giovedì 4 luglio 2024

John Denver - Take Me Home Country Roads (RCA, 1971)

 


Take Me Home Country Roads è una di quelle canzoni che, per quanto appartenga a una cultura musicale lontanissima dalla nostra, anche in Italia ha conquistato lo status di evergreen noto praticamente a tutti. A differenza di quanto molti ritengono, la canzone non porta la firma del solo Johnny Denver, ma fu scritta dallo stesso insieme agli amici Bill e Taffy Danoff, che all'epoca erano sposati, mentre si trovava con loro a Washington DC per una serie di concerti. Dopo uno spettacolo, i tre tornarono a casa della coppia, dove i coniugi fecero ascoltare a Denver un primo abbozzo del brano. Il songwriter si mise subito al lavoro per completare la canzone, cosa che avvenne quella notte stessa, tanto che, il giorno dopo, i tre la eseguirono insieme sul palco.

Denver comprese subito il potenziale commerciale di Take Me Home Country Roads, tanto che ottenne il permesso dai Danoff di poterla registrare, facendo partecipare la coppia ai cori. In realtà, Bill e Taffy ritenevano che il brano fosse troppo lontano dalla sensibilità di Denver, e nei loro intenti, desideravano collaborare con Johnny Cash, anche se, alla fine, il legame di amicizia con il musicista originario del New Mexico fece prendere alla storia un’altra direzione.

I Danoff, ai tempi, suonavano in una band chiamata Fat City (successivamente formarono la Starland Vocal Band, che ebbe un grande successo con Afternoon Delight, nel 1977), egida sotto la quale avrebbero potuto pubblicare quella canzone, che poi ebbe uno straordinario successo. In molti, quindi, hanno pensato che Denver avesse turlupinato la coppia di amici, accaparrandosi la super hit, e relegando i due all’anonimato. Questa diceria fu sempre smentita dagli stessi Danoff, i quali, in diverse interviste, difesero a spada tratta l’amico, sottolineando come Denver avesse portato i Fat City in tournée con lui e li avesse aiutati a ottenere un contratto discografico con la sua RCA/Windsong Records. Il fatto, poi, che Denver, in seguito, registrò anche molte altre canzoni scritte da Bill Danoff, conferma che il legame di amicizia fra i due fosse più saldo che mai.

A prescindere dalla genesi della canzone, la circostanza più curiosa e significativa è che le strade di campagna fotografate nelle liriche sono nel West Virginia, ma nè Denver né i Danoff erano mai stati, nemmeno di sfuggita, in quello stato. Bill e Taffy Danoff, infatti, iniziarono a scrivere la canzone mentre guidavano verso il Maryland, e Bill ha sempre raccontato che l’ispirazione gli venne dalla cartoline che gli spediva un amico che viveva in quelle meravigliose terre. Lo stesso Danoff, anni dopo, durante un intervista a NPR, disse candidamente: "Ho semplicemente pensato a qualcosa che per me fosse esotico, che provenisse da un posto così lontano. Il West Virginia avrebbe potuto anche essere in Europa, per quanto ne sapevo."

Take Me Home Country Roads, pur avendo delle connotazioni geografiche ben precise (il fiume Shenandoah, le Blue Ridge) parla di uno stato d’animo, piuttosto che di un luogo specifico. E’ una canzone dalla melodia uncinante, dal retrogusto dolce e al contempo nostalgico, che ben rappresenta il desiderio di ritornare alle proprie origini, alla propria terra, di sentirsi liberi nel legame indissolubile con la natura, i paesaggi e le tradizioni di luoghi in cui si è cresciuti. Nonostante la singolare semplicità del brano, lo stesso possiede un profondo retrogusto malinconico, il sapore agrodolce di cose perdute e di giorni lontani, obliati nel tempo (Take me home, country roads, All my memories gather 'round her).

Eppure, questo brano, dai sottintesi nostalgici, ha avuto nel tempo un clamoroso successo commerciale, il cui segreto è solo, ed esclusivamente uno: è dannatamente cantabile. E lo è anche da noi. Dopo aver ascoltato la prima strofa, infatti, la maggior parte delle persone si sente obbligata a cantare il ritornello, soprattutto se in compagnia di amici o se ha bevuto qualche bicchiere di troppo. Fate un prova, e ve ne renderete immediatamente conto.

