martedì 23 luglio 2024

Crazy On You - Heart (Mushroom, 1975)

 


Ci sono canzoni che attraversano il tempo e non perdono mai di attualità, possono essere vecchie di quarant’anni e adattarsi perfettamente a un contesto solo in apparenza lontanissimo da quello in cui sono state concepite. E’ il caso, ad esempio, di Crazy On You, hit leggendaria e terza traccia da Dreamboat Annie, album d’esordio degli Heart, datato 1975. Una canzone, questa, che esprime l’ansia di vivere in un mondo piagato dalla guerra e dalla criminalità, e che racconta lo spaesamento di una giovane donna, e di tutta una generazione, rispetto a un mondo dominato dal male e dall’orrore. Di certo, Ann Wilson, autrice delle liriche del brano, mai avrebbe pensato che le cupe parole di una parte del testo avrebbero avuto la stessa identica valenza anche nel 2024. La Wilson, che ai tempi aveva vent’anni, era seriamente preoccupata per la deriva presa dalla società in cui viveva: la guerra del Vietnam era ancora in corso, fatti criminosi riempivano le pagine dei giornali, la droga mieteva migliaia di vittime fra i giovani e dal 1973 il mondo viveva una grave crisi energetica.

La Wilson temeva per la propria generazione e per un futuro in cui le speranze di pace erano ridotte al lumicino. E’ l’angoscia a essere protagonista delle prime strofe di Crazy On You:

 

“Se abbiamo ancora tempo, potremmo ancora farcela

Ogni volta che ci penso, mi viene da piangere

Con le bombe e il diavolo, e i bambini continuano ad arrivare

Non c'è modo di respirare facilmente, non c'è tempo per essere giovani”

 

L’unico modo per trovare serenità, allora, e abbandonarsi nelle braccia del proprio ragazzo (che ai tempi era Mike Fisher, tecnico del suono) e cullare un sogno d’amore. E’ l’amore l’arma più potente contro il male di vivere:

“Il mio amore è la brezza della sera che tocca la tua pelleIl gentile, dolce canto delle foglie nel ventoIl sussurro che ti chiama nella notteE ti bacia l'orecchio al primo chiaro di lunaE non devi chiedertelo, stai beneAmore mio, il piacere è mioLasciami impazzire di te”.

Parole dolcissime, poetiche, che fanno da contrappunto a tutte le brutture della vita quotidiana. Versi che suonano come un “grazie a Dio ci sei tu”, àncora di salvezza, romito di quiete, isola deserta dove fuggire, tenendo lontano la malvagità dell’uomo.

E’ curioso come Crazy On You, prima di conquistare gli Stati Uniti e diventare una hit anche in alcuni paesi europei, ebbe i primi riscontri di vendite in Canada, dove la band si era trasferita per evitare che i membri maschi del gruppo fossero arruolati per andare a combattere la guerra in Vietnam. A Vancouver, gli Heart firmarono un contratto con una piccola etichetta chiamata Mushroom, e Crazy On You cominciò a prendere piede nelle trasmissioni radiofoniche grazie a Doug Pringle, un importante dj canadese che, letteralmente impazzito per il brano, lo passava in loop dalle frequenze di radio Montreal CHOM.

Gli anni trascorsi a Vancouver, però, rallentarono la visibilità degli Heart negli Stati Uniti, e Crazy On You raggiunse la trentacinquesima piazza delle charts americane solo nel giugno del 1976, mentre l’album, molto lentamente, giunse a vendere un milione di copie alla fine di quell’anno.

Uno degli elementi distintivi della canzone è la splendida intro di chitarra acustica suonata da Nancy Wlson, quarantacinque magici secondi, dopo i quali entra la chitarra elettrica di Roger Fisher, il fratello di Mike, che aveva ispirato le liriche del brano. Il testo fu scritto da Ann Wilson mentre era a letto in preda a una brutta influenza, e la stessa raccontò che la bellezza delle liriche, che aveva scritto nel delirio della febbre, ebbero un effetto rinfrancante e lenitivo, tanto che un paio di giorni dopo, la cantante era già in studio a lavorare al brano, il cui groove è apertamente ispirato a Question dei Moody Blues.  

Quando gli Heart, nel 2013, furono introdotti nella Rock and Roll Hall of Fame, per la prima volta dal 1979, si riunì sul palco la formazione originale della band, e cioè Ann e Nancy Wilson, Roger Fisher, Howard Leese, Steve Fossen e Mike Derosier. Gli organizzatori, tuttavia, dovettero sudare le classiche sette camicie, perché inizialmente le due sorelle Wilson si rifiutarono recisamente di avere a che fare con i vecchi compagni d’avventura. Alla fine, si trovò un compromesso: insieme solo una canzone, Crazy On You, e poi l’altra super hit, Barracuda, suonata però con la band del momento, insieme a un pugno di ospiti da far tremare le vene dei polsi: Chris Cornell, Mike McCready (Pearl Jam) e Jerry Cantrell (Alice in Chains).

 


 

 

Blackswan, martedì 23/07/2024

lunedì 22 luglio 2024

Airbag - The Century Of The Self (Karisma Records, 2024)

 


L’espressione anglosassone “less is more”, cioè dare una risposta semplice a un bisogno complesso, ben si adatta a The Century Of The Self, sesto album in studio dei norvegesi Airbag, band originaria di Oslo, attiva dal 2004. Solo cinque canzoni, ma dal minutaggio corposo, che scorrono placide, come un lento fiume tranquillo. Sembra non succeda mai niente, eppure questi quarantasette minuti di musica sono densi di emozioni che nascono per sottrazione o da quasi impalpabili stratificazioni, in un flusso che è pacificazione, meditazione, malinconico intimismo.

Creatura nata da un’idea di due compagni di liceo, Asle Tostrup (voce) e Bjørn Riis (chitarra e basso), a cui, nel 2011, si è aggiunto il batterista Henrik Bergan Fossum, gli Airbag hanno ricevuto rapidamente il plauso della critica per una miscela distintiva di rock progressivo, ambient e alternative, influenzata dai loro eroi musicali di gioventù, tra cui i Pink Floyd e i Radiohead (non è un caso che il nome Airbag sia preso in prestito dalla canzone di apertura del capolavoro dei Radiohead del 1997, OK Computer). 

Composto tra il maggio del 2022 e il gennaio del 2024, The Century of the Self conferma lo status degli Airbag come una delle band più importanti emerse dalla scena progressive norvegese degli ultimi decenni. Dalle note iniziali dell'opener "Dysphoria", fino alle chitarre cariche di emozione della chiosa "Tear It Down", questo si presenta come un album seducente e suggestivo, che non ha bisogno di artifici o pirotecnici arrangiamenti per esprimere la sua straordinaria carica melodica.

