Diciamolo
francamente: nessuno avrebbe mai immaginato una collaborazione di
questo tipo, mettere insieme, cioè, due dei più grandi nomi del rock e
del metal degli anni '80, Jack Russell, cantante e fondatore dei Great
White, e Tracii Guns, fondatore e chitarrista dei L.A. Guns. Due stelle,
certo, ma che pur appartenenti alla stessa galassia, non hanno mai
vissuto molto vicino tra loro. Alla Frontiers, però, hanno le idee molto
chiare e vedono lontanissimo, si sono presi un rischio e hanno centrato
in pieno il bersaglio.
Perché questo inaspettato Medusa
è un disco che suona benissimo, un abbecedario del rock anni ’80, a cui
le due figure carismatiche portano il meglio del proprio retroterra
musicale: Russell, che non ha perso nulla della sua potenza vocale,
attinge a piene mani dal suo bagaglio rock blues, mentre la chitarra di
Guns insuffla le canzoni di quell’energia sleaze che lo ha reso famoso.
Ad accompagnare i due, ci sono Johnny Martin (basso), Shane Fitzgibbon
(batteria) e Alessandro Del Vecchio (tastiere), tre vecchie volpi che
lucidano il suono con grande maestria.
Il
risultato è sorprendente: sezione ritmica quadrata, grandi ritornelli,
riff spaziali e, ovviamente, quella voce lì, che non ha perso un
briciolo di smalto. La scaletta è presidiata da canzoni che riecheggiano
il rock anni ’80, eppure nulla risulta datato, tutto suona fresco e
frizzante, e il talento dei due giganti e dei loro sodali dà lustro a un
lavoro che non paga più di tanto debito alla nostalgia.
Fin
dall’opener "Next in Line" si capisce che il taglio sonoro poggia
maggiormente su quel basamento rock blues su cui la carriera di Russell
ha prosperato, ed è quindi interessante la prova di Guns, perché
esibisce, in parte, un modo diverso di suonare più funzionale alle
canzoni in scaletta. Una scelta di campo vincente e avvincente: "Tell Me
Why" sfodera un grande riff e sfoggia un ben calibrato contrappunto di
hammond, "For You" è un hard blues veemente, "Give Me The Night" è puro
hard rock che punta tutto su un fantastico ritornello e un altrettanto
splendido solo di Guns, mentre "Back Into Your Arms" conquista con le
sue atmosfere Aor e il tiro funky. E tra tanta impetuosa energia, brilla
anche "Living A Lie", virile e malinconica ballata che mette in risalto
le straordinarie doti vocali di Russell.
Medusa
non è certo un disco innovativo e tutto ciò che si ascolta in queste
undici tracce suona come una riuscita celebrazione di quel suono che
andava per la maggiore durante gli anni ’80. Tuttavia, la scrittura non
dà segni di cedimento, la produzione di Alessandro Del Vecchio mette ben
in evidenza la classe di due grandi musicisti, la band gira a mille e
il disco diverte dall’inizio alla fine. Che sia una collaborazione
estemporanea o un progetto destinato a durare nel tempo non è dato di
sapere. Poco male: infilate il cd nel lettore e la goduria sarà
immediata. Hic et Nunc.
Se scrivi una canzone e la intitoli Killing An Arab,
inutile girarci intorno, devi essere consapevole di ciò che fai e
assumerti tutte le responsabilità che ne derivano, perché è praticamente
inevitabile finire nell’occhio del ciclone. Questa canzone, infatti,
parla di qualcuno che ha ucciso un arabo su una spiaggia, e riflette
sull’omicidio, osservando il corpo della vittima.
Quando
Robert Smith la scrisse, però, non si rendeva conto di aver acceso la
miccia per un innesco pericolosissimo, che avrebbe causato numerose
critiche e fraintendimenti per gli anni a venire. D’altra parte,
l’allora imberbe cantante frequentava ancora la scuola, e non aveva idea
che qualcuno avrebbe mai ascoltato la canzone oltre ai suoi compagni di
classe.
Il tema della canzone, inoltre, era completamente diverso da
quello che poteva evocare il fuorviante titolo: l'esistenza di tutti è
praticamente la stessa, tutti vivono, tutti muoiono, tutti soffrono. Il
senso è, quindi, quanto di più lontano si possa scrivere da una canzone
razzista. Eppure, per lungo tempo, sembrava che nessuno riuscisse a
elaborare un concetto che andasse oltre la violenza dirompente contenuta
nel titolo del brano. Il quale, come alcuni di voi sapranno, ha preso
spunto da un capolavoro dell’esistenzialismo quale Lo Straniero di Albert Camus. Killing An Arab
è, dunque, la trasposizione in note di un passaggio del romanzo in cui
il protagonista (Meursault) pensa alla vacuità della vita dopo aver
ucciso un uomo su una spiaggia, per ragioni che non riesce a spiegare.
Il libro è ambientato in Algeria (allora possedimento francese), ed era,
quindi, solo per motivi geografici che la vittima fosse un arabo.
Tuttavia,
questa canzone venne pubblicata in un momento storico in cui il
National Front, un gruppo il cui grido di battaglia era "Keep England White",
era in forte ascesa. In alcuni spettacoli, giovani balordi appartenenti
al gruppo di estrema destra (spesso skinhead) si presentavano agli
spettacoli dei Cure solo per cantare Killing An Arab, per
scoprire, poi, che il gruppo si occupava del lato più introspettivo e
sensibile del punk rock. D’altra parte, erano quelli che avevano scritto
Boys Don’t Cry, un esplicito invito a non trattenere le
proprie emozioni e a esternare i sentimenti, anche attraverso le
lacrime.
Non c’era nulla da fare, però, perché quel titolo era destinato
a creare un sacco di problemi a Robert Smith e soci.
I
nascenti Cure, infatti, quando registrarono per la prima volta la
canzone, avevano firmato un contratto con l'etichetta tedesca Hansa. I
dirigenti della casa discografica, però, appena ascoltarono il brano,
fecero marcia indietro, spaventati da quel titolo francamente complicato
da digerire. Invece di orientarsi verso nuove scelte per compiacere
Hansa, i Cure insistettero per la pubblicazione della canzone e,
ricevuta l’ennesima risposta negativa, con un'astuta mossa commerciale,
riacquistarono i diritti di Killing An Arab e di altre canzoni
che avevano registrato per l'etichetta.
Senza etichetta, la band iniziò a
inviare a varie case discografiche copie di un loro demo tape, che
conteneva Killing An Arab, Boys Don't Cry, 10:15 Saturday Night e It's Not You,
senza, tuttavia, avere risposta. L'unico che si interessò a loro fu
Chris Parry, che lavorava alla Polydor, ma stava fondando la sua
etichetta, la Fiction Records. I Cure accettarono di firmare con la
Fiction e registrarono nuove versioni di Killing An Arab e 10:15 Saturday Night,
che furono pubblicate come doppio singolo, distribuito prima
dall'etichetta indipendente Small Wonder e poi pubblicato su
Fiction.
