giovedì 28 marzo 2024

Jack Russell / Tracii Guns - Medusa (Frontiers, 2024)

 


Diciamolo francamente: nessuno avrebbe mai immaginato una collaborazione di questo tipo, mettere insieme, cioè, due dei più grandi nomi del rock e del metal degli anni '80, Jack Russell, cantante e fondatore dei Great White, e Tracii Guns, fondatore e chitarrista dei L.A. Guns. Due stelle, certo, ma che pur appartenenti alla stessa galassia, non hanno mai vissuto molto vicino tra loro. Alla Frontiers, però, hanno le idee molto chiare e vedono lontanissimo, si sono presi un rischio e hanno centrato in pieno il bersaglio.

Perché questo inaspettato Medusa è un disco che suona benissimo, un abbecedario del rock anni ’80, a cui le due figure carismatiche portano il meglio del proprio retroterra musicale: Russell, che non ha perso nulla della sua potenza vocale, attinge a piene mani dal suo bagaglio rock blues, mentre la chitarra di Guns insuffla le canzoni di quell’energia sleaze che lo ha reso famoso. Ad accompagnare i due, ci sono Johnny Martin (basso), Shane Fitzgibbon (batteria) e Alessandro Del Vecchio (tastiere), tre vecchie volpi che lucidano il suono con grande maestria.

Il risultato è sorprendente: sezione ritmica quadrata, grandi ritornelli, riff spaziali e, ovviamente, quella voce lì, che non ha perso un briciolo di smalto. La scaletta è presidiata da canzoni che riecheggiano il rock anni ’80, eppure nulla risulta datato, tutto suona fresco e frizzante, e il talento dei due giganti e dei loro sodali dà lustro a un lavoro che non paga più di tanto debito alla nostalgia.

Fin dall’opener "Next in Line" si capisce che il taglio sonoro poggia maggiormente su quel basamento rock blues su cui la carriera di Russell ha prosperato, ed è quindi interessante la prova di Guns, perché esibisce, in parte, un modo diverso di suonare più funzionale alle canzoni in scaletta. Una scelta di campo vincente e avvincente: "Tell Me Why" sfodera un grande riff e sfoggia un ben calibrato contrappunto di hammond, "For You" è un hard blues veemente, "Give Me The Night" è puro hard rock che punta tutto su un fantastico ritornello e un altrettanto splendido solo di Guns, mentre "Back Into Your Arms" conquista con le sue atmosfere Aor e il tiro funky. E tra tanta impetuosa energia, brilla anche "Living A Lie", virile e malinconica ballata che mette in risalto le straordinarie doti vocali di Russell.  

Medusa non è certo un disco innovativo e tutto ciò che si ascolta in queste undici tracce suona come una riuscita celebrazione di quel suono che andava per la maggiore durante gli anni ’80. Tuttavia, la scrittura non dà segni di cedimento, la produzione di Alessandro Del Vecchio mette ben in evidenza la classe di due grandi musicisti, la band gira a mille e il disco diverte dall’inizio alla fine. Che sia una collaborazione estemporanea o un progetto destinato a durare nel tempo non è dato di sapere. Poco male: infilate il cd nel lettore e la goduria sarà immediata. Hic et Nunc.

Voto: 7

Genere: Hard Rock

 


 

 

Blackswan, giovedì 28/03/2024

martedì 26 marzo 2024

Killing An Arab - The Cure (Small Wonder/Fiction, 1978)

 


Se scrivi una canzone e la intitoli Killing An Arab, inutile girarci intorno, devi essere consapevole di ciò che fai e assumerti tutte le responsabilità che ne derivano, perché è praticamente inevitabile finire nell’occhio del ciclone. Questa canzone, infatti, parla di qualcuno che ha ucciso un arabo su una spiaggia, e riflette sull’omicidio, osservando il corpo della vittima.

Quando Robert Smith la scrisse, però, non si rendeva conto di aver acceso la miccia per un innesco pericolosissimo, che avrebbe causato numerose critiche e fraintendimenti per gli anni a venire. D’altra parte, l’allora imberbe cantante frequentava ancora la scuola, e non aveva idea che qualcuno avrebbe mai ascoltato la canzone oltre ai suoi compagni di classe. 

Il tema della canzone, inoltre, era completamente diverso da quello che poteva evocare il fuorviante titolo: l'esistenza di tutti è praticamente la stessa, tutti vivono, tutti muoiono, tutti soffrono. Il senso è, quindi, quanto di più lontano si possa scrivere da una canzone razzista. Eppure, per lungo tempo, sembrava che nessuno riuscisse a elaborare un concetto che andasse oltre la violenza dirompente contenuta nel titolo del brano. Il quale, come alcuni di voi sapranno, ha preso spunto da un capolavoro dell’esistenzialismo quale Lo Straniero di Albert Camus. Killing An Arab è, dunque, la trasposizione in note di un passaggio del romanzo in cui il protagonista (Meursault) pensa alla vacuità della vita dopo aver ucciso un uomo su una spiaggia, per ragioni che non riesce a spiegare. Il libro è ambientato in Algeria (allora possedimento francese), ed era, quindi, solo per motivi geografici che la vittima fosse un arabo.

Tuttavia, questa canzone venne pubblicata in un momento storico in cui il National Front, un gruppo il cui grido di battaglia era "Keep England White", era in forte ascesa. In alcuni spettacoli, giovani balordi appartenenti al gruppo di estrema destra (spesso skinhead) si presentavano agli spettacoli dei Cure solo per cantare Killing An Arab,  per scoprire, poi, che il gruppo si occupava del lato più introspettivo e sensibile del punk rock. D’altra parte, erano quelli che avevano scritto Boys Don’t Cry, un esplicito invito a non trattenere le proprie emozioni e a esternare i sentimenti, anche attraverso le lacrime. 

Non c’era nulla da fare, però, perché quel titolo era destinato a creare un sacco di problemi a Robert Smith e soci.

I nascenti Cure, infatti, quando registrarono per la prima volta la canzone, avevano firmato un contratto con l'etichetta tedesca Hansa. I dirigenti della casa discografica, però, appena ascoltarono il brano, fecero marcia indietro, spaventati da quel titolo francamente complicato da digerire. Invece di orientarsi verso nuove scelte per compiacere Hansa, i Cure insistettero per la pubblicazione della canzone e, ricevuta l’ennesima risposta negativa, con un'astuta mossa commerciale, riacquistarono i diritti di Killing An Arab e di altre canzoni che avevano registrato per l'etichetta. 

Senza etichetta, la band iniziò a inviare a varie case discografiche copie di un loro demo tape, che conteneva Killing An Arab, Boys Don't Cry, 10:15 Saturday Night e It's Not You, senza, tuttavia, avere risposta. L'unico che si interessò a loro fu Chris Parry, che lavorava alla Polydor, ma stava fondando la sua etichetta, la Fiction Records. I Cure accettarono di firmare con la Fiction e registrarono nuove versioni di Killing An Arab e 10:15 Saturday Night, che furono pubblicate come doppio singolo, distribuito prima dall'etichetta indipendente Small Wonder e poi pubblicato su Fiction. 

