La musica è anche letteratura, si sa. E non mi riferisco solo a saggi o recensioni, ma a storie, alcune palesemente false, altre incredibilmente vere. Ad esempio: vi ricordate di Terry Dolan e del suo bellissimo disco tenuto nel cassetto per più di quarant’anni? O di Sixto Rodriguez e del successo inconsapevole delle sue canzoni? Ecco, a queste due storie, entrambe vere, anche se apparentemente incredibili, aggiungeteci quella di Ike White, un musicista straordinario del quale, per decenni non si è saputo nulla, fino a quando, lo scorso anno, il regista inglese Dan Vernon ha deciso di fare un docu-film sulla sua vita.
Una storia che sembra un romanzo, emozionante, palpitante e punteggiato da continui colpi di scena.
Chi era Ike White? Un ragazzo di colore, di cui si conosce poco, ma di cui si può immaginare una vita ai margini, complicata da una predisposizione a delinquere, visto che, unico dato certo della prima parte della sua esistenza, viene arrestato a 19 anni per omicidio e condannato all’ergastolo. Omicidio volontario? O, come sosteneva Ike, un colpo di pistola, partito accidentalmente durante una rapina? Vallo a sapere. Di certo, c’è solo un ragazzo adolescente che viene rinchiuso in carcere e che, appassionato di musica, inizia a comporre canzoni con il suo compagno di cella.
Il caso vuole che la storia di Ike e del suo talento arrivi alle orecchie di Jerry Goldstein, produttore e manager che sta dietro a gente di peso, gente come Jimi Hendrix e i War, tanto per citarne un paio. Goldstein decide di andare in carcere, conosce Ike e perde letteralmente la testa per questo giovane musicista, che le asprezze della vita hanno chiuso in carcere, tenendolo lontano da quei palcoscenici che avrebbe potuto calcare con successo.
E allora, Goldstein che fa? Se la montagna non viene da Maometto, Maometto va alla montagna. Il produttore ottiene tutti i permessi necessari, allestisce in carcere un vero e proprio studio di registrazione, circonda Ike di turnisti di livello (tra gli altri, il batterista Greg Errico degli Sly And Family Stone e Dough Rauch, che ha già suonato con Santana) e riesce a incidere Changin’ Times, disco misconosciuto eppure bellissimo, che fece innamorare perdutamente anche Stevie Wonder (il quale si spenderà, e spenderà, per ottenere la liberazione di White.
Un disco, Changin’ Times, che se l’avesse composto il genio originario del Michigan, non avrebbe sfigurato nella sua meravigliosa discografia degli anni ’70, piazzato esattamente tra Fulfillingness First Finale e Songs In The Key Of Life. Solo sei canzoni (per una durata complessiva di circa quarantacinque minuti) che coagulano un’ispirata libertà espressiva e un approccio jammistico, in cui confluiscono indole rock, passione per il soul e il r’n’b e straordinari groove funky.
Sei canzoni, alcune delle quali lunghissime, che non risentono degli spazi angusti della prigione, ma cavalcano uno spirito libero, scapigliato e sperimentale. Come se queste note, concepite e suonate nel claustrofobico ambiente carcerario, cercassero la spinta per eludere le sbarre e cercare l’aria pulita e le rilucenze cristalline di una notte punteggiata di stelle.
L’opener e title track disvela l’anima soul e le doti chitarristiche di Ike, che tiene il piede sul pedale wah wah e canta con voce calda e appassionata. Nove minuti e mezzo dal suono scintillante, con una parte centrale che scivola sulla sei corde di White e sul drumming leggermente sincopato di Greg Errico aprendosi verso un groove travolgente. Antoniette, introdotta dai rumori di un temporale, è velluto soul, almeno fino a quando non accelera in una seconda parte trainata dai suoni rockisti della chitarra di Ike, per poi tornare, in una struttura circolare, alle atmosfere morbide dell’inizio. Un pezzo alla Sly And Family Stone, che dal vivo, chissà, avrebbe potuto superare di gran lunga i nove minuti di durata su disco.
Comin’ Home, brano più breve del lotto, avrebbe funzionato alla grande come singolo: un trascinante r’n’b, vestito di colori rock e profumato di spezie anni ’60. Happy Face cita Let’s Get In On e suona esattamente come potrebbe suonare un brano di Marvin Gaye. Segue la lunga (dieci minuti) I Remember George, la canzone più sperimentale del lotto, in cui soul, jazz e blues convivono in un saliscendi ritmico sorretto dalla chitarra wah wah di Ike. Il quale, chiude la scaletta con il funk travolgente di Love And Affection, sei minuti scarmigliati, pimpanti e sudatissimi, in cui un coro femminile gioca al call and response con il chitarrista cantante.
Changin’ Times è disco favoloso (e suona ancora oggi meravigliosamente bene), che però non è riuscito a far decollare la carriera di Ike; il quale, liberato sul finire degli anni ’70, sparisce nel nulla, senza lasciare tracce di se. Un periodo di vita, questo, ricostruito nel documentario di Vernon e che fotografa un uomo controverso, incapace di gestire la propria esistenza e il proprio passato Così Ike, che sente il peso della detenzione e del crimine commesso, cambia nome, gira gli States, mette in piedi famiglie e poi si dà alla fuga, ama donne, che puntualmente abbandona. Un uomo dalla personalità sfuggente, grande talento, animo gentile, ma anche capace di manipolare e di non farsi scrupoli etici.
Vernon fa un lavoro di ricostruzione certosina, inizia a indagare e scopre che Ike è ancora vivo e abita a Los Angeles. Riesce a strappare un appuntamento e si trasferisce per tre giorni a casa di White, il quale, finalmente senza filtri, gli racconta tutta la storia. Il materiale è tanto e dannatamente buono. Vernon saluta Ike e torna in Inghilterra, inconsapevole che il momento di quel saluto sarebbe stata anche l’ultima volta in cui avrebbe visto vivo il musicista. Già, perché appena arrivato a casa, Vernon riceve una telefonata da Lucy, la moglie di White, che gli comunica che il marito è morto.
Spinto anche da questa tragica notizia, il regista riesce ad assemblare il materiale e a montare il documentario, che viene pubblicato prima sul sito della BBC (con geo blocco) e poi trasmesso anche da Sky Spagna. C’è da sperare che prima o poi il docu film, che porta il nome del disco, e l’incredibile storia che narra arrivino anche sui nostri schermi. Nell’attesa, godetevi Changin’ Times, perché il disco, questo sì, è reperibile sia in formato fisico che digitale.
Grazie a Danilo Turrio per l’idea e gli indispensabili suggerimenti.
Blackswan, lunedì 25/01/2021
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