E’ progressive, ma un progressive asciutto, senza fronzoli, in cui gli strumenti sono al servizio della canzone e non, come talvolta accade, il contrario. È un disco, poi, accessibile e facile da ascoltare, in cui la band evita di esibire la superiorità tecnica del virtuosismo fine a se stesso, per arrivare al sodo di una musica essenziale, che fluisce senza scossoni, e in cui la differenza la fanno piccole variazioni sul tema, che esaltano la bellezza di melodie immediatamente assimilabili

Ci sono passaggi dell’album in cui la musica sembra estremamente semplice, ma questa è un’impressione ingannevole, smentita dall’abilità artistica necessaria nel comporre canzoni di una bellezza così delicata e stratificata con cura artigianale. Se spesso quello del progressive è un linguaggio logoro, quella contenuta in Century Of The Self è un’esperienza di ascolto che supera di slancio i clichè del genere, rivelando più profondità a ogni successivo ascolto.

Sebbene gli Airbag abbiano un'identità musicale distintiva, come dicevamo, le influenze dei Pink Floyd e dei (primi) Radiohead sono evidenti, e ci sono anche sfumature che richiamano alla mente i Porcupine Tree. Durante questo inusuale viaggio sonoro, poi, l’ascoltatore proverà svariati stati d’animo: la cupa linea di basso che traina "Erase" lambisce territori post punk, trasmettendo un senso di ansiogena inquietudine, "Tyrants and Kings" (anche qui il basso in bella evidenza) ammicca a sonorità rock mainstream, declinate sempre con gran parsimonia di arrangiamenti, "Awakening" è una morbida ballata acustica, che sembra uscita dalla penna di Steven Wilson, l’iniziale "Dysphoria" è un volo radente su una melodia minimal a cui vengono aggiunte le spezie di una chitarra dal sapore pinkfloydiano. Chitarra, poi, che è la protagonista assoluta della conclusiva, e lunghissima "Tear It Down", brano che oscilla tra i fremiti malinconici di poche note di synth e di un piano elettrico con vista su OK Computer, le leggere extrasistole di un drumming in controtempo e l’epicità di coinvolgenti assoli di chitarra.  

Il timbro vocale di Tostrup, così apertamente emotivo, lascia respirare la musica, ritagliandosi pochi, ma efficacissimi spazi, mentre è soprattutto il basso di Bjørn Riis, lasciato alto nel mix, a prendersi la scena, evocando la caratura tecnica di altri iconici bassisti prog.

The Century Of The Self non è solo un grande disco, ma conferma ulteriormente la qualità compositiva di una band, il cui merito evidente è quello di insufflare nuova linfa vitale nel cuore di un genere, che troppo spesso ristagna in tropi logori e privi di mordente.

Voto: 8

Genere: Progressive, Alternative

 


 

 

Blackswan, lunedì 22/07/2024

giovedì 18 luglio 2024

Jordan Harper - Tutti Sanno (Neri Pozza, 2024)


 

Da un balcone di quell’hotel è precipitato Jim Morrison, John Belushi è morto di overdose in una delle sue stanze, in un’altra hanno vissuto per un anno Sharon Tate e Roman Polanski: no, il Chateau Marmont, dove Mae Pruett è stata spedita nottetempo a «trattare un problema», decisamente non è un posto qualunque. Non che il lavoro di Mae sia un lavoro qualunque. Nella Los Angeles dello showbiz che fabbrica montagne di denaro, delle magioni principesche che affacciano su misere tendopoli, Mae Pruett ha una specialità: tenere il nome dei suoi clienti – ricchi, potenti, talvolta depravati – fuori dal raggio dei media, ripulire macchie di reputazione, gestire imbrogli e imbarazzi. Con ogni mezzo necessario. E gli occhialoni scuri di Hannah Heard, divetta in declino, nascondono una situazione che è pane per i suoi denti. Ma quando, di lì a poco, il suo capo e mentore Dan Hennigan viene ucciso sul Sunset Boulevard, Mae all’improvviso si ritrova sola di fronte alla Bestia, una rete occulta di potere e corruzione che ha sul libro paga, oltre a lei, una legione di avvocati, pierre, servizi di sicurezza, investigatori – occhi, orecchie, braccia, pugni. La Bestia che stringe tra i suoi artigli la città degli angeli. Nel suo dibattersi, Mae percorrerà le strade della fluorescente megalopoli, soffocata dal fumo dei roghi, popolata dalle gang in guerra, da influencer impillolati e rifatti, predatori a caccia di carne giovane, poliziotti sporchi, anime perdute. E dovrà decidere da che parte stare.

 

C’è una Los Angeles rutilante, fascinosa, regno del cinema, degli influencer e delle star che puoi incontrare al bar, all’ora di colazione. Un mondo in cui dominano l’effimero dell’apparire, i party e i locali alla moda, le palestre, i cibi macrobiotici e gli abiti di tendenza, mentre il sole splende alto a illuminare vite appagate dalla frenesia metropolitana. Dietro le immagini seducenti della cartolina, però, esiste anche un’altra città, fatta di poveracci costretti a vivere in tendopoli sporche e malsane, di traffico e di smog, di droghe e di spaccio, di poveracci disposti a tutto pur di sbarcare il lunario.

Questo contesto contraddittorio è letteralmente fagocitato da un sistema di potere e di corruzione ad altissimo livello (la Bestia), una rete occulta che protegge chi ha soldi per pagare, che svela e nasconde segreti a seconda del tornaconto del momento, che non esita ad utilizzare poliziotti corrotti e poveri disperati come braccio armato di una violenza pret a porter.

Mae Pruett, giovane ambiziosa, fa parte di questo sistema, è chiamata a salvare il culo a quei potenti che hanno bisogno di aiuto, di salvare l’immagine o di nascondere sotto il tappeto la sporcizia dei loro piccoli e grandi misfatti, costi quel che costi. Chris, che in passato ha avuto una relazione con Mae, della quale è disperatamente innamorato, è un ex poliziotto, il cui passato torbido, segnato dalla violenza, dalla corruzione e dall’abuso di steroidi, ha decretato la sua espulsione dal dipartimento. Ora lavora per una società di sicurezza e viene mandato a risolvere “problemi”, a minacciare o picchiare, a seconda dei desiderata di chi lo paga.

Quando Dan, il mentore della Pruett, viene ucciso in circostanze misteriose, Mae e Chris si ritrovano a indagare sull’omicidio, che scopriranno essere solo la punta dell’iceberg di qualcosa di marcio che la Bestia vuole insabbiare.

Tutti Sanno è un grande e inquietante noir, un romanzo che inchioda alla lettura fino all’ultima pagina, che insuffla ansia e pompa adrenalina. Harper scrive da Dio, la sua prosa asciutta, ma efficacissima, richiama alla mente mostri sacri come Don Winslow, Michael Connelly e addirittura James Ellroy.

Non sono, però, solo i colpi di scena costanti e il ritmo serrato a rendere la lettura imperdibile: Tutti Sanno è anche la foto in bianco e nero, e nitidissima, di una società eticamente alla deriva, in cui la violenza, l’immagine e il tornaconto personale sono il carburante di un mondo che, dietro l’apparente e fascinosa aura di un sogno americano alla portata di tutti, nasconde una realtà di vizi e perversioni che non si fa scrupoli a mietere vittime anche fra i più deboli e innocenti. Harper ha, inoltre, il merito di scandagliare l’animo dei suoi due protagonisti, accompagnandoli attraverso un difficile e pericoloso percorso di redenzione: due anime afflitte dal rimorso e dai sensi di colpa, che decidono di combattere il sistema, costi quel che costi, per emendare i rispettivi peccati e fare, finalmente, la cosa giusta.