Iniziò così una lunga e fruttuosa collaborazione tra la Fiction Records e i Cure. L'etichetta diede alla band grande libertà espressiva, che permise al gruppo di aprire nuovi orizzonti nel genere del rock alternativo. Chris Parry ha prodotto il loro primo singolo e il loro primo album, Three Imaginary Boys, ma poi ha consentito a Robert Smith di assumersi la maggior parte dei compiti di produzione e di prendere il controllo creativo della band.

Com'era prevedibile, il brano suscitò proteste da parte di molti che ne travisavano il significato. Quando i Cure, ad esempio, fecero uno spettacolo al Kingston Polytechnic nel 1979, il sindacato studentesco disse loro di non suonare la canzone. Robert Smith risolse il problema, spiegando le origini letterarie di Killing An Arab a un gruppo di studenti che rappresentavano il sindacato, e la canzone venne quindi inclusa nella scaletta dello show. Ma non era ancora finita.

Quando nel 1986, venne pubblicata la raccolta di singoli Standing On a Beach (titolo che contiene un altro riferimento a Lo Straniero Di Camus), il pubblico americano si accorse dei Cure ma, inevitabilmente, anche di Killing An Arab, la canzone che apriva il greatest hits. Il Comitato anti-discriminazione arabo-americano, sostenendo che i deejay razzisti usassero il singolo per alimentare il sentimento anti-arabo negli Stati Uniti, lanciò una campagna per fare pressione sull'etichetta discografica affinché rimuovesse il brano dalla raccolta. Robert Smith rifiutò, ma accettò di scrivere un messaggio conciliante che apparve sulla copertina dell'album: "La canzone Killing An Arab non ha assolutamente alcun significato razzista. È una canzone che denuncia l'esistenza di ogni pregiudizio e della conseguente violenza che ne deriva. I Cure condannano il suo utilizzo per promuovere sentimenti anti-arabi."

Nelle settimane successive agli attacchi terroristici dell'11 settembre, Robert Smith e la sua canzone finirono nuovamente nell’occhio del ciclone, tanto che il cantante, chiamato in causa da varie testate giornalistiche, sbottò dicendo che se anche il brano non aveva alcun intento razzista, forse sarebbe stato meglio cambiare il titolo. Cosa che i Cure fecero occasionalmente, presentando dal vivo il brano con il titolo alternativo di Killing Another, allo scopo di evitare l'inevitabile fraintendimento del significato della canzone. Durante il loro Reflections Tour del 2011, poi, eseguirono la canzone con il titolo di Killing An Ahab, facendo ironico riferimento al romanzo di Herman Melville, Moby Dick.

 


 

 

Blackswan, martedì 26/03/2024

lunedì 25 marzo 2024

JJ Grey & Mofro - Olustee (Alligator Records, 2024)

 


Definita un po’ troppo frettolosamente southern rock (d’altra parte, JJ Grey arriva da Jacksonville, la città che ha dato i natali a Lynyrd Skynyrd, Blackfoot e 38 Special), la musica di JJ Grey spazia in realtà fra molti generi, mantenendo semmai, come marchio di fabbrica, un piglio orgogliosamente blue collar. Se si vuole fare a tutti i costi un aggancio con la musica sudista, si può dire che il songwriting del nostro frequenta non tanto l’ortodossia del genere, quanto semmai lo sbrigliato approccio fusion dei Widespread Panic, jam band con cui i Mofro hanno molto da condividere.

A prescindere dal gioco delle parentele, quello che però è lampante fin dal primo ascolto, è che le canzoni di Grey sono geneticamente bastarde, nascono su una robusta impalcatura rock, e crescono nutrendosi di tutto ciò che è nero: soul, funky, blues e r’n’b.

Ecco allora, per arrivare al cuore della questione, che questo Olustee può essere definito la summa del JJ Grey pensiero: la musica di un rocker bianco che ha vissuto la propria vita ascoltando tutta la discografia Stax, e che ancora oggi gira in macchina con le cassette di Salomon Burke e James Brown sotto il cruscotto. Passatismo musicale? Nemmeno per idea. Le undici canzoni in scaletta suonano freschissime, intense, immediate. Sia che il nostro si cimenti con i languori della ballata soul, sia che spinga il piede sull’acceleratore delle chitarre.

JJ Grey e i suoi Mofro mancavano dalle scene da ben nove anni, lasciando un vuoto nella discografia di quei fan che hanno seguito il musicista della Florida fin dall’inizio e che avevano goduto come ricci ascoltando Ol’ Glory (2015), bellissimo album di cui si aspettava da tempo un seguito. Olustee, rispetto ai precedenti lavori, è un album in cui l’aspetto intimista è messo maggiormente in risalto, e focalizza l’attenzione sul rapporto uomo natura, in chiave ecologista. Non solo. Grey canta le sue storie personali approfondendo temi universali quali la redenzione, la rinascita, gli incespichi esistenziali e la ricerca della pace interiore, celebrando i bei momenti trascorsi con gli amici di una vita, spesso mescolando un approccio carnale a riflessioni più profonde, magari anche nella stessa canzone.

Il risultato è un disco grintoso e al contempo affabulante, generoso nei saliscendi di una proposta, che gronda passione e onestà.  L’album si apre inaspettatamente con "The Sea", una ballata malinconica che tocca le corde del cuore: chitarra acustica, le carezze degli archi, qualche nota di piano che gocciola lentamente, e la voce calda di JJ Grey che rende omaggio alla pacata bellezza del mare. Un mare fisico, certo, che è quella distesa cristallina che accarezza l’anima, che evoca e strugge, suggerendo visioni di libertà, di viaggi a toccare i confini del mondo; ma anche un mare interiore, la passione che muove l’arte, i languori delle riflessioni più intime, la tendenza a un assoluto spirituale.

L’intero disco è punteggiato da ballate di straordinaria intensità, canzoni da brivido come "On The Breeze", con quel retrogusto seventies, che fonde cantautorato a una profonda anima soul gospel, o come "Seminole Wind" (rilettura di un brano di John David Anderson), una canzone dal profondo retroterra southern, la cui progressione evoca inevitabilmente i Lynyrd Skynyrd, conducendo a un convulso finale spinto verso l’estasi da un fenomenale assolo di tromba.

Non dimentichiamoci però che i Mofro sono una grande live band, predisposta geneticamente alla jam. Ecco, allora, il travolgente groove di brani come "Rooster", un funkettone sudatissimo, che dal vivo potrebbe allungarsi a dismisura, "Wonderland", un irresistibile r’n’b per scatenarsi sul dancefloor, o "Free High", un altro funk spacca ossa, in cui chitarre e fiati s’intrecciano in un mix esplosivo. Chiude "Deeper Than Belief", struggente ballata sui tormenti esistenziali (“Sto resistendo, più profondamente di quanto credo, E lo vedo attraverso tutto lo spazio, il tempo, il pensiero e la mente, Sto resistendo, più profondamente di quanto credo”) levigata da un drammatico arrangiamento d’archi e da un seducente, quanto inaspettato uso del flauto, che pone un conclusivo punto esclamativo su un disco pressoché perfetto, il migliore di una discografia fin qui inappuntabile.

