martedì 21 luglio 2020

CHIUSO PER FERIE



Il killer, come ogni anno, si prende qualche giorno di ferie. Riapriremo i battenti ad agosto. Buone vacanze a chi va e buona continuazione a chi resta.
A presto!

Blackswan, martedì 21/07/2020

lunedì 20 luglio 2020

THE JAYHAWKS - XOXO (Sham, 2020)

Mark Olson, si sa, se n’è andato, e la dipartita sembrerebbe definitiva, anche se in passato, a onor del vero, si era già allontanato dalla band, per farvi poi inaspettatamente ritorno (per contribuire alla stesura di quel gioiellino intitolato Mockingbird Time - anno domini 2011). Una separazione quella tra Olson e Louris, l’altro titolare del marchio Jayhawks, che ha messo fine a una delle coppie più prolifiche degli anni ’90, quella che, per intenderci, aveva dato i natali a due gioielli di alt country quali Hollywood Town Hall (1992) e Tomorrow The Green Grass (1995), capitoli imprescindibili della storia musicale americana del decennio.
La mazzata avrebbe fatto affondare la nave Jayhawks, se Louris, a dispetto di tutto, non avesse preso saldamente in mano il timone e avesse tenuto in vita, tra alti e bassi, una band che sembrava destinata a sparire dai radar. XOXO (baci e abbracci) esce a distanza di due anni da Back Roads and Abandoned Motels e a quattro da Paging Mr. Proust, due dischi di buona fattura, che se da un lato mettevano in mostra il songwriting (prevalentemente) ispirato di Louris, dall’altro segnavano inevitabilmente la differenza qualitativa tra i Jayhawks con Olson e quelli senza.
La stessa cosa succede per questo nuovo lavoro, in cui Louris ha dato spazio ai fidi sodali Marc Perlman (basso), Karen Grotberg (voce e tastiere) Tim O’Reagan (batteria), che si sono cimentati nella composizione dei brani. Il risultato, come per i due predecessori è più che discreto, anche se, a ben vedere, in alcuni frangenti (Ruby, Illuminate), la scrittura palesa perdita di smalto ed evidenzia momenti di stanchezza, tipica di chi si limita a fare il compitino senza troppa convinzione.
Certo, non mancano episodi notevoli, di quelli che nel tempo ci hanno fatto innamorare perdutamente della band. This Forgotten Town è il classico gioiellino Jayhawks rilucente di melodia cristallina, Dogtown Days mostra il lato più rock del gruppo, sfoggiando un cazzutissimo riff stonesiamo, e il piano blusey di Living In a Bubble regala ai fan una di quelle canzoni che si trasformano in istant classic fin dal primo ascolto. Gli intrecci vocali, come sempre calibrati e fascinosi, impreziosiscono Homecoming, che diversamente sarebbe suonata un po' sciapa, mentre la straordinaria linea di basso e il ritornello beatlesiano fanno di Little Victories uno dei brani migliori del lotto.
La trasognata morbidezza di Looking Up Your Number chiude benissimo un disco non tutto al livello qualitativo dei brani citati, anche se, ben inteso, non c’è nulla davvero da buttare. Semplicemente, in scaletta ci sono canzoni poco incisive, prive di quella luce e di quei colori che da sempre caratterizzano le cose migliori dei Jayhawks. Nel complesso, però, XOXO, pur senza incantare, tiene bene alla distanza e si fa ascoltare con piacere. Tre brani in più (discreti) nella versione deluxe.

VOTO: 6,5





Blackswan, lunedì 20/07/2020

venerdì 17 luglio 2020

PAUL WELLER - ON SUNSET (Polydor, 2020)

La lunga carriera di Paul Weller, dai Jam fino a quest’ultimo On Sunset, è sempre stata caratterizzata da una disarmante regolarità, un disco via l’altro, intervallati da pause al massimo di tre anni. Il songwriter di Woking è guidato evidentemente da un’inesausta ispirazione, con cui talvolta ha spostato il baricentro della propria narrazione (il penultimo True Meanings del 2018), rimanendo però fedele a se stesso e mantenendo pressoché invariata la qualità della proposta.
Superata di slancio la boa dei quarant’anni di carriera e giunto al quindicesimo album in studio, Weller continua a di mostrare una classe infinita e una capacità di scrittura sopraffina. In tal senso, On Sunset confeziona elegantemente in dieci canzoni l'essenza del Weller pensiero, con una forbice stilistica che parte dall’avventura eighties con gli Style Council fino ad arrivare alla delicatezza intimista del già citato True Meanings.
E’ un Weller rilassato, ma non appagato, quello cogliamo nelle dieci canzoni dell’album, che maneggia con sapienza da venerato maestro la consueta materia soul pop, con vista sugli anni ’60, scossa, talvolta, da un mai sopito ardore rock e da una propensione naturale per la declinazione psichedelica.
In tal senso, la splendida apertura di Mirror Ball è un sorta di zibaldone dei pensieri musicali che affollano la testa dell’ex Jam: il velluto orchestrale e sixties dell’incipit, il senso della melodia che ti cattura con una sola strofa, la consapevolezza per il soul e per la ritmica che pochi possiedono, la capacità di rendere un brano lineare in qualcosa di più complesso e seducente. Pochi bianchi al mondo, poi, sanno divertire con dei r’n’b così clamorosamente vintage e prevedibili (Baptiste) che però ti acchiappano al volo con l’immediatezza del pop più ruffiano, o, per converso, sanno declinare l’antico verbo funk una visione moderna e spolverata di elettronica (Old Father Tyme).
Numeri da autentico guru, che aprono un disco capace di conquistare anche con la retromania alla Style Council di Village (c’è Mike Talbot all’hammond) e col deragliamento jammistico della favolosa More (che arrangiamenti!), pronta per essere l’abbrivio all’improvvisazione per i futuri concerti, oppure sedurre con i languori dandy della title track, lo sguardo pacificato e sereno verso il sole che tramonta lontano, accarezzandoci il viso con la prima brezza della sera.
Il disco, pur mantenendo integra la propria eleganza formale, cala leggermente nella seconda parte, che risulta meno ispirata, con due episodi piacevoli ma tutto sommato prescindibili (Equanimity e Walkin), con Earth Beat, altro gioiellino alla Style Council, preso in prestito dallo scrigno dei ricordi e lucidato con un po' di elettronica, e con Rockets, ballatona avvolta in una languida e melodrammatica coltre d’archi.
Nella versione deluxe ci sono cinque brani in più (degna di nota I’ll Think Of Something) che però non aggiungono nulla alla sostanza di un disco centrato e splendidamente suonato, che, a dispetto del titolo, testimonia di un livello d’ispirazione ben lontano dalle ombre del tramonto.