Iniziò così una lunga e fruttuosa collaborazione tra la Fiction
Records e i Cure. L'etichetta diede alla band grande libertà
espressiva, che permise al gruppo di aprire nuovi orizzonti nel
genere del rock alternativo. Chris Parry ha prodotto il loro primo
singolo e il loro primo album, Three Imaginary Boys, ma poi ha consentito a Robert Smith di assumersi la maggior parte dei compiti di
produzione e di prendere il controllo creativo della band.
Com'era
prevedibile, il brano suscitò proteste da parte di molti che ne
travisavano il significato. Quando i Cure, ad esempio, fecero uno
spettacolo al Kingston Polytechnic nel 1979, il sindacato studentesco
disse loro di non suonare la canzone. Robert Smith risolse il problema,
spiegando le origini letterarie di Killing An Arab a un gruppo
di studenti che rappresentavano il sindacato, e la canzone venne quindi
inclusa nella scaletta dello show. Ma non era ancora finita.
Quando nel 1986, venne pubblicata la raccolta di singoli Standing On a Beach (titolo che contiene un altro riferimento a LoStraniero Di Camus), il pubblico americano si accorse dei Cure ma, inevitabilmente, anche di Killing An Arab,
la canzone che apriva il greatest hits. Il Comitato
anti-discriminazione arabo-americano, sostenendo che i deejay razzisti
usassero il singolo per alimentare il sentimento anti-arabo negli Stati
Uniti, lanciò una campagna per fare pressione sull'etichetta
discografica affinché rimuovesse il brano dalla raccolta. Robert Smith
rifiutò, ma accettò di scrivere un messaggio conciliante che apparve
sulla copertina dell'album: "La canzone Killing An Arab non ha
assolutamente alcun significato razzista. È una canzone che denuncia
l'esistenza di ogni pregiudizio e della conseguente violenza che ne
deriva. I Cure condannano il suo utilizzo per promuovere sentimenti
anti-arabi."
Nelle
settimane successive agli attacchi terroristici dell'11 settembre,
Robert Smith e la sua canzone finirono nuovamente nell’occhio del
ciclone, tanto che il cantante, chiamato in causa da varie testate
giornalistiche, sbottò dicendo che se anche il brano non aveva alcun
intento razzista, forse sarebbe stato meglio cambiare il titolo. Cosa
che i Cure fecero occasionalmente, presentando dal vivo il brano con il
titolo alternativo di Killing Another, allo scopo di evitare l'inevitabile fraintendimento del significato della canzone. Durante il loro Reflections Tour del 2011, poi, eseguirono la canzone con il titolo di Killing An Ahab, facendo ironico riferimento al romanzo di Herman Melville, Moby Dick.
Definita
un po’ troppo frettolosamente southern rock (d’altra parte, JJ Grey
arriva da Jacksonville, la città che ha dato i natali a Lynyrd Skynyrd,
Blackfoot e 38 Special), la musica di JJ Grey spazia in realtà fra molti
generi, mantenendo semmai, come marchio di fabbrica, un piglio
orgogliosamente blue collar. Se si vuole fare a tutti i costi un
aggancio con la musica sudista, si può dire che il songwriting del
nostro frequenta non tanto l’ortodossia del genere, quanto semmai lo
sbrigliato approccio fusion dei Widespread Panic, jam band con cui i
Mofro hanno molto da condividere.
A
prescindere dal gioco delle parentele, quello che però è lampante fin
dal primo ascolto, è che le canzoni di Grey sono geneticamente bastarde, nascono su una robusta impalcatura rock, e crescono nutrendosi di tutto
ciò che è nero: soul, funky, blues e r’n’b.
Ecco allora, per arrivare al cuore della questione, che questo Olustee
può essere definito la summa del JJ Grey pensiero: la musica di un
rocker bianco che ha vissuto la propria vita ascoltando tutta la
discografia Stax, e che ancora oggi gira in macchina con le cassette di
Salomon Burke e James Brown sotto il cruscotto. Passatismo musicale?
Nemmeno per idea. Le undici canzoni in scaletta suonano freschissime,
intense, immediate. Sia che il nostro si cimenti con i languori della
ballata soul, sia che spinga il piede sull’acceleratore delle chitarre.
JJ
Grey e i suoi Mofro mancavano dalle scene da ben nove anni, lasciando
un vuoto nella discografia di quei fan che hanno seguito il musicista
della Florida fin dall’inizio e che avevano goduto come ricci ascoltando
Ol’ Glory (2015), bellissimo album di cui si aspettava da tempo un seguito. Olustee,
rispetto ai precedenti lavori, è un album in cui l’aspetto intimista è
messo maggiormente in risalto, e focalizza l’attenzione sul rapporto
uomo natura, in chiave ecologista. Non solo. Grey canta le sue storie
personali approfondendo temi universali quali la redenzione, la
rinascita, gli incespichi esistenziali e la ricerca della pace
interiore, celebrando i bei momenti trascorsi con gli amici di una vita,
spesso mescolando un approccio carnale a riflessioni più profonde,
magari anche nella stessa canzone.
Il
risultato è un disco grintoso e al contempo affabulante, generoso nei
saliscendi di una proposta, che gronda passione e onestà. L’album si
apre inaspettatamente con "The Sea", una ballata malinconica che tocca
le corde del cuore: chitarra acustica, le carezze degli archi, qualche
nota di piano che gocciola lentamente, e la voce calda di JJ Grey che
rende omaggio alla pacata bellezza del mare. Un mare fisico, certo, che è
quella distesa cristallina che accarezza l’anima, che evoca e strugge,
suggerendo visioni di libertà, di viaggi a toccare i confini del mondo;
ma anche un mare interiore, la passione che muove l’arte, i languori
delle riflessioni più intime, la tendenza a un assoluto spirituale.
L’intero
disco è punteggiato da ballate di straordinaria intensità, canzoni da
brivido come "On The Breeze", con quel retrogusto seventies, che fonde
cantautorato a una profonda anima soul gospel, o come "Seminole Wind"
(rilettura di un brano di John David Anderson), una canzone dal profondo
retroterra southern, la cui progressione evoca inevitabilmente i Lynyrd
Skynyrd, conducendo a un convulso finale spinto verso l’estasi da un
fenomenale assolo di tromba.
Non
dimentichiamoci però che i Mofro sono una grande live band, predisposta
geneticamente alla jam. Ecco, allora, il travolgente groove di brani
come "Rooster", un funkettone sudatissimo, che dal vivo potrebbe
allungarsi a dismisura, "Wonderland", un irresistibile r’n’b per
scatenarsi sul dancefloor, o "Free High", un altro funk spacca ossa, in
cui chitarre e fiati s’intrecciano in un mix esplosivo. Chiude "Deeper
Than Belief", struggente ballata sui tormenti esistenziali (“Sto
resistendo, più profondamente di quanto credo, E lo vedo attraverso
tutto lo spazio, il tempo, il pensiero e la mente, Sto resistendo, più
profondamente di quanto credo”) levigata da un drammatico
arrangiamento d’archi e da un seducente, quanto inaspettato uso del
flauto, che pone un conclusivo punto esclamativo su un disco pressoché
perfetto, il migliore di una discografia fin qui inappuntabile.