Con Olustee, infatti, JJ Grey ha ancora una volta allargato i confini del proprio talento musicale, lirico e vocale, realizzando un album destinato a diventare un classico di genere. Le canzoni traboccano di immagini e suoni di quel profondo Sud in cui il musicista vive, raccontati attraverso gli occhi di un poeta e cantati con un'anima pura, che lancia un messaggio semplice ma ineludibile: rispetta la natura e cogli l’attimo, rifletti, ma non smettere di divertirti. Mai.

Voto: 9

Genere: Rock, Soul, Funk, R'n'b

 


 

 

Blackswan, lunedì 25/03/2024

giovedì 21 marzo 2024

Cast - Love Is The Call (Cast, 2024)

 


Meno noti dei coevi Oasis e Verve, ma non per questo artisticamente meno rilevanti, i Cast hanno pubblicato, tra il 1995 e il 1999, tre album che sono autentici gioiellini di quel movimento che siamo soliti chiamare brit pop. Capitanati da John Power, bassista di quel leggendario gruppo, i La’s, che con un solo disco hanno indicato le coordinate del nascente genere, i Cast hanno mollato le scene a inizio millennio, per ricomparire dieci anni dopo, pubblicando due lavori (l’ultimo è del 2017) che testimoniavano un ritrovato stato di forma.

Dopo sette anni, ecco il terzetto originario di Liverpool tornare nei negozi con un nuovo album che qualitativamente riporta la band ai livelli degli anni gloriosi. E lo fa in un momento in cui il brit pop sembra vivere una seconda giovinezza: i Shed Seven hanno conquistato la prima piazza delle classifiche inglesi, i Kula Shaker hanno appena pubblicato uno dei migliori dischi della loro storia, Pulp e Blur fanno il tutto esaurito negli stadi, mentre è da poco uscito un album che vede collaborare Liam Gallagher e John Squire.

Nostalgia canaglia, verrebbe da dire, se non fosse che il terzetto guidato da John Power si ripresenti ai propri fan con un lavoro che, per quanto strettamente connesso con quelle sonorità nineties, risulta figlio di un ispirato e scintillante songwriting. Chitarre croccanti, melodie accattivanti e deliziose armonie vocali, sono la forma e la sostanza di undici canzoni che solo apparentemente suonano come clichè di un’epoca passata, ma che, ascolto dopo ascolto, crescono esponenzialmente grazie ai giochi di prestigio di una scrittura diretta ma anche ricca di momenti imprevedibili.

Bastano un minuto e trenta secondi per essere risucchiati dai solchi di Love Is The Call, basta quell’incipit, "Bluebird", una delizia folk pop, breve ma potente, per catturare i battiti del cuore, incredibile sintesi del meglio del suono inglese, coagulo di reminiscenze che portano a Bowie e a McCartney. E quando parte la successiva "First Smile Ever", con quei riverberi gospel in sottofondo, sembra di essere tornati nel cuore degli anni ’90, il ritornello irresistibile e quel mood che fonde leggerezza e nostalgia, esuberante allegria e il retrogusto dolce amaro della malinconia.

E’ il meglio del brit pop, fuori tempo massimo, forse, ma ancora incredibilmente fresco e accattivante. Provate, allora, a trattenervi dal canticchiare il ritornello di "The Rain The Falls", con quell’atmosfera mod inebriante e nebulosa, un brano minaccioso e scanzonato al contempo, che intreccia splendide armonie vocali con un cambio di tonalità che fa atterrare la canzone dolcemente dopo essere stata lanciata nella stratosfera. E che dire di "Far Away", un brano che sembra rimbalzare grazie a un ritornello appiccicoso, che gonfia l’anima a dismisura e che induce a una strana sensazione, in cui lacrime e gioia si fondono in un inebriante momento di estasi?

Tutto in questo disco è di bellezza cristallina, la voce di Power sembra la migliore che abbia mai avuto e la chitarra di Liam "Skin" Tyson, suona energica, sciolta ma serrata, dando al disco una velocità ariosa, più contigua al rock’n’roll che al pop (ascoltare il riff della psichedelica "Love You Like I Do" o quello della title track).

In scaletta, non c’è una sola canzone che non sia degna di nota, un ritornello che non spinga a cantare a squarciagola, che sia l’ispida "Starry Eyes" o siano le distorsioni della rumorosa "I Have Been Waiting", tutto si infila in testa alla velocità della luce, si memorizza la bellezza della melodia, ciascuna delle quali brilla di luce propria in un contesto di perfetta coesione.

E se non bastasse, sul finale arrivano i due brani migliori del lotto, "Time Is Like A River", mid tempo immerso in sentori psichedelici anni ’60, ritornello beatlesiano e contrappunto straniante di una tromba inaspettata, e "Tomorrow Call My Name", capolavoro di scrittura, in cui un gentile arrangiamento d’archi avvolge un suono che fonde sixties e Verve, verso un finale che strapazza il cuore d’emozioni.

A produrre c’è Youth (bassista dei Killing Joke e mago del brit pop), a cui si deve un suono asciutto, incisivo e privo di inutili orpelli. Un plus non da poco, esattamente come la copertina del disco, una delle più belle pubblicate quest’anno.

Voto: 8

Genere: Brit Pop, Rock, Psichedelia 




Blackswan, giovedì 21/03/2024

mercoledì 20 marzo 2024

Riders On The Storm - The Doors (Elektra, 1971)

 


Un ultimo lascito, un addio, il canto del cigno. Chiamatela come volete ma Riders On The Storm è, a tutti gli effetti, l'ultima canzone registrata da Jim Morrison, che subito dopo lasciò il gruppo per trasferirsi a Parigi, dove morì (il 3 luglio) qualche settimana dopo la pubblicazione del brano, avvenuta a giugno del 1971.

Riders On The Storm può essere vista come un resoconto autobiografico della vita di Morrison: anche lui si sentiva come un “cavaliere nella tempesta”, anche lui, in qualche modo, avrebbe potuto essere un “killer On The Road”.

Un’immagine, quest’ultima, che, infatti, fa riferimento a una sceneggiatura per un film da lui scritta, intitolata The Hitchhiker (An American Pastoral), in cui Morrison avrebbe interpretato la parte di un autostoppista che commette una serie di omicidi. Nel 1962, mentre Jim frequentava la Florida State University a Tallahassee, vedeva una ragazza di nome Mary Werbelow che viveva a Clearwater, a 280 miglia di distanza. Jim spesso faceva l'autostop per andare a incontrarla. Quei viaggi solitari sulle calde e polverose strade asfaltate della Florida, il pollice in fuori e la testa frastornata da poesia, amore e nichilismo, rappresentavano, per una mente fervida, un’avventura pericolosa, in cui il giovane cantante rischiava, ogni volta, di imbattersi in ruvidi camionisti redneck, omosessuali alla ricerca di incontri estemporanei, predatori sessuali o semplici malintenzionati.