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 17/07/2020

giovedì 16 luglio 2020

PREVIEW




Gli IDLES condividono il nuovo singolo “A Hymn”, il pezzo più emotivo del nuovo album della band di Bristol Ultra Mono in uscita il 25 settembre su Partisan. Il video che lo accompagna, vede la band guidare con le proprie famiglie per le vie della loro città natale, documentando la vita grigia dei sobborghi inglesi che perfettamente coincide con le atmosfere cupe del brano. Guarda il video diretto da Ryan Gander a fondo pagina.

Riguardo al brano il frontman Joe Talbot afferma: “A Hymn è un inno che gioisce del virus sinistro e necrotizzante del mediocre. È il suono dei denti che affondano nel tuo collo mentre ti alzi nel sonno con gli occhi aperti. Amen.”
“A Hymn” segue la pubblicazione dei precedenti singoli “Mr. Motivator” e “Grounds,” l’ultimo dei quali è stato apprezzato dal NY Times che ha scritto: “Cosa dovrebbe fare una band post-punk britannica durante il periodo di proteste afroamericane scoppiate in questi giorni in tutto il mondo? Farsi sentire e mostrare solidarietà.”
Il 29 e 30 agosto gli IDLES ospiteranno tre concerti dal vivo in uno studio iconico (che sarà annunciato in seguito), che saranno registrati, filmati e trasmessi in streaming. All’acquisto del biglietto, i partecipanti riceveranno un link unico per accedere allo spettacolo.
Talbot ha recentemente lanciato BALLEY TV, un nuovo talk show virtuale che per tutta l’estate svelerà un nuovo episodio ogni venerdì. Gli ospiti sono Mike Skinner (The Streets), Nadya Tolokonnikova (Pussy Riot), Lauren Mayberry (CHVRCHES), Hak Baker e molti altri.

Registrato a Parigi e prodotto da Nick Launay (Nick Cave, Yeah Yeah Yeahs, Arcade Fire) e Adam ‘Atom’ Greenspan (Anna Calvi, Cut Copy), con l’aggiunta di ulteriori effetti di Kenny Beats (FKA Twigs, DaBaby, Vince Staples), il suono di ‘Ultra Mono’ è stato costruito per catturare il feeling di un album hip hop. Attraverso le dodici tracce brutalmente rilevanti, la band raddoppia gli scherni al vetriolo e i commenti sociali presenti nei lavori passati affrontando temi di presenza attiva, inclusività, classe sociale, disuguaglianza di genere, nazionalismo, comunità e mascolinità tossica, che rimangono sempre più attuali. ‘Ultra Mono’ include la voce di Jehnny Beth (Savages), e i contributi di ospiti come Warren Ellis (Nick Cave and the Bad Seeds), David Yow, e Jamie Cullum.





Blackswan, giovedì 16/07/2020

mercoledì 15 luglio 2020

SYSTEM OF A DOWN - CHOP SUEY! (American Recordings, 2001)



Il 4 settembre del 2001 esce Toxicity, secondo album dei System Of A Down, e per Tankian e soci è la consacrazione universale, che li porta a conquistare ben otto dischi di platino. A diciannove anni dalla sua pubblicazione, Toxicity può essere considerato a buon diritto uno dei grandi classici della "letteratura " rock (metal) del nuovo millennio.
Nonostante il secondo album dei SOAD appartenga per filiazione al movimento Nu Metal, di cui rappresenta il vertice stilistico in condominio al primo, imprescindibile lavoro dei Korn, è vero anche che la freschezza creativa, le intuizioni compositive e l'immenso lavoro di raccordo fra diverse sonorità, partorito dal binomio Tankjan-Malakian, riuscirono a imporre all'attenzione del grande pubblico un'idea di musica capace di scardinare i paletti del genere e universalizzare il verbo metal.