Con Olustee,
infatti, JJ Grey ha ancora una volta allargato i confini del proprio
talento musicale, lirico e vocale, realizzando un album destinato a
diventare un classico di genere. Le canzoni traboccano di immagini e
suoni di quel profondo Sud in cui il musicista vive, raccontati
attraverso gli occhi di un poeta e cantati con un'anima pura, che lancia
un messaggio semplice ma ineludibile: rispetta la natura e cogli
l’attimo, rifletti, ma non smettere di divertirti. Mai.
Meno
noti dei coevi Oasis e Verve, ma non per questo artisticamente meno
rilevanti, i Cast hanno pubblicato, tra il 1995 e il 1999, tre album che
sono autentici gioiellini di quel movimento che siamo soliti chiamare
brit pop. Capitanati da John Power, bassista di quel leggendario gruppo,
i La’s, che con un solo disco hanno indicato le coordinate del nascente
genere, i Cast hanno mollato le scene a inizio millennio, per
ricomparire dieci anni dopo, pubblicando due lavori (l’ultimo è del
2017) che testimoniavano un ritrovato stato di forma.
Dopo
sette anni, ecco il terzetto originario di Liverpool tornare nei negozi
con un nuovo album che qualitativamente riporta la band ai livelli
degli anni gloriosi. E lo fa in un momento in cui il brit pop sembra
vivere una seconda giovinezza: i Shed Seven hanno conquistato la prima
piazza delle classifiche inglesi, i Kula Shaker hanno appena pubblicato
uno dei migliori dischi della loro storia, Pulp e Blur fanno il tutto
esaurito negli stadi, mentre è da poco uscito un album che vede
collaborare Liam Gallagher e John Squire.
Nostalgia
canaglia, verrebbe da dire, se non fosse che il terzetto guidato da
John Power si ripresenti ai propri fan con un lavoro che, per quanto
strettamente connesso con quelle sonorità nineties, risulta figlio di un
ispirato e scintillante songwriting. Chitarre croccanti, melodie
accattivanti e deliziose armonie vocali, sono la forma e la sostanza di
undici canzoni che solo apparentemente suonano come clichè di un’epoca
passata, ma che, ascolto dopo ascolto, crescono esponenzialmente grazie
ai giochi di prestigio di una scrittura diretta ma anche ricca di
momenti imprevedibili.
Bastano un minuto e trenta secondi per essere risucchiati dai solchi di Love Is The Call,
basta quell’incipit, "Bluebird", una delizia folk pop, breve ma
potente, per catturare i battiti del cuore, incredibile sintesi del
meglio del suono inglese, coagulo di reminiscenze che portano a Bowie e a
McCartney. E quando parte la successiva "First Smile Ever", con quei
riverberi gospel in sottofondo, sembra di essere tornati nel cuore degli
anni ’90, il ritornello irresistibile e quel mood che fonde leggerezza e
nostalgia, esuberante allegria e il retrogusto dolce amaro della
malinconia.
E’
il meglio del brit pop, fuori tempo massimo, forse, ma ancora
incredibilmente fresco e accattivante. Provate, allora, a trattenervi
dal canticchiare il ritornello di "The Rain The Falls", con
quell’atmosfera mod inebriante e nebulosa, un brano minaccioso e
scanzonato al contempo, che intreccia splendide armonie vocali con un
cambio di tonalità che fa atterrare la canzone dolcemente dopo essere
stata lanciata nella stratosfera. E che dire di "Far Away", un brano che
sembra rimbalzare grazie a un ritornello appiccicoso, che gonfia
l’anima a dismisura e che induce a una strana sensazione, in cui lacrime
e gioia si fondono in un inebriante momento di estasi?
Tutto
in questo disco è di bellezza cristallina, la voce di Power sembra la
migliore che abbia mai avuto e la chitarra di Liam "Skin" Tyson, suona
energica, sciolta ma serrata, dando al disco una velocità ariosa, più
contigua al rock’n’roll che al pop (ascoltare il riff della psichedelica
"Love You Like I Do" o quello della title track).
In
scaletta, non c’è una sola canzone che non sia degna di nota, un
ritornello che non spinga a cantare a squarciagola, che sia l’ispida
"Starry Eyes" o siano le distorsioni della rumorosa "I Have Been
Waiting", tutto si infila in testa alla velocità della luce, si
memorizza la bellezza della melodia, ciascuna delle quali brilla di luce
propria in un contesto di perfetta coesione.
E
se non bastasse, sul finale arrivano i due brani migliori del lotto,
"Time Is Like A River", mid tempo immerso in sentori psichedelici anni
’60, ritornello beatlesiano e contrappunto straniante di una tromba
inaspettata, e "Tomorrow Call My Name", capolavoro di scrittura, in cui
un gentile arrangiamento d’archi avvolge un suono che fonde sixties e
Verve, verso un finale che strapazza il cuore d’emozioni.
A
produrre c’è Youth (bassista dei Killing Joke e mago del brit pop), a
cui si deve un suono asciutto, incisivo e privo di inutili orpelli. Un
plus non da poco, esattamente come la copertina del disco, una delle più
belle pubblicate quest’anno.
Un ultimo lascito, un addio, il canto del cigno. Chiamatela come volete ma Riders On The Storm
è, a tutti gli effetti, l'ultima canzone registrata da Jim Morrison,
che subito dopo lasciò il gruppo per trasferirsi a Parigi, dove morì (il
3 luglio) qualche settimana dopo la pubblicazione del brano, avvenuta a
giugno del 1971.
Riders On The Storm può essere vista come un resoconto autobiografico della vita di Morrison: anche lui si sentiva come un “cavaliere nella tempesta”, anche lui, in qualche modo, avrebbe potuto essere un “killer On The Road”.
Un’immagine, quest’ultima, che, infatti, fa riferimento a una sceneggiatura per un film da lui scritta, intitolata The Hitchhiker (An American Pastoral),
in cui Morrison avrebbe interpretato la parte di un autostoppista che
commette una serie di omicidi. Nel 1962, mentre Jim frequentava la
Florida State University a Tallahassee, vedeva una ragazza di nome Mary
Werbelow che viveva a Clearwater, a 280 miglia di distanza. Jim spesso
faceva l'autostop per andare a incontrarla. Quei viaggi solitari sulle
calde e polverose strade asfaltate della Florida, il pollice in fuori e
la testa frastornata da poesia, amore e nichilismo, rappresentavano, per
una mente fervida, un’avventura pericolosa, in cui il giovane cantante
rischiava, ogni volta, di imbattersi in ruvidi camionisti redneck,
omosessuali alla ricerca di incontri estemporanei, predatori sessuali o
semplici malintenzionati.