 

Blackswan, giovedì 18/07/2024

mercoledì 17 luglio 2024

Poverty Train - Laura Nyro (Columbia, 1969)

 


Quarta traccia da Eli and the Thirteenth Confession (1968), quello che è generalmente considerato il lavoro più accessibile e famoso di Laura Nyro, anche se probabilmente non quello di maggior successo commerciale (la palma va al successivo New York Tendaberry), Poverty Train è un brano inquietante, in cui la songwriter statunitense veste i panni di una tossicodipendente persa nel bel mezzo di un trip allucinato e terrificante, dopo aver assunto una dose.

Le liriche non ammettono fraintendimenti, e trasmettono, in chiave quasi horror, immagini che grondano angoscia e paura: 

Puoi vedere i muri ruggire,

vedere il tuo cervello sul pavimento

Diventa Dio, diventa storpio, diventa funky…” 

 

La droga è il male, si presenta vestendo le sembianze di Satana, la protagonista della canzone ne è fin troppo consapevole, ma un gorgo la risucchia e non può farci nulla: 

 

Ho appena visto il Diavolo e mi sta sorridendo

Ho sentito le mie ossa piangere,

Diavolo, perché deve essere così?

Il diavolo ha giocato con mio fratello,

Il diavolo ha scacciato mia madre

Ora le lacrime nei canali di scolo stanno inondando il mare” 

 

La canzone, come spesso accade, nasce da esperienze personali. Un cugino della Nyro, a cui la cantante era molto legata, morì per overdose da eroina un anno dopo la pubblicazione della canzone (nel brano, però, si menziona la cocaina). La stessa songwriter era un’assidua fumatrice d’erba, ma generalmente si teneva lontana dalle droghe pesanti, ad eccezione di una volta, che provò ad assumere LSD, esperienza che le procurò le terribili allucinazioni che poi vennero descritte in Poverty Train.

Da allora, la Nyro smise di assumere acidi, dei cui effetti esiziali si accorse immediatamente. A proposito di quell’episodio, la cantante raccontò: “E’ stato il giorno in cui sono diventata una donna… Durante l'esperienza, dei mostri, metà uomini e metà ratti, entrarono nella mia stanza e mi minacciarono dai muri. Ho raccolto le forze per resistere e dopo nove ore di combattimento spirituale si sono ritirati... Ho vinto la lotta per me stessa. Ho smesso di essere una perdente e sono diventata invece una vincitrice."

Poverty Train fu una delle canzoni (insieme a Wedding Bell Blues e Eli's Coming) che la Nyro eseguì durante la sua sfortunata apparizione al Monterey Pop Festival del 1967, una pietra miliare nella storia della controcultura, che vide il debutto di artisti quali Janis Joplin e Otis Redding. La Nyro soffrì molto quella partecipazione, si sentiva, infatti, ancor prima di iniziare, un pesce fuor d’acqua, totalmente fuori contesto: come poteva lei, cantare canzoni soul jazz raffinate, vestita di un lungo abito nero, davanti a un pubblico hippie accorso per ascoltare Jimi Hendrix?  

Secondo la leggenda, la folla subissò di fischi la cantante, che umiliata fuggì dal palco in lacrime, chiedendo poi al documentarista D.A. Pennebaker di rimuove la sua performance dal film che stava girando sull’evento. Pennebaker obbedì, ma quando le riprese del live act della Nyro comparvero in DVD nel 2002, era chiaro che la cantante aveva catastrofizzando un incidente, che incidente non era.

Anche se il pubblico del concerto, infatti, non era completamente coinvolto nel suo spettacolo, i "fischi" che la Nyro aveva sentito erano in realtà esclamazioni positive di apprezzamento. Insomma, non un successo, ma nemmeno una completa debacle: la cantante, semplicemente, aveva sbagliato contesto, e quel continuo retropensiero l’aveva condizionata emotivamente. Quel pubblico, tra il quale circolavano parecchie sostanze psicotrope, era lì, infatti, per ascoltare la musica che andava per la maggiore, il folk, la psichedelia e l’hard rock, ma nessuno avrebbe mai potuto fischiare una musicista, la cui sensibilità, per quanto distante, era accompagnata da uno strabiliante talento.   
 



 
Blackswan, mercoledì 17/07/2024

martedì 16 luglio 2024

Alcest - Les Chants De L'Aurore (Nuclear Blast, 2024)


 

Il francese Neige, padre padrone del progetto Alcest, è un artista dal talento immenso, forse troppo sottovalutato rispetto a venticinque anni di carriera in cui ha dato lustro al blackgaze, un genere meticcio nel quale confluiscono metal, shoegaze e post rock. Giunto al sesto album in studio, il quarantenne polistrumentista sforna uno dei suoi dischi migliori (ma quali non lo sono?), in cui, come sempre, è il vibrante impatto emotivo a essere la chiave di lettura. 

Les Chants de l’Aurore, rispetto ad altri episodi precedenti, è però un disco traboccante di luce e di colori, un album in cui l’ago della bilancia pende dalla parte di un’emotività gioiosa. Le sette canzoni in scaletta fluiscono e rifluiscono, illuminandosi di lampi melodici accecanti, che poi si dissolvono nella quiete avvolgente di una natura, richiamata, fin dal titolo, dalla misteriosa bellezza dell’alba.

Chitarre riverberate e stratificate, muri di elettricità che si sgretolano di fronte alla potenza invasiva di un tessuto melodico solo a tratti scartavetrato dal furore improvviso di inserti di screaming, mutuati dal black metal, e da un drumming infuocato, che però nulla toglie alle suggestioni cinematografiche e al candore di momenti introspettivi dolcissimi.

Il disco si apre con "Komorebi", termine giapponese che indica la luce che filtra, che tocca l’anima concedendo pace dopo giorni travagliati. Un’esplosione di felicità, il sole che lentamente sorge all’orizzonte in tutta la sua maestosa bellezza, il ritorno alla vita, l’oscurità di brutti sogni che si dissolve nella luminosa carezza dell’astro nascente. Senza rinnegare il proprio approccio shoegaze, il drumming furibondo di Winterhalter e le chitarre che debordano di elettricità, Neige tratteggia un delicato paesaggio naturistico, che trabocca di positività, mentre voci angeliche accompagnano un finale trasognato.

La successiva "L’Envol" si muove sulle stesse coordinate, il riff di chitarra è melodicamente concupiscente, i momenti di stasi, le chitarre riverberate, l’arpeggio sottile di un’acustica che compare all’improvviso suggeriscono un volo a braccia aperte nell’immensità del cielo, e, poi, una caduta libera, in picchiata dalle nuvole. E quando il suolo si avvicina, il cuore è ebbro di gioia, mentre cresce l’estasi di uno schianto emotivo che lascia senza fiato.

In "Amethyste" le trame si fanno poco più ruvide, l’intreccio più complesso, la batteria accelera, le chitarre prendono fuoco, mentre la voce di Neige gioca tra timbro pulito, che spinge verso la luce, e lo screaming che, prima, in lontananza, evoca la tenebra come un dolore obliato che ritorna, e poi, più da vicino, trova spazio, furente, in un luminoso arpeggio in cui respira una melodia senza tempo.