Quattordici canzoni di breve-media durata (tutte sotto i quattro minuti a eccezione della conclusiva Aerials ) connotate da uno stile di straniante efficacia, riconoscibile per una dicotomia spesso convergente fra esplosioni di adrenalinica violenza e aperture melodiche di inaspettata malinconia. Un caleidoscopio sonoro, quindi, in cui convivono sotto lo stesso tetto, e in bizzarra simbiosi, le avanguardie estreme della new wave metal, improvvise derapate hip-hop, affascinanti suggestioni etniche in salsa armena (la coda strumentale della già citata Aerials) e strutture a incastro, votate a un gusto teatrale a metà fra l’assurdo e il grandguignol.
In questo quadro di debordante eclettismo (in cui mette mano in maniera efficace il geniale produttore Rick Rubin), dominano il colore rosso intenso del canto istrionico di Tankjan, la cui voce nasale e rutilante passa con inquietante semplicità dall'urlo belluino al falsetto dai toni melodrammatici, e il sinistro scintillio della chitarra tossica e demoniaca di Malakian.
Toxicity si sviluppa nell'arco di quarantacinque minuti che non lasciano spazio a riempitivi o passi falsi, denotando semmai una coesione qualitativa che permea ogni singola traccia del disco. Tra i tanti brani che meriterebbero una citazione, la centrale Chop Suey!,  probabilmente il brano più famoso della band, è la pietra angolare per comprendere quanto la musica dei SOAD sia difficilmente etichettabile, coacervo sferragliante di opposte intuizioni, punto di collisione fra inconciliabili moti dell’anima.
Da un lato, la matrice hip hop, destrutturata e schizoide e il fragore assordante di una rabbia belluina, dall’altro, una linea melodica nitida e un ritornello di inesplicabile lirismo. Un pezzo strutturato mirabilmente, con tre chitarre (una acustica e due elettriche) che aprono sostenendo un crescendo ritmico vertiginoso, le bordate metal rap, la sospensione melodica, il ritornello sofferto, i repentini cambi tempo, il continuo alternarsi fra noise e melodia, un lick pianoforte che, nel finale, compare in sottofondo a rimarcare la dolente epica del brano.
Chop Suey! non è una ballata, eppure riesce a suggerire malinconia e tristezza, merito anche di liriche incentrate sul tema della morte e del suicidio. Il chitarrista Daron Malakian in un’intervista ebbe modo di spiegare: “La canzone parla di come siamo considerati a seconda del modo in cui muoriamo…tutti dobbiamo morire, ma se ora dovessi morire per abuso di droga, potrebbero dire che me lo sono meritato perché ho abusato di droghe pericolose”.
La canzone, originariamente, era intitolata "Self-Righteous Suicide", ma la Columbia Records costrinse la band a cambiarla per evitare polemiche. Il titolo ufficiale è quindi il risultato di un gioco di parole basato sull’assonanza: da Self Right Suicide a Self-Right(Chop Suey)cide. Il consueto ricorso all’assurdo (Tankjan in tal senso è un maestro) per mitigare la provocazione (ma se fate attenzione nell’introduzione al brano la parola suicide viene comunque pronunciata, così come nel testo).
Un’ultima curiosità: per accentuare la carica mistica del brano, nel testo compaiono anche due passaggi tratti dal Vangelo: «Father, into your hands I commend my spirit» e «Father, why have you forsaken me?». Le ultime parole di Gesù prima di morire sulla croce.





Blackswan, mercoledì 15/07/2020

martedì 14 luglio 2020

PREVIEW



"Song For Our Daugher",  il nuovo album di Laura Marling, sarà finalmente disponibile in CD e LP dal 24 luglio su Chrysalis/Partisan, distribuzione Self.

Pubblicato a sorpresa lo scorso aprile, durante il periodo di lockdown, solo sulle piattaforme digitali, il settimo album solista di Laura Marling è stato registrato con il produttore Ethan Johns.
Riguardo al nuovo album, Laura ha affermato:
“Il nuovo album Song For Our Daughter esce questa settimana, prima del previsto. Visto il momento che stiamo affrontando non vedo perchè posticiparlo, potrebbe intrattenere e dare un certo senso di unione e partecipazione.
È strano vedere gli aspetti della nostra vita quotidiana dissolversi lasciando solo l’essenziale; coloro che amiamo e per cui ci preoccupiamo. Un album spogliato di tutto ciò che la modernità e la proprietà causano, è essenzialmente un pezzo di me e vorrei che voi lo aveste. Vorrei che voi ascoltaste una strana storia sull’esperienza frammentaria e insensata del trauma e una richiesta di capire cosa significa essere una donna in questa società. Adesso quando lo riascolto, lo capisco di più di quando l’ho scritto. La mia scrittura, come sempre, era avanti mesi, anni rispetto alla mia mente. Era tutto lì sin dall’inizio, guidandomi dolcemente attraverso il caos della vita. E ciò descrive il sentimento dietro all’album – come potrei guidare mia figlia, prepararla alla vita e a tutte le sue sfaccettature? Sono più grande ora, grande abbastanza da avere una figlia e sento la responsabilità di difendere La Ragazza. La Ragazza che potrebbe essersi persa, strappata all’innocenza prematuramente o distrutta da forze che dominano la società. Voglio supportarla sussurrandole all’orecchio tutta la sicurezza e l’affermazione che ho trovato difficile procurare a me stessa. Questo album rappresenta quello strano sussurro, un po’ distorto, un po’ fuori sequenza, come la vita.”





Blackswan, martedì  14/07/2020

lunedì 13 luglio 2020

A.A. WILLIAMS - FOREVER BLUE (Bella Union, 2020)