Un’esperienza,
questa, che creò una cicatrice psichica indelebile nell’anima del
giovane Jim, i cui taccuini iniziarono a contenere ossessivamente
scarabocchi e disegni di un autostoppista solitario, un viaggiatore
esistenziale, senza volto e pericoloso, uno straniero alla deriva con
fantasie violente, un vagabondo misterioso: l'assassino della strada.
E poi, ancora, quel verso “ragazza, devi amare il tuo uomo”,
non è altro che un appello disperato alla sua fidanzata di lunga data
Pamela Courson, che si trasferì con lui nella fatal Francia.
L’ultima
canzone, dunque, racchiudeva parecchi riferimenti alla vita del
cantante, la cui anima, sempre più tormentata, non era più in grado di
sopportare la vita nella band e le luci della ribalta.
A
prescindere dai riferimenti testuali, musicalmente il brano nasce da
una jam session in cui i Doors stavano suonando una cover scherzosa di
Ghost Riders In the Sky, una canzone da cowboy, scritta nel 1948 di Stan
Jones, che fu successivamente registrata da Johnny Cash, Bing Crosby e
molti altri. Morrison capì che quella cover poteva essere l’abbrivio per
una grande canzone, si inventò il titolo Riders On The Storm e
la band iniziò a lavorarci su per trarne un brano originale. La linea
di basso fu creata da Jerry Sheff, uno dei due turnisti chiamati in
studio per le registrazioni (l’altro era Marc Benno), dopo che Manzarek
gli suonò quello che aveva in mente sulla sua tastiera. L’effetto
pioggia fu creato dallo stesso Ray Manzarek, utilizzando un piano
elettrico Fender Rhodes, e se si presta attenzione durante l’ascolto,
poi, è possibile cogliere, alla fine della canzone, un mormorio che
recita: Riders On The Storm. Questa sovraincisione è l'ultima
cosa che Jim ha fatto prima di morire. Una sovraincisione effimera,
sussurrata, che suona come un presagio nefasto, come se il suo spirito
bisbigliasse all’ascoltatore dall'aldilà, preannunciando l’esito di un
destino crudele.
Il brano è l’ultimo del lato B di L.A.Woman
che, come detto, è anche l’ultimo album dei Doors con Jim Morrison. E’
curioso che Paul Rothchild, che aveva prodotto i primi cinque album
della band, decise di mollare il gruppo perché non gli piacevano le
canzoni. Dopo aver ascoltato i primi demo, disse ai quattro, riuniti in
studio, più o meno così: “Questa è musica da cocktail, io non la produco”. A farlo ci pensarono gli stessi Doors, che si fecero aiutare dall’ingegnere del suono, Bruce Botnick.
Ros
Gos, al secolo Maurizio Vaiani, è un poeta dell’anima, un musicista
sensibile, colto e profondo, che non ha paura di viaggiare attraverso il
suo immaginario sonoro, per scandagliare con coraggio le trame, spesso
aggrovigliate, dell’esistenza umana, e osservare, con lucidità ed
empatia, il destino del mondo che lo circonda in questi anni bui, in cui
l’amore vive un impari battaglia contro l’odio, il dolore, la guerra, e
una violenza sempre più ramificata. Da quattro anni, da quando cioè ha
iniziato la sua carriera solista, Ros Gos ha raccontato lo smarrimento
dell’umanità persa nei viluppi di un post folk desertico (Lost In The Desert)
e ci ha guidato, malinconico Virgilio, nello sprofondo dell’inferno
dantesco, vivida metafora di una società alla deriva, abisso etico di un
mondo senza speranza (Circles).
Ha
viaggiato, Ros Gos, con i suoi occhi bene aperti, lo sguardo
appassionato e indagatore, appena velato di lacrime, il cuore in
tumulto, affabulatore e crooner di spazi aperti e claustrofobici
anfratti. Ed è arrivato qui, in un luogo che non esiste, dove l’umanità
vive sospesa, tra luci e ombre, tra nichilismo e dolore, tra speranze
spesso frustrate e una straziante necessità di redenzione, di pace.
No Place
è, dunque, un punto di arrivo, l’approdo di un cammino che vede Ros Gos
evolversi senza, fortunatamente, cambiare troppo, sempre più
consapevole dei propri mezzi, delle proprie intuizione melodiche,
supportate, ancora una volta, dall’ottima produzione di Marco Torriani,
il cui tocco sapiente, cesella mirabilmente ogni singola canzone,
cercando l’equilibrio tra il buio che ghermisce l’anima e i barbagli di
tiepido sole, che riscalda ed evoca serenità.
Il
risultato è ancor più sorprendente che nei precedenti lavori: il mood
malinconico che attraversa il disco, quelle brume meditabonde che da
sempre caratterizzano la scrittura del musicista lombardo, non sono mai
state così accessibili, pur senza imboccare la strada del compromesso,
dell’esposizione semplicista, della scelta condiscendente. E così, No Place
suona benissimo, emoziona senza artifici, conquista con la semplicità
di melodie accattivanti, ma mai piacione, suscita palpiti senza mai
ricorrere al ricatto della lacrima facile.
Ros
Gos plasma e fa convivere, in un suono personalissimo, tutto il suo
retroterra musicale, gli ascolti amati da una vita, gli eroi perdenti e
maledetti degli anni’90, la new wave e il post punk con cui è cresciuta
un’intera generazione, quella che era giovane e piena di speranza nei
tanto vituperati anni ’80.
Ciò
che ne deriva è un disco che, seppur coerente e coeso nei suoni, si
sviluppa in modo vario e fascinoso, in un’altalena emotiva di dieci
canzoni, tutte necessarie, tutte egualmente accattivanti. Un viaggio nel
viaggio, a partire dall’incipit di "My Cure" (ritmica arcigna
sottostante un tessuto malinconico di cupa new wave), che si sviluppa in
un percorso di elettriche fluorescenze dream pop ("Doll"),
nell’infuocato noise di "Unexpressed Love", tenebroso crocevia della
morte fra Mark Lanegan e Iggy Pop, nelle extrasistole anfetaminiche a là
Radiohead della title track, nella soavità vellutata "The Slide" (con
quello splendido arpeggio che ricorda "Thirteen" dei Big Star) e nella
chiosa fragile, sospesa ed emotivamente disarmante di "I Still Need
You". Un finale che sa di accettazione e pacificazione, di ritrovata
pace, di luce, nonostante tutto il male che ci circonda.