Un’esperienza, questa, che creò una cicatrice psichica indelebile nell’anima del giovane Jim, i cui taccuini iniziarono a contenere ossessivamente scarabocchi e disegni di un autostoppista solitario, un viaggiatore esistenziale, senza volto e pericoloso, uno straniero alla deriva con fantasie violente, un vagabondo misterioso: l'assassino della strada.

E poi, ancora, quel verso “ragazza, devi amare il tuo uomo”, non è altro che un appello disperato alla sua fidanzata di lunga data Pamela Courson, che si trasferì con lui nella fatal Francia.

L’ultima canzone, dunque, racchiudeva parecchi riferimenti alla vita del cantante, la cui anima, sempre più tormentata, non era più in grado di sopportare la vita nella band e le luci della ribalta.

A prescindere dai riferimenti testuali, musicalmente il brano nasce da una jam session in cui i Doors stavano suonando una cover scherzosa di Ghost Riders In the Sky, una canzone da cowboy, scritta nel 1948 di Stan Jones, che fu successivamente registrata da Johnny Cash, Bing Crosby e molti altri. Morrison capì che quella cover poteva essere l’abbrivio per una grande canzone, si inventò il titolo Riders On The Storm e la band iniziò a lavorarci su per trarne un brano originale. La linea di basso fu creata da Jerry Sheff, uno dei due turnisti chiamati in studio per le registrazioni (l’altro era Marc Benno), dopo che Manzarek gli suonò quello che aveva in mente sulla sua tastiera. L’effetto pioggia fu creato dallo stesso Ray Manzarek, utilizzando un piano elettrico Fender Rhodes, e se si presta attenzione durante l’ascolto, poi, è possibile cogliere, alla fine della canzone, un mormorio che recita: Riders On The Storm. Questa sovraincisione è l'ultima cosa che Jim ha fatto prima di morire. Una sovraincisione effimera, sussurrata, che suona come un presagio nefasto, come se il suo spirito bisbigliasse all’ascoltatore dall'aldilà, preannunciando l’esito di un destino crudele.

Il brano è l’ultimo del lato B di L.A.Woman che, come detto, è anche l’ultimo album dei Doors con Jim Morrison. E’ curioso che Paul Rothchild, che aveva prodotto i primi cinque album della band, decise di mollare il gruppo perché non gli piacevano le canzoni. Dopo aver ascoltato i primi demo, disse ai quattro, riuniti in studio, più o meno così: “Questa è musica da cocktail, io non la produco”. A farlo ci pensarono gli stessi Doors, che si fecero aiutare dall’ingegnere del suono, Bruce Botnick.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 20/03/2024

lunedì 18 marzo 2024

Ros Gos - No Place (Beautiful Losers, 2024)

 


Ros Gos, al secolo Maurizio Vaiani, è un poeta dell’anima, un musicista sensibile, colto e profondo, che non ha paura di viaggiare attraverso il suo immaginario sonoro, per scandagliare con coraggio le trame, spesso aggrovigliate, dell’esistenza umana, e osservare, con lucidità ed empatia, il destino del mondo che lo circonda in questi anni bui, in cui l’amore vive un impari battaglia contro l’odio, il dolore, la guerra, e una violenza sempre più ramificata. Da quattro anni, da quando cioè ha iniziato la sua carriera solista, Ros Gos ha raccontato lo smarrimento dell’umanità persa nei viluppi di un post folk desertico (Lost In The Desert) e ci ha guidato, malinconico Virgilio, nello sprofondo dell’inferno dantesco, vivida metafora di una società alla deriva, abisso etico di un mondo senza speranza (Circles).

Ha viaggiato, Ros Gos, con i suoi occhi bene aperti, lo sguardo appassionato e indagatore, appena velato di lacrime, il cuore in tumulto, affabulatore e crooner di spazi aperti e claustrofobici anfratti. Ed è arrivato qui, in un luogo che non esiste, dove l’umanità vive sospesa, tra luci e ombre, tra nichilismo e dolore, tra speranze spesso frustrate e una straziante necessità di redenzione, di pace.

No Place è, dunque, un punto di arrivo, l’approdo di un cammino che vede Ros Gos evolversi senza, fortunatamente, cambiare troppo, sempre più consapevole dei propri mezzi, delle proprie intuizione melodiche, supportate, ancora una volta, dall’ottima produzione di Marco Torriani, il cui tocco sapiente, cesella mirabilmente ogni singola canzone, cercando l’equilibrio tra il buio che ghermisce l’anima e i barbagli di tiepido sole, che riscalda ed evoca serenità.

Il risultato è ancor più sorprendente che nei precedenti lavori: il mood malinconico che attraversa il disco, quelle brume meditabonde che da sempre caratterizzano la scrittura del musicista lombardo, non sono mai state così accessibili, pur senza imboccare la strada del compromesso, dell’esposizione semplicista, della scelta condiscendente. E così, No Place suona benissimo, emoziona senza artifici, conquista con la semplicità di melodie accattivanti, ma mai piacione, suscita palpiti senza mai ricorrere al ricatto della lacrima facile.

Ros Gos plasma e fa convivere, in un suono personalissimo, tutto il suo retroterra musicale, gli ascolti amati da una vita, gli eroi perdenti e maledetti degli anni’90, la new wave e il post punk con cui è cresciuta un’intera generazione, quella che era giovane e piena di speranza nei tanto vituperati anni ’80.

Ciò che ne deriva è un disco che, seppur coerente e coeso nei suoni, si sviluppa in modo vario e fascinoso, in un’altalena emotiva di dieci canzoni, tutte necessarie, tutte egualmente accattivanti. Un viaggio nel viaggio, a partire dall’incipit di "My Cure" (ritmica arcigna sottostante un tessuto malinconico di cupa new wave), che si sviluppa in un percorso di elettriche fluorescenze dream pop ("Doll"), nell’infuocato noise di "Unexpressed Love", tenebroso crocevia della morte fra Mark Lanegan e Iggy Pop, nelle extrasistole anfetaminiche a là Radiohead della title track, nella soavità vellutata "The Slide" (con quello splendido arpeggio che ricorda "Thirteen" dei Big Star) e nella chiosa fragile, sospesa ed emotivamente disarmante di "I Still Need You". Un finale che sa di accettazione e pacificazione, di ritrovata pace, di luce, nonostante tutto il male che ci circonda.