"Flamme Jumelle" è addirittura spiazzante, trasforma in oro l’elettricità sfilacciata di un dream pop declinato con una sapienza che lascia senza fiato, mentre "’Enfant De La Lune" è un continuo sali scendi, in cui il furore black metal divampa come un incendio e intorno, a ondate, arrivano emozioni indecifrabili, la voce si fa languida, quasi soave, prima che il drumming si faccia battente e spinga verso una luce sfolgorante, quasi mistica.

Se la breve "Riminiscence" si muove leggiadra sulle note di un pianoforte e sul ronzio di un violoncello, aprendo le porte a suggestioni classiche, e la conclusiva "L’Adieu" suona come una transizione aggraziata dalla luce accecante del giorno alla frescura della sera, il sole che tramonta in lontananza, la magia dell’ora blu che avvolge di sentimento il nostro cuore finalmente pacificato.

Potremmo definire Les Chants de l’Aurore come un disco concettuale, che rappresenta il trionfo della luce sull’oscurità, la rivincita della natura sull’orribile realtà che ci circonda, un ritrovato predominio della poesia sul prosaico scorrere dei giorni. Forse, però, si toglierebbe respiro a queste sette scintillanti composizioni, si farebbe un torto a questo album meraviglioso, la cui forza evocativa centra in pieno il bersaglio più importante che si prefigge la musica: emozionare.

Voto: 9

Genere: Blackgaze, Dream Pop, Post Rock

 

 



Blackswan, martedì 16/07/2024

lunedì 15 luglio 2024

The Blow Monkeys - Together/Alone (Last Night From Glasgow, 2024)

 


Era sicuramente uno dei musicisti più talentuosi della scena pop britannica glamour degli anni '80. Eppure gli è sempre mancato qualcosa per essere al top accanto a frontman come George Michael, l’amico Paul Weller o Boy George, solo per citarne alcuni. Non è stato certo perché gli mancassero abilità come cantante, compositore e interprete, ed era anche un ragazzo di bell’aspetto, che si presentava al pubblico cavalcando con stile le mode del momento. Semplicemente, Robert Howard, alias Dr. Robert oltre che leader dei Blow Monkeys, è rimasto nelle retrovie perchè non gliene fregava un cazzo, nonostante alcuni successi che, ai tempi, scalarono le classifiche britanniche (Digging Your Scene, It Doesn't Have To Be This Way, Wait).

Non sono mai stato una pop star così di successo da non poter più uscire per strada, non volevo esserlo", parole, queste, pronunciate dall’ormai sessantreenne musicista scozzese, non più tardi di un anno fa, che testimoniano di una personalità schiva, concentrata sul proprio lavoro, indifferente all’esposizione mediatica, eppure, oggi come allora, più ispirata che mai.

La quale, dopo una lunga pausa tra il 1990 e il 2007, ha ripreso in mano la propria creatura, pubblicando album con cadenza regolare. L’ultimo, uscito qualche settimana fa, s’intitola Together/Alone, e vede all’opera, oltre a Dr. Robert, anche il sassofonista Neville Henry e il bassista Mick Anker (entrambi membri originari della band) e il batterista Crispin Taylor (nella line up dal 2017).

E’ ancora sophisti-pop esattamente come ai bei tempi andati: un sottogenere che incorporava anche elementi jazz e soul, e si esprimeva attraverso arrangiamenti eleganti e raffinati, che non disdegnavano l’uso dei fiati e degli archi.

In tal senso, questo nuovo lavoro conferma la vasta gamma di stili con cui i Blow Monkey da sempre si cimentano con grande consapevolezza. In scaletta, è possibile, dunque, ascoltare frizzantissimo funk (ad esempio in "Not The Only Game In Town"), ballate trasudanti sentimento ("Cards On The Table"), malinconici struggimenti avvolti negli archi ("Stranger To Me Now") elementi jazz, glam rock che richiama alla mente il grande Marc Bolan, pop anni cinquanta ricamato dagli ottoni ("Rope-A-Dope") e un pizzico di folk. Ovviamente, poi, anche tantissimo soul, segno distintivo di un artista cresciuto con il northern soul e la musica della Motown, un patrimonio genetico che ben si adatta al timbro vocale e al sognwriting del nostro amato dottore.

La sua voce, che è sempre stata liscia come la seta, è diventata più profonda e più rotonda nel corso degli anni, e quella che si ascolta oggi, con quel toco vagamente teatrale, è, a parere di chi scrive, di gran lunga più coinvolgente di quella giovanile. Ulteriore elemento di forza di un disco come sempre elegantissimo, la cui varietà va di pari passo alla qualità di scrittura. Si potrebbe obbiettare che forse manca un brano capace di aggredire le classifiche, ma credo che a Robert Howard importi davvero poco. Qui, semmai, conta la cura artigianale di brani ricchi di pathos e di atmosfera, e quel tocco da dandy raffinato che porta le dodici canzoni in scaletta nella dimensione fuori dal tempo di un pop che non smette mai di ammaliare. 

Voto: 7,5

Genere: Pop




Blackswan, Lunedì 15/07/2024

giovedì 11 luglio 2024

Lenny Kravitz - Blue Electric Light (Roxie Records, 2024)

 


A prescindere da ogni scontato riferimento alla forma fisica strepitosa, Lenny Kravitz continua a sfornare dischi con cadenza regolare, cogliendo, talvolta, nel segno (l’ottimo Black And White America del 2011), palesando, invece, in altri casi, un livello di ispirazione al minimo sindacale (il penultimo Raise Vibration di sei anni fa).

Oggi, dietro quel fisico statuario, si cela un musicista senz’altro maturo e consapevole, la cui statura artistica non è più quella dei fortunati Mama Said (1991) e Are You Gonna Go My Way (1993) ma che, tutto sommato, è ancora in grado di scrivere buone canzoni, talvolta, autocitandosi, più spesso guardando a sonorità del passato, rielaborate con un gusto che condensa modernità e vintage.

La chiave di lettura di Blue Electric Light risiede proprio nell’abilità di Kravitz di miscelare perfettamente i suoni per produrre qualcosa che abbracci gli ultimi cinquant'anni di musica, senza dimenticare ovviamente il suo peculiare timbro traboccante di sentimento. Il rock, però, è quasi del tutto sparito dai radar del sessantenne newyorkese, che si concentra maggiormente su soul e funk, che sono il piatto forte del suo dodicesimo album in studio.

Che Kravitz non abbia perso completamente lo smalto dei bei tempi passati, lo capisce subito dall’apertura "It's Just Another Fine Day (In This Universe of Love)", fiore all’occhiello di un disco con molti momenti davvero riusciti. Basso pulsante, un tocco di elettricità e arrangiamenti sfiziosissimi contornano un ritornello di solare bellezza, mentre il brano si sviluppa in sei minuti molto suonati e belli che pronti per essere replicati dal vivo, abbandonandosi, magari, al piacere dell’improvvisazione.