 


 

 

Blackswan, giovedì 04/07/2024

mercoledì 3 luglio 2024

Crawling - Linkin Park (Warner, 2001)

 


Triste, tristissima, disperata. Ciò nonostante, o forse proprio per questo, Crawling, secondo singolo tratto da Hybrid Theory, vinse, nel 2002, un Grammy per la migliore performance hard rock, grazie, soprattutto, alla strepitosa interpretazione vocale di Chester Bennington. Fu lo stesso Mike Shinoda a ricordarlo durante un’intervista a Kerrang, nel 2020, tre anni dopo la morte dell’amico: “la sua voce in quella canzone è tutto… ed è impossibile per chiunque altro cantarla così bene. Ogni altra cover è solo l'ombra dell'esecuzione della canzone da parte di Chester".

E non poteva essere diversamente, dal momento che Crawling nacque dalle esperienze personali del cantante che, durante l’adolescenza, aveva avuto seri problemi di dipendenza. Una canzone così personale e autobiografica, che Chester Bennington ha spesso affermato che per lui era difficile eseguire questa canzone dal vivo a causa del suo passato, a cui il brano si riferiva, e che temeva di sbagliare a cantarla per il troppo coinvolgimento emotivo. Era come se la sua passata dipendenza dalla droga, dalle metanfetamine e da altre droghe pesanti, come la cocaina, fosse letteralmente sotto la sua pelle e rischiasse di riaffiorare insieme a tanti brutti ricordi.   

Strisciando nella mia pelle

Queste ferite non guariranno

La paura è il modo in cui cado

Confondere ciò che è reale

C'è qualcosa dentro di me che si nasconde sotto la superficie

 

E’ una brutta sensazione sentire che qualcosa sta strisciando sotto la pelle. E’ la dipendenza dalle droghe, sono l’ansia e le allucinazioni, la sensazione di essere schiavo e di non potersi liberare, la paura di vivere in uno stato di perenne prostrazione. Un messaggio che nasce dal cuore di Bennington, ma ben si adatta a chiunque viva un gran disagio, rispetto al quale si sente impotente.

Ecco perché allora, nonostante le liriche parlino di dipendenze, il video che accompagna il brano amplia lo spettro espressivo, coinvolgendo un altro tipo di dolore, un’altra forma di disperazione. Nella clip, la ragazza protagonista (interpretata da Katelyn Rosaasen) subisce abusi fisici da parte del padre, come appare evidente nelle prime sequenze e in quei primi piani sui lividi, che sono sia ferite fisiche quanto interiori. E’ difficile spezzare il ciclo degli abusi ("Queste ferite non guariranno" e "È inquietante come non riesca a ritrovare me stesso, i miei muri si stanno chiudendo"), che si ripetono, schiacciando la fiducia in se stessi, togliendo la voglia di vivere.

All’inizio del primo ritornello, uno sfondo di cristallo blu si chiude intorno alla protagonista abusata, ammiccando al guscio emotivo che la ragazza ha costruito intorno a sé per sopravvivere, il trucco è come una maschera che cerca di nascondere un’anima ferita, l’anello al naso richiama, con volontà identificativa, quello al labbro di Bennington. Un’immedesimazione ribadita anche dopo, quando Chester canta: "Contro la mia volontà sto accanto al mio riflesso", e lui e Katelyn si guardano.

Ora, la ragazza, sembra che voglia uscire dal guscio in cui si trova, vede i ricordi dolorosi del suo passato nel cristallo, e quando inizia il secondo ritornello, il cristallo comincia a rompersi in mille pezzi. Il padre se n’è andato, la ragazza è libera, il sorriso torna sul suo volto, bello come le rose nel vaso. Il trucco pesante è sparito, perché non sente di aver bisogno della protezione di una maschera: non ha più nulla da cui nascondersi.