Miss
Rachel Murdock, un’anziana signora, è l’investigatrice dilettante,
coadiuvata dal burbero tenente Mayhew. Una mattina di tranquilla
routine, riceve una chiamata dalla nipote Lily. Questa le chiede di
venirle in aiuto nella città dove abita, senza dire il perché. La zia
parte subito. Porta con sé la gatta Samantha, felino accudito con
particolare cura perché ha ereditato la fortuna della bizzarra zia
Agatha. Senza apparente motivo. Lily viene improvvisamente uccisa, nella
stessa stanza in cui anche Rachel, avvelenata e priva di coscienza,
rischia di morire, sotto gli occhi della gatta. Nella scena insanguinata
entra il tenente Mayhew, quanto di più lontano si possa immaginare
dalla quieta raffinatezza di Rachel. La coppia così assortita non
potrebbe mai raggiungere l’obiettivo senza decifrare i messaggi della
gatta Samantha. «C’era qualcosa di strano... di strano e di diverso
nella gatta».
La
Gatta Ha Visto Tutto della texana Dolores Hitchens è un piccolo
classico, il primo di una serie di gialli che hanno come protagonista
un’improvvisata detective dilettante, l’anziana Rachel Murdock. L’azione
si svolge in una pensione e una pletora di personaggi fanno a gara per
candidarsi se non al ruolo di colpevole, quanto meno a quello di persona
poco raccomandabile. L’atmosfera del romanzo rimanda immediatamente ai
gialli firmati da Agatha Christie, nello specifico a Miss Marple, o alla
serie tv La Signora In Giallo: anche Miss Rachel è quella che un tempo
veniva definita “zitella”, è avanti con gli anni e si cimenta
nell’investigazione per puro diletto.
Pioniera
della cosidetta “domestic suspence”, la Hitchens crea una mise en place
quasi teatrale, in cui l’azione è ridotta ai minimi termini e prende
corpo solo nel concitato finale. Ciò non toglie nulla, però, a un
romanzo che catalizza immediatamente l’attenzione del lettore: non
mancano i colpi di scena, gli indizi per scoprire il colpevole sono
disseminati con cura in tutte le trecentoquaranta pagine del romanzo,
seppur mimetizzati con arguzia, e la gatta, testimone involontario
dell’omicidio, è la geniale chiave di volta per risolvere il mistero,
non proprio di facile soluzione.
La
prosa, a dire il vero, è un po’ “age”, molto classica nel suo sviluppo,
che rispecchia perfettamente il periodo in cui il giallo fu scritto (la
pubblicazione avvenne nel 1938) e che si sposa coi tempi dilatati degli
arguti ragionamenti dell’anziana protagonista, la quale, peraltro, è
tutt’altro che inerme.
Tuttavia,
il romanzo è estremamente innovativo per gli standard dell’epoca,
grazie alle voci fuori campo di due personaggi che commentano i fatti ex
post, all’atmosfera decisamente inquietante, e all’inaspettata violenza
di alcuni passaggi, in cui non si lesina sul sangue, mettendo a nudo la
cruda efferatezza di un omicida senza scrupoli.
Non solo: Miss
Rachel ed il giovane tenente Mayhew (ufficialmente incaricato di
condurre le indagini) sembrano, ad un certo punto, scambiarsi i ruoli,
in un gioco delle parti per certi aspetti sorprendente, perché, come il
lettore avrà modo di verificare in prima persona, sarà la diversamente
giovane Rachel Murdock a impegnarsi in azioni pericolose e spericolate,
lasciando all’ingombrante poliziotto il compito di affrontare gli eventi
in modo più equilibrato e saggio. Ingegnosi escamotage letterari,
questi, che rendono La Gatta Ha Visto Tutto una lettura affascinante, piacevolissima e intrigante, che non deluderà gli amanti del genere.
Se il significato di “ironia”
è usare delle parole per trasmettere il contrario del loro significato
letterale, creare cioè un’alterazione spesso paradossale della realtà,
allora, forse, il testo di Ironic, decima traccia da Jagged Little Pill,
terzo album della cantante canadese Alanis Morissette, non lo è. O
meglio, lo è nelle intenzioni di chi l’ha scritta, ma molto meno dalla
prospettiva di chi ascolta. Gli eventi descritti nella canzone (la
pioggia il giorno del matrimonio, l’aereo che precipita, la grazia che
arriva nel braccio della morte con due minuti di ritardo), infatti, sono
eventi drammatici, ma non esempi di ironia.
Basta dare una fugace lettura al testo, per rendersene conto: ”Un
vecchio ha compiuto novantotto anni, Ha vinto alla lotteria ed è morto
il giorno successivo, È una mosca nera nel tuo Chardonnay, È la grazia
del braccio della morte, due minuti troppo tardi, Non è ironico, non
credi?” E ancora: “Ha aspettato tutta la vita prima di prendere
quel volo, mentre l'aereo precipitava pensò "Beh, non è carino". E non è
ironico, non credi?”
Non
è, quindi, un caso che questa famosissima canzone abbia attirato sulla
Morissette parecchie critiche, tanto che il London Times, in
un’intervista del 2008, domandò alla songwriter canadese se finalmente
fosse riuscita a comprendere il vero significato della parola “ironia”.
E che la canzone non fosse percepita come ironica, ne è dimostrazione
il fatto che, per quel riferimento all’incidente aereo, la stessa venne
inserita, dopo l’11 settembre, nella lista delle canzoni inappropriate.
Lo stesso Glen Ballard, coautore delle liriche, qualche anno dopo,
ammise candidamente che, nonostante la sua laurea in letteratura inglese
e la passione per T.S.Elliot, l’uso dell’ironia nel testo non era
tecnicamente corretto. Tuttavia, la Morissette ha sempre sostenuto che
il significato della canzone sta nella parte finale, in cui lei canta
che “La vita ha un modo strano di coglierti di sorpresa, La vita ha un modo divertente di aiutarti”.
In definitiva, dunque, esiste un’ironia di fondo: ciò che davvero è
ironico è che le cose brutte ci aiutano ad arrivare dove stiamo andando.
Come a dire: la vita ci prende in giro, ci fa brutti scherzi, ma alla
fine, in qualche modo, ci forma il carattere e ci rende migliori.
La Morissette scrisse Ironic insieme al citato Glen Ballard, che ha anche prodotto l'album Jagged Little Pill.
I due si incontrarono nel marzo del 1994, quando lei si trasferì a Los
Angeles dal Canada per cercare nuove strade espressive e rompere con il
passato dance pop dei due album precedenti. Con Ballard, scrisse ben
venti canzoni, dodici delle quali finirono per comporre la scaletta
dell’album.
Il
brano fu scritto il 26 maggio 1994, all'inizio della loro
collaborazione, dopo un pranzo nella trattoria italiana da Emilio, dove
avevano mangiato insalata e bevuto tè ghiacciato. Durante la
conversazione, la Morissette se ne uscì con la frase:” 'Non sarebbe ironico per un vecchio vincere la lotteria e morire il giorno dopo?".
Dieci minuti dopo erano in studio a scrivere e a dare inizio alla magia
di un disco che fece incetta di premi e guadagnò la prima piazza delle
classifiche di mezzo mondo, arrivando seconda anche nelle chart
italiane.