Certo, la successiva "TK421", già uscita come singolo, riporta subito coi piedi per terra, e nonostante il bell’assolo di sax, l’approccio funky è troppo tamarro e bombastico per farsi apprezzare in un ambito che non sia puro divertissement. Qui e là, sembra che Kravitz perda il senso della misura, un brano come "Let It Ride" puzza di riempitivo lontano un chilometro, il graffio rock di "Paralyzed" è privo di mordente e trabocca di testosterone, e la conclusiva title track risulta un po’ appesantita da un arrangiamento smaccatamente anni ’80.

Tuttavia, la maggior parte delle canzoni in scaletta funziona, e anche bene: il funky soul al velluto di "Honey" è una vera delizia, il retrogusto eighties di "Bundle Of Joy", brano dance in cui Prince incontra gli Scritti Politti, è puro divertimento, e le armonie volatili di "Spirit In My Heart" conquistano fin dal primo ascolto.

E’ chiaro che Blue Electric Light non sia destinato a lasciare un segno importante nelle classifiche di fine anno, ma ritrovare Kravitz così in salute fa sicuramente piacere. L’ispirazione non è quella di giorni gloriosi, ma questo splendido sessantenne, pur restando ancorato a una prevedile confort zone, sa ancora scrivere belle canzoni e, soprattutto, riesce ancora a divertirsi e divertire, senza necessariamente inserire il pilota automatico. Niente di clamoroso, ma tutto dannatamente piacevole. 

Voto: 7

Genere: Soul, Funky, Rock




Blackswan, giovedì 11/07/2024

mercoledì 10 luglio 2024

Suspicious Minds - Elvis Presley (RCA, 1969)

 


La gelosia è la tomba dell’amore, un esercizio di possesso, che non ha nulla a che vedere con nobili sentimenti e il cui braccio armato è rappresentato dal viscido e insinuante sospetto. E’ questo il tema delle celeberrima Suspicious Minds, una canzone che racconta di una relazione in cui la fiducia è scomparsa, sostituita da un sospetto tossico che sta rendendo la coppia infelice. La canzone è cantata dal punto di vista del ragazzo, che viene accusato di tradimento dalla partner, che non crede a una sola parola di quello che lui dice (non è chiaro se sia stato davvero infedele o se sia stato accusato ingiustamente). Il ragazzo, allora, cerca di ribaltare la situazione, dicendole che i sospetti lo stanno uccidendo e chiedendo un nuovo inizio, in modo da poter ricominciare a costruire insieme i loro sogni.

Suspicious Minds fu scritta nel 1968 da un cantante di Memphis di nome Mark James, il quale raccontò di aver composto la canzone di notte, nell’appartamento in cui viveva all’epoca: “Pensai subito al titolo, mentre improvvisavo un riff con la mia Fender. Una volta messo assieme il grosso del pezzo, andai in studio e lo portai a termine su un pianoforte a coda.” Quando compose il brano, James era sposato con la sua prima moglie, una donna molto gelosa, che lo soffocava, marcandolo stretto e rendendogli la vita impossibile.

Nel 1968, Elvis era nello studio dell'American Sound a Memphis (città nella quale non registrava dal lontano 1955), e Mark James aveva un ufficio proprio in quegli studi. Elvis passò davanti all'ufficio di Mark, mentre il songwriter stava ascoltando il suo demo della canzone (le voci di supporto erano quelle di Donna Jean Godchaux, Jeanie Greene e delle sorelle Mary e Ginger Holliday), e colpito profondamente dalla bellezza del brano, aprì la porta dell’ufficio ed esclamò: “Voglio quella canzone e voglio quelle ragazze!".

Una grande intuizione, visto che Suspicious Minds riportò Presley nuovamente al successo, conquistando la prima piazza delle classifiche, che Il Re non centrava dai tempi di Good Luck Charm del 1962. Elvis, a quei tempi, aveva girato una serie di film non eccezionali, e la sua musica aveva perso l’originario splendore. Suspicious Minds, invece, lo riportò al primo posto delle chart statunitensi nel novembre del 1969, e lui tornò al centro del panorama musicale statunitense, lanciando un tour nel 1970 (il suo primo in nove anni) e diventando un'attrazione di punta a Las Vegas. Alla fine fu l'ultimo successo n. 1 della sua vita, ma da quel momento i suoi dischi iniziarono a classificarsi molto più in alto nelle classifiche, rispetto alla sua produzione della seconda metà degli anni '60.

La casa discografica di Elvis, la RCA, e il suo manager, il colonnello Tom Parker, tentarono di ottenere la consueta percentuale dei diritti d'autore da questa canzone e minacciarono di interrompere la registrazione se James non li avesse accontentati. James, però, tenne duro, ed Elvis fece fuoco e fiamme per andare avanti nel progetto, ottenendo alla fine il benestare dell’etichetta.

Una curiosità. Nel Regno Unito, Elvis ha avuto successo con questa canzone per ben tre volte. La prima, nel 1969, quando fu originariamente pubblicata, la seconda, nel 2001, quando fu pubblicata una versione live registrata all'International Hotel di Las Vegas, nell'agosto 1970, che arrivò al numero 15, e infine, nel 2007, quando fu ristampata per commemorare il 30° anniversario della morte di Elvis, arrivando al numero 11.   

 


 

 

Blackswan, mercoledì 10/07/2024

lunedì 8 luglio 2024

Then Comes Silence - Trickery (Metropolis Records, 2024)


 

E’ indubbio che gli svedesi Then Comes Silence non abbiano da noi lo stesso seguito che si sono conquistati altrove, soprattutto in patria. Ed è un vero peccato, perché quanti amano il post punk in purezza si innamorerebbero alla velocità della luce di una band che, nel corso degli anni, non ha sbagliato un colpo, e che dimostra di avere ancora tante frecce al proprio arco, come è evidente da questo splendido, settimo full length, intitolato Trickery.

Registrato in soli tre giorni al Kapsylen Studio di Stoccolma, Trickery è una profonda immersione nella dark wave anni ’80, decennio riproposto attraverso proprio “quel suono”, che ha fatto innamorare una generazione di appassionati, che da noi si chiamavano “dark”, giovani che sceglievano l’ombra e l’oscurità, abbandonandosi ai sogni gotici di Cure, Bahuaus, Joy Division, Sister Of Mercy, solo per citare alcune band dell’epoca.

Come i coevi e finlandesi Grave Pleasures, i Then Comes Silence, però, non cercano nuove forme espressive per declinare il loro goth rock: sono incredibilmente ortodossi, tanto da poter sembrare fuori dal tempo, non inseguono le nuove tendenze indie, e le loro canzoni, zeppe di richiami, più che citare, evocano, facendo vibrare la corda della nostalgia verso il cuore di tanti rocker che hanno vissuto in prima persona quel leggendario decennio.

Nessun copia-incolla, però: le dodici canzoni in scaletta sono ispirate e vibranti, immerse nella luce incerta del crepuscolo, eppure scintillanti, per soluzione melodiche e arrangiamenti.

Parte "Ride Or Die" ed è un colpo al cuore: linea di basso pazzesca, ritornello che spacca e, un suono di chitarra che farà sollevare il sopracciglio per la sorpresa ai fan dei Simple Minds.