Voto: 8

Genere: Alternative, New Wave, Post Punk

 


 

 Blackswan, lunedì 18/03/2024

 

giovedì 14 marzo 2024

Dolores Hitchens - La Gatta Ha Visto Tutto (Sellerio, 2023)

 


Miss Rachel Murdock, un’anziana signora, è l’investigatrice dilettante, coadiuvata dal burbero tenente Mayhew. Una mattina di tranquilla routine, riceve una chiamata dalla nipote Lily. Questa le chiede di venirle in aiuto nella città dove abita, senza dire il perché. La zia parte subito. Porta con sé la gatta Samantha, felino accudito con particolare cura perché ha ereditato la fortuna della bizzarra zia Agatha. Senza apparente motivo. Lily viene improvvisamente uccisa, nella stessa stanza in cui anche Rachel, avvelenata e priva di coscienza, rischia di morire, sotto gli occhi della gatta. Nella scena insanguinata entra il tenente Mayhew, quanto di più lontano si possa immaginare dalla quieta raffinatezza di Rachel. La coppia così assortita non potrebbe mai raggiungere l’obiettivo senza decifrare i messaggi della gatta Samantha. «C’era qualcosa di strano... di strano e di diverso nella gatta».

 

La Gatta Ha Visto Tutto della texana Dolores Hitchens è un piccolo classico, il primo di una serie di gialli che hanno come protagonista un’improvvisata detective dilettante, l’anziana Rachel Murdock. L’azione si svolge in una pensione e una pletora di personaggi fanno a gara per candidarsi se non al ruolo di colpevole, quanto meno a quello di persona poco raccomandabile. L’atmosfera del romanzo rimanda immediatamente ai gialli firmati da Agatha Christie, nello specifico a Miss Marple, o alla serie tv La Signora In Giallo: anche Miss Rachel è quella che un tempo veniva definita “zitella”, è avanti con gli anni e si cimenta nell’investigazione per puro diletto.

Pioniera della cosidetta “domestic suspence”, la Hitchens crea una mise en place quasi teatrale, in cui l’azione è ridotta ai minimi termini e prende corpo solo nel concitato finale. Ciò non toglie nulla, però, a un romanzo che catalizza immediatamente l’attenzione del lettore: non mancano i colpi di scena, gli indizi per scoprire il colpevole sono disseminati con cura in tutte le trecentoquaranta pagine del romanzo, seppur mimetizzati con arguzia, e la gatta, testimone involontario dell’omicidio, è la geniale chiave di volta per risolvere il mistero, non proprio di facile soluzione.

La prosa, a dire il vero, è un po’ “age”, molto classica nel suo sviluppo, che rispecchia perfettamente il periodo in cui il giallo fu scritto (la pubblicazione avvenne nel 1938) e che si sposa coi tempi dilatati degli arguti ragionamenti dell’anziana protagonista, la quale, peraltro, è tutt’altro che inerme.

Tuttavia, il romanzo è estremamente innovativo per gli standard dell’epoca, grazie alle voci fuori campo di due personaggi che commentano i fatti ex post, all’atmosfera decisamente inquietante, e all’inaspettata violenza di alcuni passaggi, in cui non si lesina sul sangue, mettendo a nudo la cruda efferatezza di un omicida senza scrupoli.

Non solo: Miss Rachel ed il giovane tenente Mayhew (ufficialmente incaricato di condurre le indagini) sembrano, ad un certo punto, scambiarsi i ruoli, in un gioco delle parti per certi aspetti sorprendente, perché, come il lettore avrà modo di verificare in prima persona, sarà la diversamente giovane Rachel Murdock a impegnarsi in azioni pericolose e spericolate, lasciando all’ingombrante poliziotto il compito di affrontare gli eventi in modo più equilibrato e saggio. Ingegnosi escamotage letterari, questi, che rendono La Gatta Ha Visto Tutto una lettura affascinante, piacevolissima e intrigante, che non deluderà gli amanti del genere.

 

Blackswan, giovedì 14/03/2024

martedì 12 marzo 2024

Ironic - Alanis Morissette (Maverick/Reprise Records, 1995)

 


Se il significato di “ironia” è usare delle parole per trasmettere il contrario del loro significato letterale, creare cioè un’alterazione spesso paradossale della realtà, allora, forse, il testo di Ironic, decima traccia da Jagged Little Pill, terzo album della cantante canadese Alanis Morissette, non lo è. O meglio, lo è nelle intenzioni di chi l’ha scritta, ma molto meno dalla prospettiva di chi ascolta. Gli eventi descritti nella canzone (la pioggia il giorno del matrimonio, l’aereo che precipita, la grazia che arriva nel braccio della morte con due minuti di ritardo), infatti, sono eventi drammatici, ma non esempi di ironia.

Basta dare una fugace lettura al testo, per rendersene conto: ”Un vecchio ha compiuto novantotto anni, Ha vinto alla lotteria ed è morto il giorno successivo, È una mosca nera nel tuo Chardonnay, È la grazia del braccio della morte, due minuti troppo tardi, Non è ironico, non credi?” E ancora: “Ha aspettato tutta la vita prima di prendere quel volo, mentre l'aereo precipitava pensò "Beh, non è carino". E non è ironico, non credi?”

Non è, quindi, un caso che questa famosissima canzone abbia attirato sulla Morissette parecchie critiche, tanto che il London Times, in un’intervista del 2008, domandò alla songwriter canadese se finalmente fosse riuscita a comprendere il vero significato della parola “ironia”. E che la canzone non fosse percepita come ironica, ne è dimostrazione il fatto che, per quel riferimento all’incidente aereo, la stessa venne inserita, dopo l’11 settembre, nella lista delle canzoni inappropriate. Lo stesso Glen Ballard, coautore delle liriche, qualche anno dopo, ammise candidamente che, nonostante la sua laurea in letteratura inglese e la passione per T.S.Elliot, l’uso dell’ironia nel testo non era tecnicamente corretto. Tuttavia, la Morissette ha sempre sostenuto che il significato della canzone sta nella parte finale, in cui lei canta che “La vita ha un modo strano di coglierti di sorpresa, La vita ha un modo divertente di aiutarti”. In definitiva, dunque, esiste un’ironia di fondo: ciò che davvero è ironico è che le cose brutte ci aiutano ad arrivare dove stiamo andando. Come a dire: la vita ci prende in giro, ci fa brutti scherzi, ma alla fine, in qualche modo, ci forma il carattere e ci rende migliori.  

La Morissette scrisse Ironic insieme al citato Glen Ballard, che ha anche prodotto l'album Jagged Little Pill. I due si incontrarono nel marzo del 1994, quando lei si trasferì a Los Angeles dal Canada per cercare nuove strade espressive e rompere con il passato dance pop dei due album precedenti. Con Ballard, scrisse ben venti canzoni, dodici delle quali finirono per comporre la scaletta dell’album.

Il brano fu scritto il 26 maggio 1994, all'inizio della loro collaborazione, dopo un pranzo nella trattoria italiana da Emilio, dove avevano mangiato insalata e bevuto tè ghiacciato. Durante la conversazione, la Morissette se ne uscì con la frase:” 'Non sarebbe ironico per un vecchio vincere la lotteria e morire il giorno dopo?". Dieci minuti dopo erano in studio a scrivere e a dare inizio alla magia di un disco che fece incetta di premi e guadagnò la prima piazza delle classifiche di mezzo mondo, arrivando seconda anche nelle chart italiane.