In un’intervista alla rivista Q nel 1999, Morissette ricordò la sessione di scrittura della canzone: "È
stato piuttosto divertente, perché quando Glen e io eravamo in studio a
scriverla, stavamo solo cercando di farci ridere a vicenda. Non
pensavamo nemmeno all'ironia in quel momento. E questa è probabilmente
la cosa più ironica della canzone."
Australiani,
nati a Brisbane nel 2011, i Caligula’s Horse (nome bellissimo, ispirato
a Incitatus, il cavallo che Caligola voleva nominare console) si sono
ritagliati, disco dopo disco, una piccola nicchia di consensi nel mondo
prog metal.
Pubblicato a maggio 2020, il quinto disco della band, Rise Radiant,
li vedeva in forte ascesa, grazie anche a sempre maggiori consensi
della critica specializzata e a vendite che iniziavano a diventare
importanti. A causa della pandemia e del successivo lockdown, però, il
quartetto non ha potuto capitalizzare il duro lavoro fatto: niente tour
in giro per il mondo, e una promozione passata, quindi, in secondo
piano, a causa dei noti avvenimenti.
D’altra
parte, il 2020 è stato un anno strano, l’esplosione del covid ha creato
un vero e proprio senso di incertezza per tutti i musicisti,
soprattutto quelli meno affermati, che si sono trovati a fare i conti
con un totale sovvertimento di quelli che erano schemi ben collaudati.
Il chitarrista della band, Adam Goleby, poi, ha lasciato il progetto nel
luglio del 2021, mettendo a serio rischio l’esistenza stessa dei
Caligula’s Horse.
Invece,
a dispetto di tutto, i prog metaller australiani hanno usato questo
momento di profonda incertezza come carburante creativo per il nuovo Charcoal Grace, un
album che fa i conti, definitivamente, con le esperienze vissute in
quei giorni tragici, quasi una sorta di catarsi per poter guardare al
futuro con speranza e rinnovata consapevolezza.
In
scaletta, sei canzoni, per più di un’ora di ascolto, tra chitarre
ribassate e approccio sinfonico, che permettono subito un accostamento
della band australiana con maestri del genere, quali Haken o Leprous. La
prima, immediata impressione, poi, è che Charcoal Grace sia un
disco per cui un ascolto superficiale è del tutto impossibile, anche
perché, come spesso accade per gli album di prog, la vera esperienza
consiste nell’ascoltare l’opera nella sua interezza. Non ci sono,
infatti, hook memorabili che fanno emergere un brano sugli altri (forse,
la sola "Sails" resta impressa subito, grazie alla melodia evocativa),
ma se ci si abbandona, senza interruzioni, al flusso creativo della
band, è possibile cogliere tutta l’emotività che attraversa la scaletta,
e sperimentare l'angoscia, il vuoto, il dolore e poi la speranza e quei
barlumi di gioia che i Caligula’s Horse cercano di esplorare e
trasmettere.
Non
è un caso che il corpus centrale dell’opera sia la title track, una
suite di ventiquattro minuti, divisa in quattro parti, con cui la band
affronta il tema delicato del rapporto di un bambino coi genitori
separati. Un viaggio nella psiche tormentata dell’infanzia, che non può
essere sezionato, ma solo assimilato nella sua complessa e complessiva
durata, attraverso il fil rouge di un saliscendi emotivo, in un
alternarsi di luce e oscurità, di momenti leggeri e delicati che trovano
il contrappunto nelle sferzate di riff taglienti.
Un
brano che è la chiave di lettura di un disco la cui anima prog, quella
capacità, cioè, di cambiare registro in modo da rendere articolata la
narrazione, è del tutto evidente nell’ora abbondante di ascolto, che
regala altri momenti decisamente riusciti, come i due singoli, "The
World Breathes With Me" e "Golem".
Alla resa dei conti, tuttavia, qualche appunto occorre farlo. Di sicuro Charcoal Grace
è un disco più vicino alla sensibilità di chi ama il rock progressive
rispetto a chi, invece, è aduso a suoni più pesanti. Le grandi qualità
tecniche del quartetto sono clamorosamente in luce, forse fin troppo,
con la conseguenza che, in alcune sue parti, il disco suona come un mero
sfoggio di abilità, che toglie respiro emotivo alle composizioni. Un
approccio meno sofisticato e più lineare, e degli arrangiamenti più
asciutti, avrebbero reso un miglior servizio a buone idee compositive e a
un pathos che, solo a sprazzi, suona realmente autentico. Non una
bocciatura, e ci mancherebbe, ma la sensazione che un surplus di
spontaneità avrebbe fatto guadagnare punti a un album che non sempre
trova il giusto slancio per toccare il cuore dell’ascoltatore.
Composti
dal frontman Crispian Mills, dal bassista Alonza Bevan, dal batterista
Paul Winterheart e dal tastierista Jay Darlington, i Kula Shaker hanno
plasmato un suono unico nell'era post-Britpop alla fine degli anni '90,
con alcuni splendidi dischi (e dall’ottimo riscontro commerciale)
ispirati alla musica indiana e allo spiritualismo. La loro è stata una
carriera altalenante, segnata da scioglimenti e reunion, l’ultima delle
quali ha già prodotto un ottimo lavoro intitolato 1st Congregational Church of Eternal Love (And Free Hugs) uscito nel 2022.
Questo Natural Magick
è, dunque, il secondo disco della band dopo un lungo iato e, rispetto
al suo predecessore, pur mantenendo intatte le caratteristiche di un
suono collaudatissimo, risulta essere più immediato e virato decisamente
alla ricerca della melodia. Un canovaccio, quello su cui si basa la
musica dei Kula Shaker, che pesca a mani basse nella psichedelia anni
’60, citando illustri nomi di quegli anni d’oro, e che si colora, qui e
là, di spruzzate di folk indiano, che è da sempre l’elemento distintivo
della loro proposta.
Il
brano di apertura "Gaslighting" risucchia immediatamente l’ascoltatore
nel mondo KS: ritmiche serrate, handclapping, spolverate d’organo e quel
riff pazzesco che riporta a "All Day And All Of The Night" dei Kinks.
"Waves" incastona una melodia brit pop tra sitar e chitarre distorte, è
il brano più orecchiabile e spensierato dell’album grazie a un
ritornello appiccicoso, che si manda a memoria fin da primo ascolto.
Un
uno-due dal tiro pazzesco, che si fa ancora più vibrante nella
traiettoria funky della title track, chitarrina ipnotica, coretti
sbarazzini e linea di basso trascinante, per un brano che spinge
l’ascoltatore verso uno scatenato dancefloor. I due minuti e mezzo di
"Indian Record Player" si tuffano a testa bassa nella psichedelia anni
’60, citando Kinks e Yardbirds, e sfoggiando inusuali e sfavillanti
arrangiamenti, mentre "Chura Liya (You Stole My Heart)" crea uno
straniante crossover fra musica indiana e mariachi dai risultati
sorprendenti.