Rispetto ai precedenti lavori, le tastiere hanno un ruolo preminente, circostanza che rende le composizioni più ariose e consente la band di muoversi in spazi più ampi.

Il singolo "Like An Hammer" è una vera bomba, la batteria metronomica traina una sequenza di accordi che crea dipendenza, mentre chitarre e synth ci spingono sul dancefloor di una notte senza stelle. Semplici, ma efficaci, le melodie e i ritornelli non lasciano scampo, il continuo tambureggiare della batteria accelera i battiti del cuore, gli inserti di elettronica soffiano aria gelida che collide con le sonorità cupe e bollenti di chitarre affilate.

Tutto funziona a meraviglia: la tambureggiante "Blind Eye", un brano che avrebbe fatto la fortuna dei Sister Of Mercy, l’elettronica ipnotica dell’inquietante "The Masquerade", l’aggressione punk alla Killing Joke di "Dead Friend", la cornice horror della cadenzata "Tears And Cries" (con quel ritornello molto Tears For Fears) e gli strattoni elettrici della malinconica "Runners".

Con "Ghost House" (mid tempo che evoca nuovamente i Simple Minds), l'album si conclude con una delle loro canzoni più accessibili dal punto di vista commerciale, degna di essere trasmessa in radio, se vivessimo in un mondo ideale.

Trickery è un gioiellino che brilla nella notte più cupa, un disco che, come una macchina del tempo, ci ripropone emozioni, solo in parte, restituiteci dai tanti gruppi in circolazione che rimasticano il genere, senza, però, la stessa consapevolezza. Fatevi questo viaggio a ritroso verso la vostra giovinezza: il tuffo al cuore è garantito.

Voto: 8

Genere: Post Punk, New Wave

 


 

 

Blackswan, martedì 08/07/2024

Six By Six - Beyond Shadowland (Sony/Insideout, 2024)

 


Sotto il nome di Six By Six si celano tre musicisti che, ciascuno nel proprio ambito, ha scritto pagine importanti della storia del rock. Un supergruppo, quindi, giunto oggi al secondo album in studio, composto da Ian Crichton, Nigel Glockler e Robert Berry.

Ian Crichton è meglio conosciuto come uno dei membri fondatori di Saga, insieme a suo fratello Jim. I Saga hanno venduto circa 10 milioni di album in tutto il mondo e continuano ad esibirsi con invidiabile efficacia. Nigel Glockler ha iniziato la sua carriera nel 1980 come batterista della band britannica Krakatoa, poi ha collaborato con la cantante Toyah, e, quindi, è entrato in pianta stabile nei Saxon. Robert Berry, invece, ha iniziato a suonare a San Francisco con gli Hush, e in seguito si è trasferito nel Regno Unito per lavorare con il chitarrista Steve Howe (Yes) e con lo stesso Nigel Glockler, nel tentativo di rivitalizzare i GTR. Quando i GTR tirarono i remi in barca, Berry ha collaborato con le leggende del rock britannico Keith Emerson e Carl Palmer per formare i 3.

Dopo aver pubblicato il loro album di debutto nel 2022, i tre illustri “vecchietti” sono tornati in studio per registrare il loro secondo disco intitolato Beyond Shadowland. Inevitabile, dunque, che, considerato il vissuto musicale dei tre protagonisti, l'album combini i diversi background in modo avvincente, dando vita a canzoni tutte stratificate, e che, pertanto, impiegano un po' di tempo per entrare in circolo. Il chitarrista Ian Crichton porta in dono i riff filigranati del progressive e altri, invece, più vicini all’hard rock, citando, talvolta, le atmosfere care ai suoi Saga. La potente batteria di Nigel Glockler è il motore che spinge avanti incessantemente le canzoni in scaletta, mentre la voce (il basso e le tastiere) di Robert Berry danno sfoggio di una eccellente sensibilità melodica e contribuiscono a dare un tocco di raffinatezza alle composizioni.

Ciò che era evidente fin dall’esordio di due anni fa, questa è una formula che funziona benissimo, perché i tre veterani si divertono un mondo a suonare insieme, sbrigliando una creatività che è la vera forza trainante dietro ciascuna delle undici canzoni di Beyond Shadowland. I Six by Six non hanno cambiato il loro approccio, sciorinando con classe e tecnica un prog rock in bilico fra classicismo e modernità.

La band, talvolta, si barrica dietro riff che ricordano i Saga ("Wren", "The Mission"), le ritmiche sanno essere incredibilmente dinamiche ("Spectre"), le chitarre abbracciano alternativamente l'hard rock melodico ("Arms of a Word") o lo shred ("Spectre"), ed è palpabile ed evidente il piacere di questa efficace collaborazione, in cui i tre si sentono perfettamente a loro agio ("Titans").  

Registrato prevalentemente nel 2023 presso i Soundtek Studios di Berry, situati nella Bay Area di San Francisco, Beyond Shadowland è un disco appassionato e suonato meravigliosamente, attraverso il quale i Six By Six continuano a definire e sviluppare il loro spazio melodico unico, saldando rock, hard rock e prog in un ambiente sonoro variegato e potente. Per i progster, quasi inutile ribadirlo, queste undici brillanti canzoni saranno una vera e propria manna caduta dal cielo.

Voto: 7

Genere: Progressive

 


 

 

Blackswan, lunedì 08/07/2024

giovedì 4 luglio 2024

John Denver - Take Me Home Country Roads (RCA, 1971)

 


Take Me Home Country Roads è una di quelle canzoni che, per quanto appartenga a una cultura musicale lontanissima dalla nostra, anche in Italia ha conquistato lo status di evergreen noto praticamente a tutti. A differenza di quanto molti ritengono, la canzone non porta la firma del solo Johnny Denver, ma fu scritta dallo stesso insieme agli amici Bill e Taffy Danoff, che all'epoca erano sposati, mentre si trovava con loro a Washington DC per una serie di concerti. Dopo uno spettacolo, i tre tornarono a casa della coppia, dove i coniugi fecero ascoltare a Denver un primo abbozzo del brano. Il songwriter si mise subito al lavoro per completare la canzone, cosa che avvenne quella notte stessa, tanto che, il giorno dopo, i tre la eseguirono insieme sul palco.

Denver comprese subito il potenziale commerciale di Take Me Home Country Roads, tanto che ottenne il permesso dai Danoff di poterla registrare, facendo partecipare la coppia ai cori. In realtà, Bill e Taffy ritenevano che il brano fosse troppo lontano dalla sensibilità di Denver, e nei loro intenti, desideravano collaborare con Johnny Cash, anche se, alla fine, il legame di amicizia con il musicista originario del New Mexico fece prendere alla storia un’altra direzione.

I Danoff, ai tempi, suonavano in una band chiamata Fat City (successivamente formarono la Starland Vocal Band, che ebbe un grande successo con Afternoon Delight, nel 1977), egida sotto la quale avrebbero potuto pubblicare quella canzone, che poi ebbe uno straordinario successo. In molti, quindi, hanno pensato che Denver avesse turlupinato la coppia di amici, accaparrandosi la super hit, e relegando i due all’anonimato. Questa diceria fu sempre smentita dagli stessi Danoff, i quali, in diverse interviste, difesero a spada tratta l’amico, sottolineando come Denver avesse portato i Fat City in tournée con lui e li avesse aiutati a ottenere un contratto discografico con la sua RCA/Windsong Records. Il fatto, poi, che Denver, in seguito, registrò anche molte altre canzoni scritte da Bill Danoff, conferma che il legame di amicizia fra i due fosse più saldo che mai.