Chester Bennington durante un’intervista alla rivista Rolling Stone, nel 2002, disse: "La canzone parla di assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Non dico 'tu' in nessun momento, perché riguarda il modo in cui io sono, la ragione per cui mi sento in questo modo. C'è qualcosa dentro di me che mi tira giù." Un male di vivere che il cantante dei Linkin Park non ha mai superato, e quel guscio, in cui si nascondeva dal mondo esterno per poter sopravvivere, non è mai andato in frantumi. Semplicemente, l’ha fagocitato, portandolo al suicidio, avvenuto nella sua residenza californiana, il 20 luglio del 2017. Chester aveva solo quarantun anni.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 03/07/2024

martedì 2 luglio 2024

Antonio Manzini - Tutti I Particolari In Cronaca (Mondadori, 2024)

 


La corsa all'alba, la colazione al bar, poi nove ore di lavoro all'archivio del tribunale, una cena piena di silenzi e la luce spenta alle dieci: Carlo Cappai è l'incarnazione della metodicità, della solitudine. Dell'ordinarietà. Nessuno sospetta che ai suoi occhi quel labirinto di scatole, schede e cartelle non sia affatto carta morta. Tutto il contrario: quei faldoni parlano, a volte gridano la loro verità inascoltata, la loro richiesta di giustizia.

Sono i casi in cui, infatti, il tribunale ha fallito, e i colpevoli sono stati assolti "per non aver commesso il fatto" – in realtà per i soliti, meschini imbrogli di potere. Cappai, semplicemente, porta la Giustizia dove la Legge non è riuscita ad arrivare – sempre nell'attesa, ormai da quarant'anni, di punire una colpa che gli ha segnato la vita. Walter Andretti è invece un giornalista precipitato dallo Sport, dove si trovava benissimo, alla Cronaca, dove si trova malissimo. Quando il capo gli scarica addosso la copertura di due recenti omicidi, Andretti suo malgrado indaga, e dopo iniziali goffaggini e passi falsi comincia a intuire che in quelle morti c'è qualcosa di strano. Un legame. Forse la stessa mano...

 

Un noir che potremmo definire “sui generis”, dal momento che quasi tutto appare abbastanza chiaro fin dall’inizio del romanzo. Poco male, a dire il vero, perché il thriller è solo il nocciolo attorno al quale si addensa la polpa di qualcosa di più profondo, una narrazione che indaga l’animo umano e che affronta temi di spessore, che riguardano la giustizia, l’informazione, la colpa.

Manzini scrive benissimo, ma questa non è una novità, soprattutto per i tanti fan di Rocco Schiavone, che da tempo apprezzano quella scrittura asciutta, eppure al contempo poetica e attraversata da un fil rouge di malinconia, che è da sempre il segno distintivo della sua prosa.

Se la trama risulta forse un po’ scontata, lo scrittore romano la tiene, però, saldamente in mano, distribuendo con sapienza colpi di scena e dando all’azione un ritmo serrato, grazie anche alla doppia narrazione incentrata sui due protagonisti della vicenda. Per le strade di una Bologna torrida e afosa, si muovono, infatti, Carlo Cappai, un solitario archivista divorato dal senso di colpa e dal desiderio di vendetta, e Walter Andretti, un giornalista rassegnato alla mediocrità, che trova però nella ricerca della verità, un inaspettato guizzo vitale.

Due uomini comuni, imprigionati dalle pastoie di una vita ordinaria, che diventano lo spunto di una serie di riflessioni su temi che potremmo definire “alti”. In primo luogo, che cosa s’intenda davvero per giustizia, cosa sia lecito fare per ottenerla, quali limiti etici possono essere superati per curare le distorsioni di un apparato giudiziario corrotto. E poi, quale sia davvero la funzione del giornalismo, se adeguarsi al compitino per quieto vivere, cercare lo scoop a prescindere, infischiandosene della vita altrui, oppure ricercare la verità, costi quel che costi, obbedendo solo agli imperativi categorici della coscienza.