Gli studi classici da bambina, l’innamoramento per i Deftones e il metal più estremo, una chitarra trovata per strada, le prime composizioni, un omonimo Ep e, poi, il salto di qualità, con un vinile 10” intitolato Exit In Darkness e composto in collaborazione con la band giapponese di post rock dei Mono.  Sono queste le tappe della breve carriera di A.A. Williams, giovane londinese che con Forever Blue, esordio pubblicato via Bella Union, si cimenta finalmente sulla lunga di stanza.
Otto canzoni per quaranta tre minuti di lunghezza, in cui la giovane songwriter mette a frutto i suoi studi e la passione per il rock più sperimentale. Fin dal primo ascolto del disco, infatti, si colgono influssi di band quali i citati Mono, i Rachel’s, gli Explosions In The Sky, i Sigur Ros e i Cult Of Luna, ricollocati in un contesto sonoro in cui emergono anche tessiture di classica contemporanea e aperture a un folk livido e crepuscolare. Sarebbe però assai riduttivo inquadrare questo esordio attraverso le sue fonti d’ispirazione: nel disco, infatti, emerge tutto il talento di una giovane artista che scrive grandi canzoni e ha tante cose da dire attraverso la propria originale visione artistica.
Forever Blue è in primo luogo la rappresentazione perfetta della drammatica liturgia dei nostri tempi, la spettrale fotografia di un mondo alla deriva e senza speranza, un epicedio sulle macerie di un’umanità destinata a un lento viaggio verso la profondità degli inferi. Su tutto regnano tanatos e un senso incombente di afflizione e di resa, le atmosfere sono cupe e sprofondate nell’ombra, e i rari momenti di estasi sono un fugace sguardo che tende all’assoluto.
La struttura dei brani è quella classica del post rock: trame melodiche intrecciate lentamente, una fase centrale di stasi contemplativa e quindi il ricorso al climax per creare un effetto di progressione che enfatizzi il tema melodico suggerito all’inizio.
Il disco si apre con All I Asked For (Was It To End), ballata per piano e voce dall’impianto molto classico, che lentamente acquisisce maggior respiro attraverso un arrangiamento d’archi, il raddoppio della voce e il tetro metronomo della batteria. Un brano malinconico e pregno di afflizione, come evidenziato dallo splendido video che accompagna la canzone: la morte come dissolvimento materiale e ritorno all’humus della terra, la carne che torna a essere parte del tutto, in una rappresentazione sonora che evoca i versi di Sylvia Plath di Io Sono Verticale. Una canzone che è il punto di partenza per tracciare la perfetta circonferenza di un cerchio che si chiude con la delicatezza vaporosa della conclusiva I’m Fine, ballata per pianoforte e voce, accarezzata da un languido violoncello e attraversata da un esile raggio di sole evocato nel cinguettio finale degli uccelli.
All’interno di questo percorso circolare, aperto e chiosato dai due momenti più “leggeri” del disco, si sostanzia una parte centrale in cui si raggrumano tensione e drammaticità. Il basso che apre Melt sono passi nel cuore della notte maligna e dissonante, la voce della Williams è una corda tesa nell’abisso tremante, che si spezza poi, nel battente sconquasso che chiosa il brano in un crescendo di pathos tanto caro ai Sigur Ros. Il lamento e la lentezza esasperata di Dirt, cantata in duetto con Tom Fleming dei One True Pairing, sanno di terra brulla e riarsa, di sogni spezzati e di desolazione senza fine. La stessa desolazione che attraversa Fearless, sprofondo definitivo nelle viscere della terra, che suona come un’illustrazione dell’inferno dantesco fatta da Gustave Dorè. Una canzone di una mestizia infinita, romantica rappresentazione di un mondo ultraterreno che altro non è se non la fotocopia della realtà, qui enfatizzata dal tocco orrorifico del growl di Johannes Persson dei Cult Of Luna, presente come ospite.
Suona grave e disperata anche Glimmer, la cui melodia di bellezza spettrale è schiacciata dal peso di un cielo plumbeo e senza stelle, mentre il cantato austero, quasi ieratico della Williams in Love And Pain, imprigionato dai magli di un basso metallico e arcigno, trova sfogo in un crescendo a volute che vibra di ascensione mistica.
Prima del finale c’è spazio per la malinconia senza appello di Wait, extrasistole di un cuore sul punto di spezzarsi in un’ipnotica spirale discendente che trasfigura la speranza in una pallida chimera. Su tutto incombe, pervasivo, un senso di imminente e devastante tragedia.
Forever Blue è al momento il miglior esordio dell’anno, un disco complesso e fascinoso, contornato da una tristezza che non evapora nemmeno di fronte ai rilucenti colori e alla frivolezza che accompagnano l’estate. Un ascolto che, proprio per questo, si fa straniante, un po' come ascoltare Pornography dei Cure sotto l’ombrellone a Riccione: la pece nera di un dolore interiore e tangibile prende forma sotto l’azzurro cristallino del cielo. Ciò non toglie nulla alla bellezza di un disco destinato a essere annoverato fra le cose migliori di questo 2020. E sarà bello riascoltarlo quando fuori tutto sarà pioggia, nebbia e oscurità, e l’autunno saprà regalare nuove sfumature a queste otto, bellissime e disperate canzoni.

VOTO: 9





Blackswan, lunedì 13/07/2020

sabato 11 luglio 2020

BLACK CAT BONE - TRUTH (Chameleon Records/Elektra, 1992)

Anno magico, il 1992, con tante uscite discografiche importanti ed emblematiche del suono allora in voga e di quello che, da lì a poco, prendere consolidata forma. E’, infatti, l’anno della techno ambient ipnotica di Selected Ambient Works 85-92 degli Aphex Twin, dell’alternative lo-fi sporco e grezzo dei Pavement di Slanted And Enchanted, del militante metal rap dei Rage Against The Machine e del loro infuocato esordio, del capolavoro grunge a tinte metalliche del leggendario Dirt degli Alice In Chains.
Decisamente contro tendenza rispetto alle mode del momento è, invece, l’esordio dei Black Cat Bone, power trio americano, proveniente dal Kentucky. Composta dal chitarrista e cantante David Angstrom, dal bassista Mark Hendricks e dal batterista Jon McGee, la band, che visse una stagione brevissima, fu oggetto di culto di una ristrettissima cerchia di fan, nonostante quel nome, Black Cat Bone, evocasse immediatamente i ben più famosi Black Cat Bones di Paul Kossoff, band londinese di blues rock operativa a Londra alla fine degli anni sessanta e dalla cui costola, poi, nasceranno i Free.
Truth fu un esordio, come si diceva, controcorrente rispetto all’allora panorama musicale, dal momento che i tre ragazzi del Kentucky andavano a rendere omaggio all’hard rock blues degli anni d’oro, citando a manetta veri e propri miti come Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Thin Lizzy, Free e ZZ Top. Da questi ultimi, i Black Cat Bone, ereditarono come surplus torridi accenti sudisti, ma la proposta rispetto alle fonti d’ispirazione era decisamente più dura, rumorosa, sferragliante, accelerata da un’urgenza quasi punk.
Riff trucidi, assoli letali come un lanciafiamme in un campo di grano, e una sezione ritmica vibrante, inesausta e martellante, con il basso talvolta slappato, rendevano le dodici canzoni in scaletta un assalto sonoro selvaggio e senza compromessi. Un suono classico, certo, ma non frusto o anacronistico, dal momento che sotto l’armatura metal della band batteva un cuore in extrasistole funky, vero segno distintivo della proposta dei Black Cat Bone (emergono qui e là collegamenti con i coevi Living Colour).
Un disco lungo (un’ora secca di durata), sferragliante e votato al corpo a corpo, in cui i pochi attimi di sospensione vengono utilizzati come blocchi di partenza per impetuose e devastanti accelerazioni. Il riff zeppeliniano dell’iniziale The Epic Continues (con quel ritornello che è più Zep degli stessi Zep), la derapata funky di Dynamic (che incorpora citazioni sabbathiane), la ritmica furente e in levare di Be Like Me, i deragliamenti jammistici di Dream e della title track, l’hard blues micidiale di Too Cool/Shoe Shine sono sventagliate ad alzo zero che feriscono a morte e non lasciano scampo.
Un esordio fulminante e gagliardo, che apriva le porte a un futuro luminoso per un gruppo che andava, si, controcorrente, ma che sarebbe potuto arrivare ovunque, grazie alla potenza di tiro e a qualità tecniche di alto prospetto. Peccato che la storia della band finisca qui: David Angstrom, anima dei Black Cat Bone, molla il colpo e più tardi andrà a fondare un altro killer trio, i Supafuzz. Ma questa, come si suol dire, è tutta un’altra storia.