A prescindere dalla genesi della canzone, la circostanza più curiosa e significativa è che le strade di campagna fotografate nelle liriche sono nel West Virginia, ma nè Denver né i Danoff erano mai stati, nemmeno di sfuggita, in quello stato. Bill e Taffy Danoff, infatti, iniziarono a scrivere la canzone mentre guidavano verso il Maryland, e Bill ha sempre raccontato che l’ispirazione gli venne dalla cartoline che gli spediva un amico che viveva in quelle meravigliose terre. Lo stesso Danoff, anni dopo, durante un intervista a NPR, disse candidamente: "Ho semplicemente pensato a qualcosa che per me fosse esotico, che provenisse da un posto così lontano. Il West Virginia avrebbe potuto anche essere in Europa, per quanto ne sapevo."

Take Me Home Country Roads, pur avendo delle connotazioni geografiche ben precise (il fiume Shenandoah, le Blue Ridge) parla di uno stato d’animo, piuttosto che di un luogo specifico. E’ una canzone dalla melodia uncinante, dal retrogusto dolce e al contempo nostalgico, che ben rappresenta il desiderio di ritornare alle proprie origini, alla propria terra, di sentirsi liberi nel legame indissolubile con la natura, i paesaggi e le tradizioni di luoghi in cui si è cresciuti. Nonostante la singolare semplicità del brano, lo stesso possiede un profondo retrogusto malinconico, il sapore agrodolce di cose perdute e di giorni lontani, obliati nel tempo (Take me home, country roads, All my memories gather 'round her).

Eppure, questo brano, dai sottintesi nostalgici, ha avuto nel tempo un clamoroso successo commerciale, il cui segreto è solo, ed esclusivamente uno: è dannatamente cantabile. E lo è anche da noi. Dopo aver ascoltato la prima strofa, infatti, la maggior parte delle persone si sente obbligata a cantare il ritornello, soprattutto se in compagnia di amici o se ha bevuto qualche bicchiere di troppo. Fate un prova, e ve ne renderete immediatamente conto.

 


 

 

Blackswan, giovedì 04/07/2024

mercoledì 3 luglio 2024

Crawling - Linkin Park (Warner, 2001)

 


Triste, tristissima, disperata. Ciò nonostante, o forse proprio per questo, Crawling, secondo singolo tratto da Hybrid Theory, vinse, nel 2002, un Grammy per la migliore performance hard rock, grazie, soprattutto, alla strepitosa interpretazione vocale di Chester Bennington. Fu lo stesso Mike Shinoda a ricordarlo durante un’intervista a Kerrang, nel 2020, tre anni dopo la morte dell’amico: “la sua voce in quella canzone è tutto… ed è impossibile per chiunque altro cantarla così bene. Ogni altra cover è solo l'ombra dell'esecuzione della canzone da parte di Chester".

E non poteva essere diversamente, dal momento che Crawling nacque dalle esperienze personali del cantante che, durante l’adolescenza, aveva avuto seri problemi di dipendenza. Una canzone così personale e autobiografica, che Chester Bennington ha spesso affermato che per lui era difficile eseguire questa canzone dal vivo a causa del suo passato, a cui il brano si riferiva, e che temeva di sbagliare a cantarla per il troppo coinvolgimento emotivo. Era come se la sua passata dipendenza dalla droga, dalle metanfetamine e da altre droghe pesanti, come la cocaina, fosse letteralmente sotto la sua pelle e rischiasse di riaffiorare insieme a tanti brutti ricordi.   

Strisciando nella mia pelle

Queste ferite non guariranno

La paura è il modo in cui cado

Confondere ciò che è reale

C'è qualcosa dentro di me che si nasconde sotto la superficie

 

E’ una brutta sensazione sentire che qualcosa sta strisciando sotto la pelle. E’ la dipendenza dalle droghe, sono l’ansia e le allucinazioni, la sensazione di essere schiavo e di non potersi liberare, la paura di vivere in uno stato di perenne prostrazione. Un messaggio che nasce dal cuore di Bennington, ma ben si adatta a chiunque viva un gran disagio, rispetto al quale si sente impotente.

Ecco perché allora, nonostante le liriche parlino di dipendenze, il video che accompagna il brano amplia lo spettro espressivo, coinvolgendo un altro tipo di dolore, un’altra forma di disperazione. Nella clip, la ragazza protagonista (interpretata da Katelyn Rosaasen) subisce abusi fisici da parte del padre, come appare evidente nelle prime sequenze e in quei primi piani sui lividi, che sono sia ferite fisiche quanto interiori. E’ difficile spezzare il ciclo degli abusi ("Queste ferite non guariranno" e "È inquietante come non riesca a ritrovare me stesso, i miei muri si stanno chiudendo"), che si ripetono, schiacciando la fiducia in se stessi, togliendo la voglia di vivere.

All’inizio del primo ritornello, uno sfondo di cristallo blu si chiude intorno alla protagonista abusata, ammiccando al guscio emotivo che la ragazza ha costruito intorno a sé per sopravvivere, il trucco è come una maschera che cerca di nascondere un’anima ferita, l’anello al naso richiama, con volontà identificativa, quello al labbro di Bennington. Un’immedesimazione ribadita anche dopo, quando Chester canta: "Contro la mia volontà sto accanto al mio riflesso", e lui e Katelyn si guardano.

Ora, la ragazza, sembra che voglia uscire dal guscio in cui si trova, vede i ricordi dolorosi del suo passato nel cristallo, e quando inizia il secondo ritornello, il cristallo comincia a rompersi in mille pezzi. Il padre se n’è andato, la ragazza è libera, il sorriso torna sul suo volto, bello come le rose nel vaso. Il trucco pesante è sparito, perché non sente di aver bisogno della protezione di una maschera: non ha più nulla da cui nascondersi.

Chester Bennington durante un’intervista alla rivista Rolling Stone, nel 2002, disse: "La canzone parla di assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Non dico 'tu' in nessun momento, perché riguarda il modo in cui io sono, la ragione per cui mi sento in questo modo. C'è qualcosa dentro di me che mi tira giù." Un male di vivere che il cantante dei Linkin Park non ha mai superato, e quel guscio, in cui si nascondeva dal mondo esterno per poter sopravvivere, non è mai andato in frantumi. Semplicemente, l’ha fagocitato, portandolo al suicidio, avvenuto nella sua residenza californiana, il 20 luglio del 2017. Chester aveva solo quarantun anni.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 03/07/2024

martedì 2 luglio 2024

Antonio Manzini - Tutti I Particolari In Cronaca (Mondadori, 2024)

 


La corsa all'alba, la colazione al bar, poi nove ore di lavoro all'archivio del tribunale, una cena piena di silenzi e la luce spenta alle dieci: Carlo Cappai è l'incarnazione della metodicità, della solitudine. Dell'ordinarietà. Nessuno sospetta che ai suoi occhi quel labirinto di scatole, schede e cartelle non sia affatto carta morta. Tutto il contrario: quei faldoni parlano, a volte gridano la loro verità inascoltata, la loro richiesta di giustizia.