Il
livello d’ispirazione resta sempre altissimo, anche quando la band si
diverte a citare smaccatamente i Beatles in "Something Dangerous", a
tirar fuori dal cilindro un ballatone soul per cuori infranti ("Stay
With Me Baby"), a immergersi nel misticismo indiano di "Happy Birthday",
o a spendersi in messaggi politici tranchant nell’acidissima
"Idontwannapaymytaxes" ("Non voglio pagare le mie tasse/Non voglio pagare per la terza guerra mondiale/Non voglio pagare le mie tasse") e nel funkettone di "F-Bombs", in cui Mills canta in modo da non lasciar spazio a fraintendimenti: "Fanculo la guerra, fanculo le tasse, fanculo gli uomini del governo".
Se
la malinconica "Whistle And I Will Come" è immersa fino al collo nel
brit pop anni ’90, "Kalifornia Blues" mette la retromarcia fino a
sixties, grazie a un ritornello che evoca i Fab Four, e la conclusiva
"Give Me Tomorrow" sigilla il disco pescando una splendida melodia anni
’50, per un lentone da ballare guancia a guancia con l’amata.
Natural Magik
è un grande disco, e, a livello di ispirazione e songwriting, può
essere tranquillamente accostato ai migliori lavori dei Kula Shaker,
quali K (1996) e Peasants, Pigs & Astronauts
(1999). Una traversata di tredici canzoni lungo un sentiero hippie e
pischedelico ben delineato, che guarda al passato con uno sguardo
divertito, che sa emozionare con melodie uncinanti, e che resta ben
piantato anche nel presente, prendendo posizioni politiche chiare e non
più defettibili. Peace And Love, fate l’amore e non fate la guerra:
concetti antichi, che, oggi, purtroppo, si vestono di una nuova e
drammatica urgenza.
Uno dei dischi migliori usciti in questo primo scorcio di 2024.
Questa recensione è probabilmente un esercizio sterile e ridondante, dal momento che su Pornograffi degli
Extreme si sono già spesi fiumi d’inchiostro. Tuttavia, è plausibile
che una hit come "More Than Words", quinta traccia dell’album e vero e
proprio tormentone datato 1990, abbia in qualche modo oscurato il resto
di una scaletta, il cui livello di ispirazione e di songwriting è a dir
poco strepitoso.
Questo,
infatti, è un grandissimo disco rock (o hair metal, vedete voi), uno
dei più importanti del decennio in cui è stato concepito e, valutato poi
attraverso il filtro dei trentaquattro anni trascorsi dalla sua uscita,
un’opera che, in senso assoluto, ha resistito alle angherie del tempo e
che, consigliamo vivamente, non debba mancare nella discografia di ogni
appassionato di genere.
Un
album che ha un’unica grande pecca: essere stato pubblicato fuori tempo
massimo, in un momento in cui il mondo della musica stava imboccando
un’altra strada. Gli Extreme sono stati uno degli ultimi grandi gruppi
emersi dalla scena hair metal alla fine degli anni Ottanta, una band dal
talento smisurato, ambiziosa, in un certo qual modo sperimentale e
dotata, vieppiù, di un clamoroso bagaglio tecnico, di cui forse non
tutti si sono accorti. Ma in quegli anni, la scena stava per essere
cannibalizzata dal grunge, un movimento che si collocava agli antipodi
di quella musica che, nel decennio precedente, aveva fatto letteralmente
sfracelli.
A
un orecchio attento, però, non può sfuggire lo straordinario arsenale
tecnico e la fantasiosa qualità di scrittura di una band che, tenetelo
bene a mente, annoverava fra le sue fila quattro musicisti di livello
superiore, il cui straordinario affiatamento trasformava gli Extreme in
una vera e propria macchina da guerra.
Comandante
supremo del progetto era Nuno Bettencourt, che fu, ed è tuttora, uno
dei più grandi chitarristi rock in circolazione. E poco importa che non
tutti lo sappiano: basta ascoltare cinque minuti di questo disco per
rendersi conto del livello di questo autentico califfo della sei corde.
Maestro di riff e tessitore di funambolici assolo, veloce, fantasioso e
bizzarro, Bettencourt è un guitar hero che fa cose complicatissime con
una scioltezza che lascia disarmati. L'efficacia del suo stile è
letteralmente sbalorditiva, così come il suo senso del ritmo e la sua
incredibile capacità di inventare grandi variazioni su ogni singolo
riff.
Ciò,
ovviamente, non significherebbe nulla se il resto della band non fosse
all'altezza. Al basso e alla batteria ci sono rispettivamente Pat Badger
e Paul Geary, ed entrambi si mettono al servizio delle canzoni,
evitando ritmi troppo elaborati e un certo manierismo di cui soffrivano
così tante band dell'epoca: sono diretti, muscolari ed essenziali, ma il
loro dinamismo rende ancora più vibrante il groove delle canzoni. E
poi, c’è Gary Cherone, una sorta di trasformista dell’ugola, il cui
timbro potente ma estremamente duttile, si tiene lontano dagli inutili
virtuosismi dei cantanti di scuola hair metal, per adattarsi,
camaleontico, alle diverse, e talvolta antitetiche direzioni che prende
la scaletta del disco.
Pornograffitti,
una sorta di concept album che tratta il tema della ricerca dell'amore
in una società decadente, eccessivamente politicizzata e schiavizzata
dal sesso, rappresenta il momento più alto nella storia della band, ma
anche l’inizio del suo declino, di quella citata morte annunciata per
mano del grunge. Sorprendente, poi, è il fatto che i due maggiori
successi dell'album sono state le canzoni acustiche "Hole Hearted" e la
super hit "More Than Words", ottimi brani, certo, ma totalmente non
rappresentativi del resto dell'album.
Nonostante
il disco abbia ottenuto un triplo disco di platino, è cosa nota,
infatti, che molti ignari acquirenti si aspettassero un album in linea
con le due citate canzoni, e che, quindi, vinile alla mano, fossero
scontenti di trovarsi di fronte alla restante scaletta, in cui abbondano
duri riff rock e, in qualche episodio, anche molta sporcizia. La
circostanza, poi, che l'album abbia venduto tre milioni di copie, non fu
di alcuna consolazione per la band. Alla fine del tour per il loro
disco d’esordio, infatti, gli Extreme, che avevano firmato con la
A&M un contratto per cui la band doveva alla casa discografica tutte
le spese per la registrazione e il successivo tour, erano indebitati
fino al midollo. Non c'era altro modo di ripagare l’etichetta, se non
quello di realizzare un nuovo album, che, ovviamente, portò la band a
indebitarsi ulteriormente per migliaia di dollari. Quando Pornograffitti
raggiunse l'apice delle vendite, gli Extreme avevano appena iniziato a
pareggiare i conti con la A&M e a guadagnare in proprio, ma di lì a
poco, la scena hair metal iniziò a decadere, oscurandone la fama e
lasciandoli senza un soldo.