Blackswan, sabato 11/07/2020

giovedì 9 luglio 2020

TANA FRENCH - IL RIFUGIO (Einaudi, 2020)

Patrick Spain e i suoi due bambini vengono ritrovati morti in un complesso residenziale mezzo abbandonato per colpa della crisi. Jenny, la madre, è in fin di vita. All'inizio Mick «Scorcher» Kennedy, incaricato delle indagini, pensa alla soluzione più scontata: un padre sommerso dai debiti, travolto dalla recessione, ha tentato di uccidere i propri cari e si è tolto la vita. Ma ci sono troppi elementi che non quadrano: le telecamere nascoste nell'appartamento, i file cancellati su uno dei computer e il fatto che Jenny temesse che qualcuno fosse entrato in casa loro per spiarli. A complicare il quadro, c'è il quartiere in cui vivevano gli Spain - un tempo noto come Broken Harbour - che riporta a galla ricordi dolorosi del passato di Scorcher.

Broken Harbour, località costiera a più di un’ora di strada da Dublino, doveva essere il sito di una zona residenziale da favola, un complesso di villette per famiglie attrezzato di negozi, scuole, centro fitness, biblioteca. La promessa di un futuro radioso di fronte a un panorama da favola. Invece, la crisi, ha spazzato via i sogni di gloria e di benessere: il sito è in stato di abbandono, l’incuria le erbacce e la salsedine dominano incontrastate, e delle tante ville che si dovevano costruire ne sono state completate poche e con materiali scadenti.
In una di queste, vengono ritrovati i corpi di Patrick Spain e dei suoi due bambini. Assassinati. Jenny, la madre, viene tratta in salvo per il rotto della cuffia, ed è in ospedale a lottare tra la vita e la morte. L’indagine viene messa in mano a Mike Kennedy, detective irreprensibile, ma con un passato (e un presente) doloroso e ancora tutto da rielaborare, e alla giovane recluta Richie Currant, ragazzo dai modi dimessi e gentili.
I due, con uno strattagemma, arrestano subito un sospettato, il quale, messo alle strette, confessa l’efferato crimine. Tutto troppo semplice, però, così semplice che è evidente che qualcosa non quadri. Perché dietro l’apparente perfezione di una famiglia felice, dietro l’amore idilliaco che lega i coniugi Spain, emerge qualcosa di oscuro e poco chiaro: un fantomatico animale che si aggira rumorosamente nella soffitta di casa, strani buchi nei muri, del tutto inconciliabili con la perfetta pulizia dell’abitazione. Così, anche se il caso potrebbe essere immediatamente archiviato, i due detective continuano a indagare. Cosa è successo davvero agli Spain?
Tana French, pluripremiata scrittrice americana di origini irlandesi, costruisce con maestria un romanzo giallo dall’andamento molto classico, in cui all’azione, praticamente inesistente, sostituisce la pura indagine, la testimonianza delle persone informate dei fatti, il lavoro della polizia scientifica, il ragionamento deduttivo. Eppure, nonostante i ritmi compassati, il libro funziona alla meraviglia e il romanzo avvince dalla prima e ultima pagina, in un finale che forse non sorprende, ma che riesce a essere plausibile e sconvolgente.
Nelle seicentocinquanta pagine che compongo Il Rifugio, però, non è solo il delitto a essere protagonista: il detective Kennedy rivive il proprio passato (Broken Harbour era il luogo in cui la sua famiglia si receva in vacanza) e affronta i propri sensi di colpa, e la French si abbandona a riflessioni acute su giustizia, verità e funzione dell’indagine poliziesca. Un thriller scritto bene, lontano dalle banalità del genere, che vi terrà compagnia sotto l’ombrellone, e vi conquisterà senza mandare in vacanza anche i vostri neuroni.

VOTO: 7,5

Blackswan, giovedì 09/07/2020
 

mercoledì 8 luglio 2020

PREVIEW



Josiah Johnson – ex membro e fondatore dei The Head and the Heart – annuncia oggi il suo album di debutto solista Every Feeling On A Loop, in uscita il 04 settembre su ANTI-, distribuzione Self.
Nel nuovo singolo estratto “Nobody Knows”, Johnson canta perché le persone trovino il coraggio di condividere e ricevere le verità presenti nei loro cuori. I messaggi che canta, così come la sua essenza, sono una gradita boccata d’aria. “Buona parte della crescita documentata in questo album riguarda l'assumermi la responsabilità di come mi mostro al mondo e questa canzone parla proprio dell'assumermi la responsabilità di come mi prendo cura di me stesso", afferma Johnson. “Un parte della mia esperienza con la dipendenza è ben rappresentata dal fatto che nonostante stessi vivendo un brutto periodo, non stavo chiedendo l’aiuto di cui avrei avuto bisogno.”