In un’intervista alla rivista Q nel 1999, Morissette ricordò la sessione di scrittura della canzone: "È stato piuttosto divertente, perché quando Glen e io eravamo in studio a scriverla, stavamo solo cercando di farci ridere a vicenda. Non pensavamo nemmeno all'ironia in quel momento. E questa è probabilmente la cosa più ironica della canzone."

 


 

 

Blackswan, martedì 12/03/2024

lunedì 11 marzo 2024

Caligula's Horse - Charcoal Grace (Sony/Insideout, 2024)

 


Australiani, nati a Brisbane nel 2011, i Caligula’s Horse (nome bellissimo, ispirato a Incitatus, il cavallo che Caligola voleva nominare console) si sono ritagliati, disco dopo disco, una piccola nicchia di consensi nel mondo prog metal.

Pubblicato a maggio 2020, il quinto disco della band, Rise Radiant, li vedeva in forte ascesa, grazie anche a sempre maggiori consensi della critica specializzata e a vendite che iniziavano a diventare importanti. A causa della pandemia e del successivo lockdown, però, il quartetto non ha potuto capitalizzare il duro lavoro fatto: niente tour in giro per il mondo, e una promozione passata, quindi, in secondo piano, a causa dei noti avvenimenti.

D’altra parte, il 2020 è stato un anno strano, l’esplosione del covid ha creato un vero e proprio senso di incertezza per tutti i musicisti, soprattutto quelli meno affermati, che si sono trovati a fare i conti con un totale sovvertimento di quelli che erano schemi ben collaudati. Il chitarrista della band, Adam Goleby, poi, ha lasciato il progetto nel luglio del 2021, mettendo a serio rischio l’esistenza stessa dei Caligula’s Horse.

Invece, a dispetto di tutto, i prog metaller australiani hanno usato questo momento di profonda incertezza come carburante creativo per il nuovo Charcoal Grace, un album che fa i conti, definitivamente, con le esperienze vissute in quei giorni tragici, quasi una sorta di catarsi per poter guardare al futuro con speranza e rinnovata consapevolezza.

In scaletta, sei canzoni, per più di un’ora di ascolto, tra chitarre ribassate e approccio sinfonico, che permettono subito un accostamento della band australiana con maestri del genere, quali Haken o Leprous. La prima, immediata impressione, poi, è che Charcoal Grace sia un disco per cui un ascolto superficiale è del tutto impossibile, anche perché, come spesso accade per gli album di prog, la vera esperienza consiste nell’ascoltare l’opera nella sua interezza. Non ci sono, infatti, hook memorabili che fanno emergere un brano sugli altri (forse, la sola "Sails" resta impressa subito, grazie alla melodia evocativa), ma se ci si abbandona, senza interruzioni, al flusso creativo della band, è possibile cogliere tutta l’emotività che attraversa la scaletta, e sperimentare l'angoscia, il vuoto, il dolore e poi la speranza e quei barlumi di gioia che i Caligula’s Horse cercano di esplorare e trasmettere.

Non è un caso che il corpus centrale dell’opera sia la title track, una suite di ventiquattro minuti, divisa in quattro parti, con cui la band affronta il tema delicato del rapporto di un bambino coi genitori separati. Un viaggio nella psiche tormentata dell’infanzia, che non può essere sezionato, ma solo assimilato nella sua complessa e complessiva durata, attraverso il fil rouge di un saliscendi emotivo, in un alternarsi di luce e oscurità, di momenti leggeri e delicati che trovano il contrappunto nelle sferzate di riff taglienti.

Un brano che è la chiave di lettura di un disco la cui anima prog, quella capacità, cioè, di cambiare registro in modo da rendere articolata la narrazione, è del tutto evidente nell’ora abbondante di ascolto, che regala altri momenti decisamente riusciti, come i due singoli, "The World Breathes With Me" e "Golem". 

Alla resa dei conti, tuttavia, qualche appunto occorre farlo. Di sicuro Charcoal Grace è un disco più vicino alla sensibilità di chi ama il rock progressive rispetto a chi, invece, è aduso a suoni più pesanti. Le grandi qualità tecniche del quartetto sono clamorosamente in luce, forse fin troppo, con la conseguenza che, in alcune sue parti, il disco suona come un mero sfoggio di abilità, che toglie respiro emotivo alle composizioni. Un approccio meno sofisticato e più lineare, e degli arrangiamenti più asciutti, avrebbero reso un miglior servizio a buone idee compositive e a un pathos che, solo a sprazzi, suona realmente autentico. Non una bocciatura, e ci mancherebbe, ma la sensazione che un surplus di spontaneità avrebbe fatto guadagnare punti a un album che non sempre trova il giusto slancio per toccare il cuore dell’ascoltatore.

VOTO: 7

GENERE:  Progressive Metal




Blackswan, lunedì 11/03/2024

giovedì 7 marzo 2024

Kula Shaker - Natural Magik (Strange F.O.L.K. LLP, 2024)

 


Composti dal frontman Crispian Mills, dal bassista Alonza Bevan, dal batterista Paul Winterheart e dal tastierista Jay Darlington, i Kula Shaker hanno plasmato un suono unico nell'era post-Britpop alla fine degli anni '90, con alcuni splendidi dischi (e dall’ottimo riscontro commerciale) ispirati alla musica indiana e allo spiritualismo. La loro è stata una carriera altalenante, segnata da scioglimenti e reunion, l’ultima delle quali ha già prodotto un ottimo lavoro intitolato 1st Congregational Church of Eternal Love (And Free Hugs) uscito nel 2022.

Questo Natural Magick è, dunque, il secondo disco della band dopo un lungo iato e, rispetto al suo predecessore, pur mantenendo intatte le caratteristiche di un suono collaudatissimo, risulta essere più immediato e virato decisamente alla ricerca della melodia. Un canovaccio, quello su cui si basa la musica dei Kula Shaker, che pesca a mani basse nella psichedelia anni ’60, citando illustri nomi di quegli anni d’oro, e che si colora, qui e là, di spruzzate di folk indiano, che è da sempre l’elemento distintivo della loro proposta.

Il brano di apertura "Gaslighting" risucchia immediatamente l’ascoltatore nel mondo KS: ritmiche serrate, handclapping, spolverate d’organo e quel riff pazzesco che riporta a "All Day And All Of The Night" dei Kinks. "Waves" incastona una melodia brit pop tra sitar e chitarre distorte, è il brano più orecchiabile e spensierato dell’album grazie a un ritornello appiccicoso, che si manda a memoria fin da primo ascolto.

Un uno-due dal tiro pazzesco, che si fa ancora più vibrante nella traiettoria funky della title track, chitarrina ipnotica, coretti sbarazzini e linea di basso trascinante, per un brano che spinge l’ascoltatore verso uno scatenato dancefloor. I due minuti e mezzo di "Indian Record Player" si tuffano a testa bassa nella psichedelia anni ’60, citando Kinks e Yardbirds, e sfoggiando inusuali e sfavillanti arrangiamenti, mentre "Chura Liya (You Stole My Heart)" crea uno straniante crossover fra musica indiana e mariachi dai risultati sorprendenti.

