Urban Hymns, terzo album in studio dei britannici Verve, è un capolavoro, lo sanno anche i sassi. Esce a fine settembre del 1997, in un momento in cui, in buona parte del mondo, imperversa quello che i libri di storia definiscono brit-pop. Alfieri del suono sono gli Oasis, i Blur, i Suede, i Pulp, oltre a uno stuolo di altre band meno famose (Strangelove, Travis, Embrace, etc), che contribuiscono, in egual modo, a dare linfa al fenomeno.
Il gruppo capitanato da Richard Ashcroft aveva già dimostrato di che pasta era fatto con il precedente A Norther Soul, una sorta di album preparatorio a Urban Hymns, contenente, comunque, alcune canzoni che non avevano nulla da invidiare al più celebre successore (Hystory, Life’s An Ocean, per citarne due).
Sono anni in cui la penna di Ashcroft, autore di quasi tutto il repertorio della band, sembra intinta in inchiostro divino, capace di levigare melodie destinate all’eternità. Basti pensare all’opener di Hurban Hymns, Bittersweet Symphony, che al netto delle beghe legali con gli Stones (per gli arrangiamenti d’archi che avvolgono sontuosamente il brano), si mangia le classifiche di mezzo mondo, viene inserito in colonne sonore di film, viene usato nella pubblicità e anche come sigla di programmi televisivi.
A prescindere da questa canzone immortale, però, Urban Hymns è tanto altro. Nelle tredici tracce in scaletta (più una fantasma, Deep Freeze)
confluiscono, in un disegno armonico senza sbavature, tutti i suoni del
decennio: pop, psichedelia, shoegazing, sventagliate rock, dolci
arpeggi di chitarra e digressioni ambient. Tredici inni urbani che
definisco uno stile e contornano definitivamente un suono, che solo due
anni più tardi cesserà di rappresentare il fulcro della scena musicale
mondiale, salvo essere, ma solo in parte, rivitalizzato da band
“ritardatarie” come Coldplay e Starsailors.
Se Bittersweet Symphony è il brano trainante del disco, The Drugs Don’t Work, il secondo singolo estratto, arriva a rimorchio, rinvigorendo il successo commerciale dell’album. La canzone è una ballata malinconica ai limiti della mestizia, un intreccio morbidissimo di chitarre e tastiere, su cui la voce di Ashcroft canta quello che, probabilmente, è il suo testo più autobiografico e sentito.
Il brano, infatti, venne composto all’inizio del 1995 (e poi, suonato più volte durante il tour di A Northern Soul) in un periodo in cui il cantante era in preda ad angoscia e depressione, e viveva male i rapporti all’interno della band. Per combattere l’inquietudine che lo divorava, Ashcroft faceva, quindi uso di droghe, ecstasy soprattutto, e farmaci antidepressivi come il prozac. Ciò nonostante, la situazione non sembrava migliorare, anzi. Ecco, dunque il perché del titolo, “le droghe non funzionano”.
Non solo. Il leader dei Verve ampliò il significato della canzone, dedicando parte del testo al padre malato, il quale per curarsi assumeva molti farmaci, che, però, non riuscirono a salvargli la vita. In quel verso toccante, “Now the drugs don't work They just make you worse But I know I'll see your face again”, è racchiuso il senso più intimo della canzone: la constatazione che le droghe e le cure non sempre aiutano a migliorare la vita, perchè se il destino è segnato, nulla potrà interromperne il cammino, e poi la speranza, una sorta d’invocazione con gli occhi rivolti al cielo, che si, (papà), un giorno rivedrò la tua faccia.
Originariamente, il verso “They Just Make You Worse” era stato concepito come “They Just Make Me Worse”; poi, Ashcroft, allo scopo di universalizzare il messaggio e consentire a tutti di dare una loro interpretazione alla canzone, sostituì "mi" con "vi", stemperando almeno un po' il significato fortemente autobiografico del testo. Non è un caso, dunque, che, essendo stato il singolo pubblicato il giorno dopo la morte della Principessa Diana, quella canzone, così triste, e quel verso, “I’ll See Your Face Again”, coagularono in note il lutto profondo e lo sgomento, che l’Inghilterra stava vivendo in quei giorni funesti.
Blackswan, mercoledì 25/11/2020
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