Blackswan, mercoledì 08/07/2020

martedì 7 luglio 2020

NICOLE ATKINS - ITALIAN ICE (Single Lock, 2020)

Se il seducente Goodnight Rhonda Lee del 2017 è stato per Nicole Atkins una sorta di ritorno alla vita (non solo artistica), dopo un lungo e difficile periodo di dipendenze, questo nuovo Italian Ice aggiunge un ulteriore e fondamentale tassello alla crescita di una delle songwriter tra le più interessanti dell’ultimo decennio.
Registrato ai Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield, in Alabama, uno dei luoghi della memoria e patrimonio storico del rock statunitense, Italian Ice ha visto la Atkins fare le cose in grande, contornandosi di un nutrito gruppo di musicisti fuoriclasse (il tastierista Spooner Oldham e dal bassista David Hood, militanti nella Muscle Shoals Rhythm Section, il chitarrista Binky Griptite dei Dap-Kings, Jim Sclavunos e Dave Sherman dei Bad Seeds di Nick Cave e il batterista dei Midlake, McKenzie Smith) e di qualche ospite di lusso (Seth Avett degli Avett Brothers, Erin Rae e John Paul White), che hanno contribuito a definire ulteriormente uno stile già ben marcato nel capitolo precedente.
Sono undici le canzoni in scaletta, con cui la Atkins intesse, con eleganza e rigoglio di arrangiamenti, un coloratissimo melange di pop, soul, blues, funky e psichedelia: i piedi ben piantati nel presente, ma lo sguardo rivolto agli amati anni ’60 (che già erano la cifra stilistica che informava Goodnight Rhonda Lee) e in parte agli anni ’70. Modernità e vintage, dunque, per un disco che possiede un’ottima resa soprattutto se ascoltato in cuffia, in modo da cogliere sfumature, intuizioni e suoni che, arricchiscono un già di per sè intrigante paesaggio melodico.
Apre Am Gold, numero da vera fuoriclasse: un sognante drive di pianoforte (che evoca The Great Gig In The Sky dei Pink Floyd) conduce a un irresistibile groove funky soul che prende letteralmente il volo sulle ali della potente voce della Atkins e su quei coretti che fanno da giocoso contrappunto. Splendido incipit per un disco che prosegue giocando con la psichedelia nella trasognata Captain e nella baldanzosa Mind Eraser, che invita alla spensieratezza con il pop in chiave FM di Forever, che spinge sul dancefloor con la disco funk di Domino e che replica sornione un modulo r’n’b che sembra rubato a Mama Told Me Not To Come di Randy Newman (Never Going Home Again).
E poi, ci sono gli anni ’60, habitat naturale per la Atkins: l’intrigante melodia di St. Dymphna (il santo patrono delle sofferenze da afflizioni nervose e mentali), la languida svenevolezza di Far From Home, l’appassionata cover di Road To Nowhere, brano datato 1966 e preso dal repertorio di Carole King, e la breve ma splendida These Old Roses, con cui Nicole rende omaggio nuovamente a Roy Orbison, nume tutelare che aveva già ispirato alcuni dei momenti migliori di Rhonda Lee.
Di quel disco, Italian Ice è quasi una sorta di secondo capitolo, poiché attinge alle stesse influenze, allargandone però i confini. E’ egualmente potente, eppure meglio organizzato, meglio suonato e, in qualche modo più calibrato e consapevole. Cosa manchi a questa ragazza per diventare una stella di prima grandezza, non è dato sapere. La strada è comunque intrapresa e se, come ritengo, questa nuova fatica comparirà molto in alto nelle classifiche di fine anno, per la Atkins sarà forse il momento del definitivo grande salto. Non certo qualitativo (quello è già in atto), ma mediatico e commerciale.

VOTO: 8





Blackswan, martedì 07/07/2020

lunedì 6 luglio 2020

PREVIEW




BILL CALLAHAN annuncia il nuovo album GOLD RECORD, in uscita il 4 settembre su Drag City Records.
Per il suo primo disco in… beh, poco più di un anno, Bill Callahan ci regala un “disco d’oro”. Potremmo anche chiamarlo “dischi d’oro”: le canzoni sembrano tutte autonome, come se fossero singoli, in modo da poterle avvicinare profondamente, come se fossero tante relazioni, dall’inizio alla fine. E cosa ottieni quando hai un album fatto di singoli e, ammettiamolo, singoli da classifica? Ottieni un Gold Record, un disco d’oro.
Per Bill, prepararsi al tour di Shepherd In a Sheepskin Vest significava stare lontano da casa per lunghi periodi di tempo, mesi, stagioni, forse anche un anno intero, chi poteva saperlo? Percependo ciò, Bill tirò fuori dal suo taccuino alcuni schizzi e li terminò. Prima di rendersene conto, aveva un pugno di nuove canzoni.
È successo tutto in fretta. Le basi sono state registrate dal vivo, con Matt Kinsey alle chitarre e Jaime Zurverza al basso. Batteria e fiati sono stati aggiunti poi a un paio di tracce. Dei dieci brani, sei sono prime take e anche le sovraincisioni, dove necessarie, sono state fatte molto velocemente. Ascoltando il disco si nota una coesione intuitiva molto ricca, dietro la titanica voce di Bill: la gentile ma spiritata conversazione tra le chitarre di Bill e Matt, le sottili linee di basso, i ritmi della batteria e le bizzarrie della tromba, dei fiati e dei synth colgono note sorprendenti e discordanti come il suono naturale che accompagna ogni vita vissuta.