Sono i casi in cui, infatti, il tribunale ha fallito, e i colpevoli sono stati assolti "per non aver commesso il fatto" – in realtà per i soliti, meschini imbrogli di potere. Cappai, semplicemente, porta la Giustizia dove la Legge non è riuscita ad arrivare – sempre nell'attesa, ormai da quarant'anni, di punire una colpa che gli ha segnato la vita. Walter Andretti è invece un giornalista precipitato dallo Sport, dove si trovava benissimo, alla Cronaca, dove si trova malissimo. Quando il capo gli scarica addosso la copertura di due recenti omicidi, Andretti suo malgrado indaga, e dopo iniziali goffaggini e passi falsi comincia a intuire che in quelle morti c'è qualcosa di strano. Un legame. Forse la stessa mano...

 

Un noir che potremmo definire “sui generis”, dal momento che quasi tutto appare abbastanza chiaro fin dall’inizio del romanzo. Poco male, a dire il vero, perché il thriller è solo il nocciolo attorno al quale si addensa la polpa di qualcosa di più profondo, una narrazione che indaga l’animo umano e che affronta temi di spessore, che riguardano la giustizia, l’informazione, la colpa.

Manzini scrive benissimo, ma questa non è una novità, soprattutto per i tanti fan di Rocco Schiavone, che da tempo apprezzano quella scrittura asciutta, eppure al contempo poetica e attraversata da un fil rouge di malinconia, che è da sempre il segno distintivo della sua prosa.

Se la trama risulta forse un po’ scontata, lo scrittore romano la tiene, però, saldamente in mano, distribuendo con sapienza colpi di scena e dando all’azione un ritmo serrato, grazie anche alla doppia narrazione incentrata sui due protagonisti della vicenda. Per le strade di una Bologna torrida e afosa, si muovono, infatti, Carlo Cappai, un solitario archivista divorato dal senso di colpa e dal desiderio di vendetta, e Walter Andretti, un giornalista rassegnato alla mediocrità, che trova però nella ricerca della verità, un inaspettato guizzo vitale.

Due uomini comuni, imprigionati dalle pastoie di una vita ordinaria, che diventano lo spunto di una serie di riflessioni su temi che potremmo definire “alti”. In primo luogo, che cosa s’intenda davvero per giustizia, cosa sia lecito fare per ottenerla, quali limiti etici possono essere superati per curare le distorsioni di un apparato giudiziario corrotto. E poi, quale sia davvero la funzione del giornalismo, se adeguarsi al compitino per quieto vivere, cercare lo scoop a prescindere, infischiandosene della vita altrui, oppure ricercare la verità, costi quel che costi, obbedendo solo agli imperativi categorici della coscienza.

Tutti I Particolari In Cronaca, però, è forse, e soprattutto, un romanzo che parla dei sensi di colpa, dei fantasmi del passato (ma anche quelli del presente) con cui bisogna fare i conti ogni giorno, per sopravvivere, nonostante tutto. Perché è questo il vero fulcro di tutta la narrazione, il significato ultimo di un romanzo in cui il vero colpevole si nasconde nel profondo dell’anima: non siamo responsabili solo delle nostre azioni, ma lo siamo anche “di quello che non si è saputo evitare”.

 

Blackswan, martedì 02/07/2024

lunedì 1 luglio 2024

North Sea Echoes - Really Good Terrible Things (Metal Bloade, 2024)


 

L’ultimo album dei Fates Warning, Long Day Good Night, che risale al 2020, aveva suscitato nei fan della band americana, attiva dalla prima metà degli anni ’80, più di un dubbio che si fossse trattato dell’ultimo capitolo della loro lunga storia. E se è vero che è stato lo stesso Ray Alder a suggerire di non avere più interesse a proseguire con la casa madre, è altrettanto vero che il cantante non ha perso la voglia di comporre nuova musica. Per farlo, non poteva che scegliere, come compagno d’avventura, il suo alter ego Jim Matheos, che dei Fates Warning è il chitarrista nonché storico fondatore.

I due si sono trovati un nome splendido sotto la cui egida presentarsi al pubblico (North Sea Echoes) e hanno deciso, pur senza tradire completamente il loro dna, di muoversi per coordinante musicali diverse, più vicine a quelle degli OSI (band di cui il chitarrista è membro), rilasciando un disco, Really Good Terrible Things, che assume le fattezze di un album oscuro e lunatico, non pesante in senso metallico ma certamente in senso emotivo, si. Un disco prevalentemente crepuscolare e malinconico, che testimonia comunque quello che sembra essere un binomio inscindibile, in cui la chimica non viene mai a mancare, anche quando, come nello specifico, le consuete sonorità vengono accantonate per nuove forme espressive.

Il disco si apre con la dolce amara "Open Book", e si percepisce nell’aria qualcosa di stranamente famigliare, per quanto l'ambiente circostante abbia assunto un aspetto diverso. Alder ha ancora quella voce immediatamente riconoscibile, che si muove commossa e leggermente ispida sul perfetto mix melodico e atmosferico creato da Matheos. La ritmica pulsante e il morbido tappeto di synth di "Flowers in Decay" ti fanno, però, capire che questo non è un tradizionale album dei Fates, avvicinando i due, semmai, a una versione a stella e strisce dei Depeche Mode. L'elettronica, la voce arresa di Alder e la chitarra pulita di Matheos creano un'atmosfera dolce, cinematografica, quasi fragile.

"Unmoved" è, invece, una ballata acustica, che si sviluppa a filo d’acqua, sull’oceano delle emozioni: è nostalgica, morbida come una carezza, struggente come una lacrima di fronte alla bellezza inarrivabile di spazi aperti. Se "Throwing Stones", poi, è un unghiata di malinconia sul cuore, che sanguina sulle note di un ritornello di cristallina perfezione, "Empty" è più cupa e notturna, e l’uso dell’elettronica, come contrappunto della chitarra distorta, porta ancora dalle parti dei Depeche Mode, così come in "Where I’m From", mentre "The Mission", il brano più movimentato del lotto, recupera scorie new wave anni ’80.

Chiudono i quasi quattro minuti di "No Maps", un brano quasi impalpabile nella sua fragilità, eppure tale da raggrumare in tre minuti e quarantadue secondi un doloroso senso di disturbante mestizia, che lascia senza fiato.

Difficile che un disco come Really Good Terrible Things possa far breccia nel cuore degli adepti al mito Fates Warning, nonostante testimoni l’inesauribile vena creativa del duo che ha fatto la storia di quella grande band. Per tutti coloro che non possiedono un retroterra da fan con cui fare i conti, questo album è, invece, consigliatissimo. A patto che siano disposti ad accettare il groppo in gola e il salmastro scorrere delle lacrime sulla guancia.

Voto: 8

Genere: Alternative 




Blackswan, lunedì 01/07/2024