremi dell’India, sono numeri
da fuoriclasse che plasmano la materia con consapevolezza assoluta.
Una
formula, quella dei Corneshop, che, nonostante sia stata intervallata
da lunghi iato, resiste all’usura del tempo, dal momento che è
recentissima l’uscita del nuovo album, England Is a Garden. Mancano l’effetto sorpresa e le intuizioni brillanti contenute in When I Was Born For The 7th Time, ma la proposta rimane insolita, divertente e divertita.
THE FLAMING LIPS annunciano il nuovo album AMERICAN HEAD in uscita l’11 settembre su Bella Union [PIAS].
L’album è composto da 13 brani dalle atmosfere cinematografiche, prodotte dal collaboratore di lunga data Dave Fridmann e dai The Lips. Tra questi troviamo “God and the Policeman” che vede ai cori la superstar country Kasey Musgraves. Come mostrato in anteprima con la pubblicazione di “Flowers Of Neptune 6”, AMERICAN HEAD affronta un salto temporale che occupa uno spazio simile a quello di The Soft Bulletin o Yoshimi Battles The Pink Robots e possiamo considerarlo il loro lavoro più bello e organico di sempre. La band condivide oggi il video per “My Religion Is You”.
AMERICAN HEAD vede The Flaming Lips muoversi in spazi maggiormente riflessivi dal punto di vista testuale, così come spiega Coyne in un lungo racconto sull'album. Leggi un estratto:
“Anche
se The Flaming Lips sono originari dell’Oklahoma, non abbiamo mai
pensato di essere una band AMERICANA. Crescendo in Oklahoma (avevo più o
meno 6 o 7 anni) non sono mai stato influenzato, e non conoscevo
musicisti dell’Oklahoma. Ascoltavamo per lo più i Beatles e mia madre
amava Tom Jones (parliamo degli anni ‘60)...solo dopo aver compiuto 10 o
11 anni, i miei fratelli più grandi iniziarono a conoscere qualche
musicista della zona.
Quindi...per
la maggior parte della nostra vita musicale, abbiamo pensato a noi
stessi come una band che veniva dalla ‘terra’...non ci importava davvero
da DOVE venivamo. Quindi per la prima volta nella nostra vita musicale
iniziammo a pensare a noi stessi come ‘UNA BAND AMERICANA’… dicendo a
noi stessi che sarebbe stata la nostra identità per la prossima
avventura creativa. Diventammo un ensemble di 7 musicisti e iniziammo a
sentire sempre più affinità con le band formate da tanti membri.
Inziammo a pensare a band americane come The Grateful Dead e Parliament-
Funkadelic e a come avremmo potuto abbracciare questa nuova idea.
La
musica e i brani contenuti in AMERICAN HEAD si basano su un sentimento.
Un sentimento che, penso si possa esprimere solo attraverso la musica e
le canzoni. Durante la scrittura dell’album, stavamo cercando di NON
ascoltarlo in quanto suono...ma di percepirlo. Il sacrificio della
madre, l’intensità del padre, la follia del fratello, la ribellione
della sorella...non riesco davvero a trovare le parole.
Qualcosa
cambia e gli altri (i tuoi fratelli e le tue sorelle, tua madre e tuo
padre...i tuoi animali domestici) iniziano a diventare sempre più
importanti per te...all'inizio ci sei solo tu...e tuoi
desideri sono tutto ciò di cui ti importa...ma...qualcosa
cambia...penso che tutte queste canzoni parlino proprio di questo
piccolo cambiamento.”