Blackswan, lunedì 06/07/2020

sabato 4 luglio 2020

ANA POPOVIC - LIVE FOR LIVE (Artistexclusive/AnaPopovicMusic, 2020)

A quarantaquattro anni, Ana Popovic è quel che si dice un’artista affermata: si è fatta un nome in ambito rock blues e si è creata, grazie a una già considerevole discografia, un seguito di fan appassionato e fedele. Chitarrista tecnica, ma non priva di una certa gagliardia espressiva, la musicista serba ha giocato negli anni con uno spettro di sonorità (rock, blues, jazz, soul) che ha saputo sempre maneggiare con autorevolezza, senza però mai tentare azzardi o aprirsi alla sperimentazione.
Si è sempre mossa, cioè, in una propria comfort zone, evitando di assumersi grandi rischi, e virando spesso verso certe patinature (immediatamente riconoscibili dalle copertine dei suoi album) che hanno sopito l’ardore, piegandolo a logiche più smaccatamente mainstream. Se in studio, i risultati sono stati altalenanti (l’ottimo e monumentale Trilogy del 2016, il prescindibile e mediocre Like It On Top di due anni fa), dal vivo, la Popovic ha sempre dato il meglio di sé, come se, fuori dagli angusti spazi della sala di registrazione, ritrovasse improvvisamente libertà espressiva e sacro fuoco.
Questo nuovo album è, in tal senso, la riprova di quanto la chitarrista sul palco riesca a esprimere le sue doti migliori, che, fortunatamente, non solo quelle di una tecnica indiscutibile. Registrato il 2 novembre del 2019, a Issoudun (Francia) presso il Centre Culturel Albert Camus, Live For Live fotografa una serata vibrante, in cui la passione e la propensione al groove si sposano con l’ottima performance della Popovic e di una fantastica backing band, composta per tre quinti da musicisti italiani (Michele Papadia alle tastiere, Davide Ghidoni alla tromba, Claudio Giovagnoli al sax), oltre a Buthel al basso e Jerry Kelley alla batteria.
Il risultato è un disco molto suonato, in cui tutti gli elementi della band si ritagliano momenti di assolo importanti, dando vivacità e colori all’esecuzione dei brani e alzando il livello tecnico della performance: se suonare tanto è un bene, suonare bene è meglio.
Ana guida le danze, cantando con mestiere in tutti i brani e accendendo la miccia alla sua esplosiva Fender: piede spesso schiacciato sul pedale wah wah, e profilo minimal durante l’esecuzione, salvo, poi, al momento giusto, prendersi gli spazi per impetuosi e ficcanti assolo. Tante note, ma mai sprecate, tanta grinta, velocità e tecnica.
Un live stilisticamente elegante, in cui la forma è sostanza, e la sostanza possiede l’impeto d’improvvisazione delle migliori jam band. Ogni brano in scaletta è vera goduria per le orecchie: dal groove funky delle infuocate Can You Stand The Heat e Fencewalk, ai fiati scintillanti in stile New Orleans di New Coat Of Paint, dal blues indemoniato e adrenalinico Can’t You See What You’re Doing To Me (Albert King) fino alle atmosfere sensuali e in punta di plettro della lunga, vibrante Johnnie Ray, è tutto un susseguirsi di emozioni, sudore, giocosa e divertente musica.
Se la Popovic riuscisse in studio a replicare anche solo la metà di questa pura energia che riesce a creare sul palco, avremmo dischi di caratura impressionante. Al momento, però, così non è, e ci tocca “accontentarci” di questo, che è uno dei migliori live pubblicati nel 2020.

VOTO: 8





Blackswan, sabato 04/07/2020

venerdì 3 luglio 2020

PREVIEW




Tre anni dalla publicazione dell’acclamato album Poison The Parish, la band multiplatino SEETHER annuncia l’atteso nuovo album Si Vis Pacem, Para Bellum in uscita il 28 agosto su Fantasy Records/Spinefarm. Tratto come “se vuoi la pace, preparati per la guerra,” l’album contiene 13 brani, un mix di euforia e tormento, senza dubbio il materiale più forte dell’illustre carriera dei SEETHER, tra cui il bellissimo e tormentato singolo “Dangerous” disponibile da oggi e accompagnato da un video creato dal regista turco Mertcan Mertbilek (Santana, Ray Charles, Ravi Shankar, Elvis Costello).
Questi brani sono stati creati per annidarsi nelle tue orecchie come un piccolo coniglio di velluto che stringe un coltello a serramanico,” afferma il leader Shaun Morgan. Questa franchezza coraggiosa tocca le corde musicali e liriche dei brani, esplorando ed eviscerando i demoni personali e culturali. “Questo album rappresenta me stesso che affronto questo processo. Mi espongo fino al punto da non sentirmi più a mio agio,” afferma. “Ma penso che sia ok. Sono orgoglioso di essere un po’ più vulnerabile in questo album."
Ottavo album in studio per i SEETHER Si Vis Pacem, Para Bellum è stato prodotto da Morgan e mixato da Matt Hyde (Deftones, AFI) a Nashvile nei mesi di dicembre 2019 e gennaio 2020. In questo nuovo album è presente il nuovo membro Corey Lowery (ex chitarrista e cantante dei Saint Asonia e Stuck Mojo), amico di Morgan da 16 anni, nonchè assistente nella produzione del disco. “Corey ha molta esperienza ed è anche un grande chitarrista; è il fratello più grande che non ho mai avuto,” aggiunge Morgan. La sezione ritmica dei SEETHER è formata dal membro fondatore e bassista Dale Stewart e dal batterista John Humphrey (che si è unito alla band nel 2003).
In Si Vis Pacem, Para Bellum Morgan porta la sua sensibilità cantautorale ai groove heavy rock della band. Ispirandosi all’oscurità e alla franchezza cruda del grunge, al punk underground e al metal sud africano con i quali Morgan (e Stewart) sono cresciuti, il mix sonoro dei SEETHER è inconfondibile e senza tempo.
Il primo singolo estratto “Dangerous” si fa subito notare. Mentre la band preferisce lasciare “Dangerous” aperto alle interpretazioni, il testo “It’s so dangerous all this blamelessness / and I feel like I lost all the good I’ve known” è un’accusa generale alla società. In “Beg”, Morgan urla “See hope fading out of your eyes / This time the pain is going to feel unreal.” I testi di Si Vis Pacem, Para Bellum sono brutali e bellissimi e infondo a questi brani un’urgenza catartica come in “Failure”: “I live my life like a broken-hearted failure / I’m trying to shed some light on the scars left by the razors.”