Il livello d’ispirazione resta sempre altissimo, anche quando la band si diverte a citare smaccatamente i Beatles in "Something Dangerous", a tirar fuori dal cilindro un ballatone soul per cuori infranti ("Stay With Me Baby"), a immergersi nel misticismo indiano di "Happy Birthday", o a spendersi in messaggi politici tranchant nell’acidissima "Idontwannapaymytaxes" ("Non voglio pagare le mie tasse/Non voglio pagare per la terza guerra mondiale/Non voglio pagare le mie tasse") e nel funkettone di "F-Bombs", in cui Mills canta in modo da non lasciar spazio a fraintendimenti: "Fanculo la guerra, fanculo le tasse, fanculo gli uomini del governo". 

Se la malinconica "Whistle And I Will Come" è immersa fino al collo nel brit pop anni ’90, "Kalifornia Blues" mette la retromarcia fino a sixties, grazie a un ritornello che evoca i Fab Four, e la conclusiva "Give Me Tomorrow" sigilla il disco pescando una splendida melodia anni ’50, per un lentone da ballare guancia a guancia con l’amata.

Natural Magik è un grande disco, e, a livello di ispirazione e songwriting, può essere tranquillamente accostato ai migliori lavori dei Kula Shaker, quali K (1996) e Peasants, Pigs & Astronauts (1999). Una traversata di tredici canzoni lungo un sentiero hippie e pischedelico ben delineato, che guarda al passato con uno sguardo divertito, che sa emozionare con melodie uncinanti, e che resta ben piantato anche nel presente, prendendo posizioni politiche chiare e non più defettibili. Peace And Love, fate l’amore e non fate la guerra: concetti antichi, che, oggi, purtroppo, si vestono di una nuova e drammatica urgenza.

Uno dei dischi migliori usciti in questo primo scorcio di 2024.

VOTO: 8,5

GENERE: Psichedelia, pop, rock

 


 


Blackswan, giovedì 07/03/2024

martedì 5 marzo 2024

Extreme - Extreme II: Pornograffiti (A&M, 1990)

 


Questa recensione è probabilmente un esercizio sterile e ridondante, dal momento che su Pornograffi degli Extreme si sono già spesi fiumi d’inchiostro. Tuttavia, è plausibile che una hit come "More Than Words", quinta traccia dell’album e vero e proprio tormentone datato 1990, abbia in qualche modo oscurato il resto di una scaletta, il cui livello di ispirazione e di songwriting è a dir poco strepitoso.

Questo, infatti, è un grandissimo disco rock (o hair metal, vedete voi), uno dei più importanti del decennio in cui è stato concepito e, valutato poi attraverso il filtro dei trentaquattro anni trascorsi dalla sua uscita, un’opera che, in senso assoluto, ha resistito alle angherie del tempo e che, consigliamo vivamente, non debba mancare nella discografia di ogni appassionato di genere.

Un album che ha un’unica grande pecca: essere stato pubblicato fuori tempo massimo, in un momento in cui il mondo della musica stava imboccando un’altra strada. Gli Extreme sono stati uno degli ultimi grandi gruppi emersi dalla scena hair metal alla fine degli anni Ottanta, una band dal talento smisurato, ambiziosa, in un certo qual modo sperimentale e dotata, vieppiù, di un clamoroso bagaglio tecnico, di cui forse non tutti si sono accorti. Ma in quegli anni, la scena stava per essere cannibalizzata dal grunge, un movimento che si collocava agli antipodi di quella musica che, nel decennio precedente, aveva fatto letteralmente sfracelli.

A un orecchio attento, però, non può sfuggire lo straordinario arsenale tecnico e la fantasiosa qualità di scrittura di una band che, tenetelo bene a mente, annoverava fra le sue fila quattro musicisti di livello superiore, il cui straordinario affiatamento trasformava gli Extreme in una vera e propria macchina da guerra.

Comandante supremo del progetto era Nuno Bettencourt, che fu, ed è tuttora, uno dei più grandi chitarristi rock in circolazione. E poco importa che non tutti lo sappiano: basta ascoltare cinque minuti di questo disco per rendersi conto del livello di questo autentico califfo della sei corde. Maestro di riff e tessitore di funambolici assolo, veloce, fantasioso e bizzarro, Bettencourt è un guitar hero che fa cose complicatissime con una scioltezza che lascia disarmati. L'efficacia del suo stile è letteralmente sbalorditiva, così come il suo senso del ritmo e la sua incredibile capacità di inventare grandi variazioni su ogni singolo riff.

Ciò, ovviamente, non significherebbe nulla se il resto della band non fosse all'altezza. Al basso e alla batteria ci sono rispettivamente Pat Badger e Paul Geary, ed entrambi si mettono al servizio delle canzoni, evitando ritmi troppo elaborati e un certo manierismo di cui soffrivano così tante band dell'epoca: sono diretti, muscolari ed essenziali, ma il loro dinamismo rende ancora più vibrante il groove delle canzoni. E poi, c’è Gary Cherone, una sorta di trasformista dell’ugola, il cui timbro potente ma estremamente duttile, si tiene lontano dagli inutili virtuosismi dei cantanti di scuola hair metal, per adattarsi, camaleontico, alle diverse, e talvolta antitetiche direzioni che prende la scaletta del disco.

Pornograffitti, una sorta di concept album che tratta il tema della ricerca dell'amore in una società decadente, eccessivamente politicizzata e schiavizzata dal sesso, rappresenta il momento più alto nella storia della band, ma anche l’inizio del suo declino, di quella citata morte annunciata per mano del grunge. Sorprendente, poi, è il fatto che i due maggiori successi dell'album sono state le canzoni acustiche "Hole Hearted" e la super hit "More Than Words", ottimi brani, certo, ma totalmente non rappresentativi del resto dell'album.

Nonostante il disco abbia ottenuto un triplo disco di platino, è cosa nota, infatti, che molti ignari acquirenti si aspettassero un album in linea con le due citate canzoni, e che, quindi, vinile alla mano, fossero scontenti di trovarsi di fronte alla restante scaletta, in cui abbondano duri riff rock e, in qualche episodio, anche molta sporcizia. La circostanza, poi, che l'album abbia venduto tre milioni di copie, non fu di alcuna consolazione per la band. Alla fine del tour per il loro disco d’esordio, infatti, gli Extreme, che avevano firmato con la A&M un contratto per cui la band doveva alla casa discografica tutte le spese per la registrazione e il successivo tour, erano indebitati fino al midollo. Non c'era altro modo di ripagare l’etichetta, se non quello di realizzare un nuovo album, che, ovviamente, portò la band a indebitarsi ulteriormente per migliaia di dollari. Quando Pornograffitti raggiunse l'apice delle vendite, gli Extreme avevano appena iniziato a pareggiare i conti con la A&M e a guadagnare in proprio, ma di lì a poco, la scena hair metal iniziò a decadere, oscurandone la fama e lasciandoli senza un soldo.