Tutti I Particolari In Cronaca, però, è forse, e soprattutto, un romanzo che parla dei sensi di colpa, dei fantasmi del passato (ma anche quelli del presente) con cui bisogna fare i conti ogni giorno, per sopravvivere, nonostante tutto. Perché è questo il vero fulcro di tutta la narrazione, il significato ultimo di un romanzo in cui il vero colpevole si nasconde nel profondo dell’anima: non siamo responsabili solo delle nostre azioni, ma lo siamo anche “di quello che non si è saputo evitare”.

 

Blackswan, martedì 02/07/2024

lunedì 1 luglio 2024

North Sea Echoes - Really Good Terrible Things (Metal Bloade, 2024)


 

L’ultimo album dei Fates Warning, Long Day Good Night, che risale al 2020, aveva suscitato nei fan della band americana, attiva dalla prima metà degli anni ’80, più di un dubbio che si fossse trattato dell’ultimo capitolo della loro lunga storia. E se è vero che è stato lo stesso Ray Alder a suggerire di non avere più interesse a proseguire con la casa madre, è altrettanto vero che il cantante non ha perso la voglia di comporre nuova musica. Per farlo, non poteva che scegliere, come compagno d’avventura, il suo alter ego Jim Matheos, che dei Fates Warning è il chitarrista nonché storico fondatore.

I due si sono trovati un nome splendido sotto la cui egida presentarsi al pubblico (North Sea Echoes) e hanno deciso, pur senza tradire completamente il loro dna, di muoversi per coordinante musicali diverse, più vicine a quelle degli OSI (band di cui il chitarrista è membro), rilasciando un disco, Really Good Terrible Things, che assume le fattezze di un album oscuro e lunatico, non pesante in senso metallico ma certamente in senso emotivo, si. Un disco prevalentemente crepuscolare e malinconico, che testimonia comunque quello che sembra essere un binomio inscindibile, in cui la chimica non viene mai a mancare, anche quando, come nello specifico, le consuete sonorità vengono accantonate per nuove forme espressive.

Il disco si apre con la dolce amara "Open Book", e si percepisce nell’aria qualcosa di stranamente famigliare, per quanto l'ambiente circostante abbia assunto un aspetto diverso. Alder ha ancora quella voce immediatamente riconoscibile, che si muove commossa e leggermente ispida sul perfetto mix melodico e atmosferico creato da Matheos. La ritmica pulsante e il morbido tappeto di synth di "Flowers in Decay" ti fanno, però, capire che questo non è un tradizionale album dei Fates, avvicinando i due, semmai, a una versione a stella e strisce dei Depeche Mode. L'elettronica, la voce arresa di Alder e la chitarra pulita di Matheos creano un'atmosfera dolce, cinematografica, quasi fragile.

"Unmoved" è, invece, una ballata acustica, che si sviluppa a filo d’acqua, sull’oceano delle emozioni: è nostalgica, morbida come una carezza, struggente come una lacrima di fronte alla bellezza inarrivabile di spazi aperti. Se "Throwing Stones", poi, è un unghiata di malinconia sul cuore, che sanguina sulle note di un ritornello di cristallina perfezione, "Empty" è più cupa e notturna, e l’uso dell’elettronica, come contrappunto della chitarra distorta, porta ancora dalle parti dei Depeche Mode, così come in "Where I’m From", mentre "The Mission", il brano più movimentato del lotto, recupera scorie new wave anni ’80.

Chiudono i quasi quattro minuti di "No Maps", un brano quasi impalpabile nella sua fragilità, eppure tale da raggrumare in tre minuti e quarantadue secondi un doloroso senso di disturbante mestizia, che lascia senza fiato.

Difficile che un disco come Really Good Terrible Things possa far breccia nel cuore degli adepti al mito Fates Warning, nonostante testimoni l’inesauribile vena creativa del duo che ha fatto la storia di quella grande band. Per tutti coloro che non possiedono un retroterra da fan con cui fare i conti, questo album è, invece, consigliatissimo. A patto che siano disposti ad accettare il groppo in gola e il salmastro scorrere delle lacrime sulla guancia.

Voto: 8

Genere: Alternative 




Blackswan, lunedì 01/07/2024