Alla fine, quando forse anche il più ottimista dei fan non avrebbe scommesso un centesimo, il nuovo disco degli Ac/Dc è arrivato. Prima rumors, poi, voci sempre più insistenti, infine, il primo singolo, un imponente battage pubblicitario, e quindi, il 13 novembre, la pubblicazione di Power Up, diciassettesimo album in studio.
Data da molti per morta e sepolta, la band australiana, evidentemente immarcescibile e tetragona a ogni avversità, è riuscita nuovamente a stupire il proprio pubblico, nonostante le infinite traversie vissute dalla pubblicazione del penultimo, Rock Or Bust (2014). La morte di Malcom Young (sostituito dal nipote Stevie Young, ma comunque coautore dei brani in scaletta), i problemi con la giustizia di Phil Rudd e quelli con l’udito di Brian Johnson, l’abbandono di Cliff Williams (fortunatamente rientrato all’ovile), niente di tutto ciò ha impedito a una delle più devastanti macchine da guerra del rock’n’roll di tornare a comporre e a registrare.
Per parlare di questo nuovo Power Up, occorre, però, fare una necessaria premessa, che è poi la chiave di lettura per comprendere il senso di una carriera: qualunque cosa facciano gli Ac/Dc, il polverone mediatico è pazzesco, l’entusiasmo dei fan debordante. E la domanda, soprattutto alla luce di una carriera che dura da oltre quarantacinque anni e dell’età anagrafica dei componenti della band (tutti tra i sessantacinque e i settant’anni), è una sola: perché?
Artisticamente, questo nuovo Power Up è, come molti suoi predecessori, irrilevante. Se il sound della band australiana è stato incontestabilmente seminale, ispirando schiere di band che ne hanno raccolto l’eredità, i tempi in cui il loro hard rock suonava come una novità, forgiando album ispirati e votati alla leggenda, è passato da un bel po’.
Il gruppo capitanato da Angus Young, inutile girarci intorno, è uno dei più conservatori e tradizionalisti di sempre. Insensibili alle mode, alla tecnologia e al tempo che passa, gli Ac/Dc fanno da quasi cinquant’anni sempre lo stesso disco, a volte bene, altre male, altre così così. Power Up non tradisce l’assunto e in scaletta c’è esattamente tutto quello che ci si può aspettare dalla band di Highway To Hell: i soliti riff, gli stessi assolo adrenalinici, i consueti cori di rinforzo, la medesima possente sezione ritmica che martella in 4/4, l’inconfondibile ugola di Brian Johnson (che sembra, peraltro, non aver perso l’antico smalto).
La scaletta del disco, pur nella sua rigorosa coerenza stilistica, tirata a lucido dalla produzione pulita di Brendan O’Brien, procede altalenante, fra qualche colpo a vuoto (la mediocre Realize, la piaciona Through The Mist Of Time) e violente accelerazioni al fulmicotone che arrivano esattamente dove si sono prefissate di arrivare (Demon Fire, Shot In The Dark, Code Red), senza, però, che il tiro complessivo perda la sua forza d’impatto.
Insomma, headbagging e piedino che sbatte inesausto per terra sono garantiti. Niente di nuovo sul fronte occidentale, dunque, niente che non abbiamo già ascoltato tutte le volte che abbiamo messo sul piatto un album della band. E allora, perché noi, giovani e vecchi rocker, continuiamo a eccitarti ogni volta che vediamo quel logo e non possiamo fare a meno di comprare un disco degli Ac/Dc?
Una domanda a cui non esiste risposta, se la si cerca con la ragione. Col cuore, però, in modo confuso, possiamo dirlo. Possiamo dire che in queste canzoni, per quanto prevedibili, esiste ancora la forza primigenia del rock ‘n’roll, che è semplicità e urgenza. Possiamo dire che questo lato selvaggio, questo tirare dritto contro il vento che schiaffeggia la faccia, questo indomita baldanza che picchia, da mezzo secolo, con la stessa febbrile emozione, asseconda l’animo ribelle dei giovani e riporta i vecchi fan ai ricordi di gioventù. Questo rock è un rito che si rinnova, una fede che unisce, un anelito di ribellione, la condivisione di valori musicali autentici in un mondo che tende inesorabilmente all’artificio e alla massificazione delle emozioni.
C’è un vincolo indissolubile che lega gli Ac/Dc ai loro fan, e si chiama fiducia. Se continuate a crederci voi, lo faremo anche noi. Loro ci credono. Fanno sempre lo stesso disco, ma continuano a crederci. Da parte nostra, non resta altro che imbracciare la fiammeggiante air guitar e riffare gagliardi nel salotto di casa, fino a quando la cervicale regge.
It’s only rock ‘n’ roll, cantava qualcuno, ed il bello è proprio questo.
PS: dimenticavo il voto. Il critico dice 6, il fan 8. In medio stat virtus.
VOTO: 7
Blackswan, martedì 24/11/2020
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