Ciò nonostante, Pornograffiti resta un disco clamorosamente bello, il cui suono muscolare e dinamico prende spesso traiettorie funky, creando un clima divertito e festaiolo, una bisboccia da litri di birra ghiacciata e shot di bourbon, che togliere dallo stereo è davvero un’impresa. Un disco, peraltro, che pur rimanendo fedele a certi canoni espressivi dell’epoca, risulta estremamente vario nel suo svolgimento tutt’altro che monocorde.

Due grandi hit, dicevamo: la prima "More Than Words", è una ballata d’amore per chitarra acustica, caratterizzata dalle sublimi armonie vocali di Cherone e Bettencourt, la seconda, "Hole Hearted", altra ballata dai sentori blues, che diventa il secondo maggior successo dell’album.

Il resto, però, è anche meglio. "Decadence Dance" è una lunga e vibrante apertura, trainata da uno dei tanti riff eccezionali che compongono l'album. Nuno Bettencourt riempie il fraseggio in ogni momento, inventando tocchi di straordinaria fantasia, che aggiungono al brano una tonnellata di groove. Una menzione a parte, meritano anche "He Man Woman Hater", che si apre con i fuochi d’artificio della chitarra di Nuno, qui alle prese con un’esecuzione magistrale de "Il Volo Del Calabrone", brano che ha terrorizzato il fior fiore dei chitarristi, per la folle velocità richiesta, "Get The Funky Out", scintillante sezione fiati, groove funky e metallico, variazioni ritmiche da capogiro e i soliti riff incredibili di Bettencourt, "When I First Kissed You", inusuale ballata in stile Frank Sinatra, riletta con gusto eighties, e "Song For Love", una power ballad stellare, un inno all’amor perduto, avvolta in un arrangiamento d’archi e sfiorata da vaghi intenti progressive.

Per quanto un po’ lungo, Pornograffiti mantiene desta l’attenzione dell’ascoltatore per tutto il suo intrigante svolgimento, tanto che risulta davvero ingiusto che una band di questa caratura, capace di pubblicare un tale capolavoro, sia finita troppo presto nel dimenticatoio, archiviata come una delle tante inutili band hair metal del periodo, e annichilita da quel suono, disperato e malinconico, che prende il nome di grunge e che fagociterà, in termini di successo e di vendite, i primi anni del decennio.

 


 

 

Blackswan, martedì 05/03/2024

lunedì 4 marzo 2024

SLEATER - KINNEY - LITTLE ROPE (Loma Vista, 2024)

 

 


Quasi trent’anni di storia e undici album pubblicati sono il ruolino di marcia di un gruppo che, dopo una folgorante prima parte di carriera, chiusa con uno iato di un decennio, è stato capace di rigenerarsi e di trovare una nuova, appassionata giovinezza. Certo, il percorso per giungere a questo ultimo Little Rope non è stato lineare e di cose importanti, che hanno messo in discussione l’identità della band, ne sono accadute parecchie.

Dopo la svolta synth-pop del monocromatico The Center Won't Hold (2019), prodotto da St Vincent, Carrie Brownstein e Corin Tucker si sono separate, senza tante cerimonie, dalla batterista Janet Weiss, il cui modo di suonare era, letteralmente, una parte fondamentale e identificativa del suono Sleater - Kinney. Quel disco, ritenuto deludente dai fan di vecchia data, produsse il rapido ritorno alla chitarra e al rock con la R maiuscola di Path of Wellness (2021), una sorta di disco della restaurazione, forse non particolarmente audace, ma accolto con un sospiro di sollievo da quanti ritenevano la svolta pop un incomprensibile tradimento.

Little Rope rappresenta un ulteriore passo avanti nella direzione giusta, è un lavoro di qualità, che riassume al meglio tutto lo Sleater - Kinney pensiero: lo stridere disturbante delle due voci, le melodie oblique, gli spigoli acuminati di riff assassini, l’ardore scompigliato di assalti sonori all’arma bianca, i testi abrasivi e senza fronzoli.

Una mise en place, questa volta, ispirata, però, al dolore e alla perdita: nell’autunno del 2022, infatti, la madre e il patrigno di Carrie Brownstein sono rimasti entrambi uccisi in un incidente stradale mentre erano in vacanza in Italia. Non c’è da stupirsi, quindi, che il disco bruci di un’intensa passione e sia plasmato da mani colme di sincera angoscia e tristezza. In alcuni passaggi del disco questo aspetto è quasi tangibile.

C'è un momento, ad esempio, durante nel ritornello finale di "Say It Like You Mean It", l’episodio migliore e più catartico di Little Rope, in cui la voce di Corin Tucker sale a un registro più alto con un'intensità così febbrile da lasciare quasi senza parole (“Say it like you mean it, i need to hear it before you go, say it like you mea nit, this goodbye hurts when you go”). Un momento di grande tensione, che suona davvero come un omaggio all’amica, una dimostrazione di empatia, di condivisione, un forte abbraccio a un affetto che soffre. D’altra parte, molto del materiale che è confluito in scaletta era già stato scritto, ma questa improvvisa e toccante perdita ha costretto la coppia a ricalibrare il proprio approccio in studio, rendendolo più oscuro e maggiormente patetico (nell’accezione positiva del termine).

Fatta questa doverosa precisazione, il resto del disco non pone in essere alcuna rivoluzione, ma rappresenta semmai una piccola evoluzione rispetto al suo predecessore in termini di scrittura. Insomma, siamo di fronte al classico disco Sleater - Kinney, e come tale anche straordinariamente conciso nella sua esecuzione. In tal senso, "Small Finds" e "Six Mistakes" incanalano quell’elettricità disturbata e quell'energia ferocemente dissonante, coerente con la storia della band, mentre la muscolare "Needlessness Wild" si espande verso un rock emozionale e carico di hook che fece la fortuna di un disco splendido come No Cities To Love (2015), e l’eccellente apertura di "Hell" gioca una delle carte migliori del mazzo del duo, e cioè il contrasto fra strofe cupe, quasi statiche, e ritornelli esplosivi.

Negli ultimi 30 anni, le Sleater-Kinney hanno tracciato un percorso unico, passando dagli albori riot grrrl, attraverso l’alternanza fra sperimentazione e ricerca della forma canzone, fino alla realtà odierna, in cui la maturità ha ridefinito ulteriormente il segno distintivo della loro urgenza, riletta attraverso le lenti di quello che sembra un definitivo equilibrio. E’ stato un viaggio lungo, complicato, punteggiato di sconfitte, perdite e dolore, ma oggi come allora è una gioia sentire uscire dalla casse dello stereo la musica di queste ragazze, il cui sodalizio, oggi più che mai sembra, sembra forte, incrollabile, proiettato verso il futuro.

VOTO: 8

GENERE: Alternative, Rock 




 

 

Blackswan, lunedì 04/03/2024