Ciò nonostante, Pornograffiti
resta un disco clamorosamente bello, il cui suono muscolare e dinamico
prende spesso traiettorie funky, creando un clima divertito e festaiolo,
una bisboccia da litri di birra ghiacciata e shot di bourbon, che
togliere dallo stereo è davvero un’impresa. Un disco, peraltro, che pur
rimanendo fedele a certi canoni espressivi dell’epoca, risulta
estremamente vario nel suo svolgimento tutt’altro che monocorde.
Due
grandi hit, dicevamo: la prima "More Than Words", è una ballata d’amore
per chitarra acustica, caratterizzata dalle sublimi armonie vocali di
Cherone e Bettencourt, la seconda, "Hole Hearted", altra ballata dai
sentori blues, che diventa il secondo maggior successo dell’album.
Il
resto, però, è anche meglio. "Decadence Dance" è una lunga e vibrante
apertura, trainata da uno dei tanti riff eccezionali che compongono
l'album. Nuno Bettencourt riempie il fraseggio in ogni momento,
inventando tocchi di straordinaria fantasia, che aggiungono al brano una
tonnellata di groove. Una menzione a parte, meritano anche "He Man
Woman Hater", che si apre con i fuochi d’artificio della chitarra di
Nuno, qui alle prese con un’esecuzione magistrale de "Il Volo Del
Calabrone", brano che ha terrorizzato il fior fiore dei chitarristi, per
la folle velocità richiesta, "Get The Funky Out", scintillante sezione
fiati, groove funky e metallico, variazioni ritmiche da capogiro e i
soliti riff incredibili di Bettencourt, "When I First Kissed You",
inusuale ballata in stile Frank Sinatra, riletta con gusto eighties, e
"Song For Love", una power ballad stellare, un inno all’amor perduto,
avvolta in un arrangiamento d’archi e sfiorata da vaghi intenti
progressive.
Per quanto un po’ lungo, Pornograffiti
mantiene desta l’attenzione dell’ascoltatore per tutto il suo
intrigante svolgimento, tanto che risulta davvero ingiusto che una band
di questa caratura, capace di pubblicare un tale capolavoro, sia finita
troppo presto nel dimenticatoio, archiviata come una delle tante inutili
band hair metal del periodo, e annichilita da quel suono, disperato e
malinconico, che prende il nome di grunge e che fagociterà, in termini
di successo e di vendite, i primi anni del decennio.
Quasi
trent’anni di storia e undici album pubblicati sono il ruolino di
marcia di un gruppo che, dopo una folgorante prima parte di carriera,
chiusa con uno iato di un decennio, è stato capace di rigenerarsi e di
trovare una nuova, appassionata giovinezza. Certo, il percorso per
giungere a questo ultimo Little Rope non è stato lineare e di cose importanti, che hanno messo in discussione l’identità della band, ne sono accadute parecchie.
Dopo la svolta synth-pop del monocromatico The Center Won't Hold
(2019), prodotto da St Vincent, Carrie Brownstein e Corin Tucker si sono separate, senza tante cerimonie, dalla batterista Janet Weiss, il
cui modo di suonare era, letteralmente, una parte fondamentale e
identificativa del suono Sleater - Kinney. Quel disco, ritenuto
deludente dai fan di vecchia data, produsse il rapido ritorno alla
chitarra e al rock con la R maiuscola di Path of Wellness
(2021), una sorta di disco della restaurazione, forse non
particolarmente audace, ma accolto con un sospiro di sollievo da quanti
ritenevano la svolta pop un incomprensibile tradimento.
Little Rope
rappresenta un ulteriore passo avanti nella direzione giusta, è un
lavoro di qualità, che riassume al meglio tutto lo Sleater - Kinney
pensiero: lo stridere disturbante delle due voci, le melodie oblique,
gli spigoli acuminati di riff assassini, l’ardore scompigliato di
assalti sonori all’arma bianca, i testi abrasivi e senza fronzoli.
Una
mise en place, questa volta, ispirata, però, al dolore e alla perdita:
nell’autunno del 2022, infatti, la madre e il patrigno di Carrie
Brownstein sono rimasti entrambi uccisi in un incidente stradale mentre
erano in vacanza in Italia. Non c’è da stupirsi, quindi, che il disco
bruci di un’intensa passione e sia plasmato da mani colme di sincera
angoscia e tristezza. In alcuni passaggi del disco questo aspetto è
quasi tangibile.
C'è un momento, ad esempio, durante nel ritornello finale di "Say It Like You Mean It", l’episodio migliore e più catartico di Little Rope, in cui la voce di Corin Tucker sale a un registro più alto con un'intensità così febbrile da lasciare quasi senza parole (“Say it like you mean it, i need to hear it before you go, say it like you mea nit, this goodbye hurts when you go”).
Un momento di grande tensione, che suona davvero come un omaggio
all’amica, una dimostrazione di empatia, di condivisione, un forte
abbraccio a un affetto che soffre. D’altra parte, molto del materiale
che è confluito in scaletta era già stato scritto, ma questa improvvisa e
toccante perdita ha costretto la coppia a ricalibrare il proprio
approccio in studio, rendendolo più oscuro e maggiormente patetico
(nell’accezione positiva del termine).
Fatta
questa doverosa precisazione, il resto del disco non pone in essere
alcuna rivoluzione, ma rappresenta semmai una piccola evoluzione
rispetto al suo predecessore in termini di scrittura. Insomma, siamo di
fronte al classico disco Sleater - Kinney, e come tale anche
straordinariamente conciso nella sua esecuzione. In tal senso, "Small
Finds" e "Six Mistakes" incanalano quell’elettricità disturbata e
quell'energia ferocemente dissonante, coerente con la storia della band,
mentre la muscolare "Needlessness Wild" si espande verso un rock
emozionale e carico di hook che fece la fortuna di un disco splendido
come No Cities To Love (2015), e l’eccellente apertura di
"Hell" gioca una delle carte migliori del mazzo del duo, e cioè il
contrasto fra strofe cupe, quasi statiche, e ritornelli esplosivi.
Negli
ultimi 30 anni, le Sleater-Kinney hanno tracciato un percorso unico,
passando dagli albori riot grrrl, attraverso l’alternanza fra
sperimentazione e ricerca della forma canzone, fino alla realtà odierna,
in cui la maturità ha ridefinito ulteriormente il segno distintivo
della loro urgenza, riletta attraverso le lenti di quello che sembra un
definitivo equilibrio. E’ stato un viaggio lungo, complicato,
punteggiato di sconfitte, perdite e dolore, ma oggi come allora è una
gioia sentire uscire dalla casse dello stereo la musica di queste
ragazze, il cui sodalizio, oggi più che mai sembra, sembra forte,
incrollabile, proiettato verso il futuro.