Blackswan, venerdì 03/07/2020

giovedì 2 luglio 2020

THE CORNERSHOP - WHEN I WAS BORN FOR THE 7th TIME (Wiiija, 1999)

I Cornershop si formano a Leicester, anche se i membri, in realtà, sono originari della vicina Wolverhampton. E’ il 1992, quando i fratelli Tjinder (voce) e Avtar (basso) Singh e David Chambers (batteria) escono dalla line up dei General Havoc e danno vita a un nuovo progetto (a loro si unirà anche il tastierista e chitarrista Ben Ayres).
L’idea che sta alla base della loro musica è semplice ma estremamente suggestiva: ibridare il pop rock di matrice britannica che imperversa in quegli anni con il folk indiano, utilizzando ritmiche dance a fare da collante. L’intento è musicale, certo, ma anche interculturale: dare voce e visibilità alla nutrita comunità indiana che vive in Gran Bretagna e tracciare una strada festaiola e divertita per la convivenza fra giovani di estrazione etnica tanto diversa.
Un sodalizio India/Inghilterra che parte con tre dischi (Elvis Sex Change del 1993, Hold On It Hurts del 1994 e Woman’s Gotta Have It del 1995) molto interessanti in prospettiva, un po' acerbi, ma frizzanti e spassosi. Il botto, quello vero, i Cornershop lo fanno, però, nel 1997 con la pubblicazione di When I Was Born For The 7th Time capolavoro di meticciato, trainato da un singolo bomba come Brimful Of Asha. E’ questa canzone la chiave per aprire le porte del successo e per ritagliarsi un angolo di fama nel composito panorama britannico dell’epoca. Primitiva nella sua essenzialità, ballabile e contagiosa, Brimful Of Asha si piazza al sessantesimo posto nelle chart britanniche, ma possiede la forza per trainare il disco, di cui è la seconda traccia, fino alla diciassettesima piazza, conferendo alla band lo status, tanto caro agli inglesi, di “next big thing”. Sarà poi un remix dell’ex Housemartins, Fatboy Slim, pubblicato l’anno successivo, ha consegnare la canzone al successo planetario e alla storia.
When I Was Born For The 7th Time non è, però, solo Brimful Of Asha: le quindici canzoni in scaletta sono un equilibrato compendio di pop e musica indiana, di rumori, campionamenti e melodie anni ‘60, tutte brillanti, fresche e ispiratissime.
L’ipnotica raga dance We’re In Yr Corner, il groove irresistibile di Good Shit, l’extrasistole funky di Funky Days Are Back Again, il pop stravagante e acchiappone di Sleep On The Left Side, il sincretismo straniante di Candyman, che fonde blues e dance, e l’irriverente cover di Norvegian Wood dei Beatles, spinta fino a confini più estremi dell’India, sono numeri da fuoriclasse che plasmano la materia con consapevolezza assoluta.
Una formula, quella dei Corneshop, che, nonostante sia stata intervallata da lunghi iato, resiste all’usura del tempo, dal momento che è recentissima l’uscita del nuovo album, England Is a Garden. Mancano l’effetto sorpresa e le intuizioni brillanti contenute in When I Was Born For The 7th Time, ma la proposta rimane insolita, divertente e divertita.





Blackswan, giovedì 02/07/2020

mercoledì 1 luglio 2020

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THE FLAMING LIPS annunciano il nuovo album AMERICAN HEAD in uscita l’11 settembre su Bella Union [PIAS]. 

L’album è composto da 13 brani dalle atmosfere cinematografiche, prodotte dal collaboratore di lunga data Dave Fridmann e dai The Lips. Tra questi troviamo “God and the Policeman” che vede ai cori la superstar country Kasey Musgraves. Come mostrato in anteprima con la pubblicazione di “Flowers Of Neptune 6”, AMERICAN HEAD affronta un salto temporale che occupa uno spazio simile a quello di The Soft Bulletin o Yoshimi Battles The Pink Robots e possiamo considerarlo il loro lavoro più bello e organico di sempre. La band condivide oggi il video per “My Religion Is You”.
AMERICAN HEAD vede The Flaming Lips muoversi in spazi maggiormente riflessivi dal punto di vista testuale, così come spiega Coyne in un lungo racconto sull'album. Leggi un estratto:
Anche se The Flaming Lips sono originari dell’Oklahoma, non abbiamo mai pensato di essere una band AMERICANA. Crescendo in Oklahoma (avevo più o meno 6 o 7 anni) non sono mai stato influenzato, e non conoscevo musicisti dell’Oklahoma. Ascoltavamo per lo più i Beatles e mia madre amava Tom Jones (parliamo degli anni ‘60)...solo dopo aver compiuto 10 o 11 anni, i miei fratelli più grandi iniziarono a conoscere qualche musicista della zona.
Quindi...per la maggior parte della nostra vita musicale, abbiamo pensato a noi stessi come una band che veniva dalla ‘terra’...non ci importava davvero da DOVE venivamo. Quindi per la prima volta nella nostra vita musicale iniziammo a pensare a noi stessi come ‘UNA BAND AMERICANA’… dicendo a noi stessi che sarebbe stata la nostra identità per la prossima avventura creativa. Diventammo un ensemble di 7 musicisti e iniziammo a sentire sempre più affinità con le band formate da tanti membri. Inziammo a pensare a band americane come The Grateful Dead e Parliament- Funkadelic e a come avremmo potuto abbracciare questa nuova idea.
La musica e i brani contenuti in AMERICAN HEAD si basano su un sentimento. Un sentimento che, penso si possa esprimere solo attraverso la musica e le canzoni. Durante la scrittura dell’album, stavamo cercando di NON ascoltarlo in quanto suono...ma di percepirlo. Il sacrificio della madre, l’intensità del padre, la follia del fratello, la ribellione della sorella...non riesco davvero a trovare le parole.
Qualcosa cambia e gli altri (i tuoi fratelli e le tue sorelle, tua madre e tuo padre...i tuoi animali domestici) iniziano a diventare sempre più importanti per te...all'inizio ci sei solo tu...e tuoi desideri sono tutto ciò di cui ti importa...ma...qualcosa cambia...penso che tutte queste canzoni parlino proprio di questo piccolo cambiamento.”





Blackswan, mercoledì 01/07/2020