giovedì 29 agosto 2024

Camilla Sten - Il Villaggio Perduto (Fazi Editore, 2024)

 


Alice Lindstedt è una giovane regista di documentari costretta a barcamenarsi con la precarietà. C’è una storia, nascosta da qualche parte nelle crepe del passato, che la ossessiona da sempre. Nell’estate del 1959 il piccolo villaggio minerario di Silvertjarn è stato teatro di un evento inspiegabile: i suoi novecento abitanti sono svaniti nel nulla, lasciandosi dietro soltanto una città fantasma, il cadavere di una donna lapidata nella piazza del paese e una neonata di pochi giorni abbandonata sui banchi della scuola. Nonostante le indagini e le perlustrazioni a tappeto della polizia, non si è mai trovata alcuna traccia dei residenti, nè alcun indizio sul loro destino. La nonna di Alice viveva nel villaggio, e tutta la sua famiglia è scomparsa insieme a loro. Le domande senza risposta sono troppe, e Alice decide di realizzare un documentario per ricostruire ciò che è realmente accaduto. Insieme a una troupe di amici si reca sul posto per i primi sopralluoghi: ben presto capiranno che non sarà così facile tornare indietro.

 

Figlia della celebre scrittrice Viveca Sten (famosa per la serie di romanzi Omicidi di Sandhamn), la trentaduenne Camilla, dopo aver pubblicato alcuni libri per ragazzi, si affaccia sulla scena crime con questo folgorante esordio, dal titolo Il Villaggio Perduto.

E’ il 1959, quando gli abitanti di Silvertjarn, un villaggio minerario situato nel nord della Svezia, scompaiono nel nulla, lasciandosi dietro solo il cadavere di una donna lapidata e una neonata ancora in vita. Le indagini condotte dalla polizia non portano a nulla e l’opinione pubblica si sbizzarrisce in congetture improbabili e assurde, che lasciano il tempo che trovano.

Sessant’anni dopo, Alice Lindsted, giovane e precaria documentarista, la cui nonna aveva vissuto a Silvertjarn, si reca sul posto con una troupe di quattro persone, a effettuare i sopralluoghi per un documentario che potrebbe cambiarle la vita. Quello, però, che sembra solo un mistero lontano nel tempo, prende concreta vita in un crescendo di terrore, che porterà alla luce un passato oscuro, inquietante e raccapricciante.

Camilla Sten dà vita ad un thriller costruito come una letale bomba a orologeria, i cui ingranaggi, ben oliati da una narrazione suddivisa fra passato e presente, porteranno a un finale palpitante, che lascerà senza fiato il lettore.

Se la scrittrice conosce a menadito le regole dell’horror, che richiamano alla mente alcuni gioielli di genere, come Midsommar di Ari Aster o il celebre The Blair Witch Project, pellicola del 1999, diretta da Daniel Myrick e Eduardo Sánchez, da cui il romanzo trae evidente ispirazione, non c’è nulla però di soprannaturale in un epilogo che risulta essere concretamente reale e plausibile.

Nella prima parte del romanzo la Sten addomestica la tensione e tiene un passo lento, poi, man mano che ci si addentra nella lettura, il ritmo cresce, i colpi di scena si susseguono, il terrore dei protagonisti diventa palpabile. Non è una cavalcata a rotta di collo, ma un crescendo rossiniano di paura e angoscia, ancora più accentuato da una location tanto suggestiva quanto infida e avversa.

La giovane scrittrice risulta sempre padrona di un intreccio costruito ad arte, riuscendo persino a tratteggiare con intelligente profondità la psicologia della sua principale protagonista, una giovane donna tormentata dai fantasmi di un passato di depressione, che continuano a non darle pace. Camilla Sten, poi, scrive bene, anzi benissimo, è questo è l’ulteriore plus di un thriller appassionante e sconvolgente, da cui è impossibile staccarsi fino alla catarsi finale.

 

Blackswan, giovedì 29/08/2024

 

martedì 27 agosto 2024

Mr. Big - Ten (Frontiers, 2024)

 


Un ultimo giro di campo dopo una gloriosa carriera: è il momento di prendere gli applausi e ringraziare quel pubblico di appassionati che, tra alti e bassi, non ha mai smesso di dimostrare il proprio affetto. Finisce qui la carriera dei Mr. Big, supergruppo di virtuosi dello strumento, che ha deciso di lasciare il palco dopo oltre trentacinque anni di battaglie e, come evocato dal titolo, dieci album in studio. E’ il canto del cigno del campione, che vuole lasciare a testa alta, chiudendo con la lungimiranza di chi sa che gli anni della gloria sono passati per sempre, e che un ultima buona performance accompagnerà il ritiro con il sapore di un dolce ricordo nelle orecchie dei propri fan. 

Paul Glbert, Billy Sheehan, Eric Martin e il nuovo batterista, Nick D’Virgilio (che ha preso il posto di Pat Torpey, prematuramente scomparso nel 2018 a causa di una grave malattia) offrono, dunque, alla loro storia un ulteriore tassello: se il carburante è quasi esaurito e i giorni delle corse memorabili sono ormai retaggio di un lontano passato da guardare attraverso lo specchietto retrovisore, l’ultima corsa era da chiudere con una voluta derapata, per strappare ancora applausi e magari qualche “ooooh” di meraviglia fra il pubblico pagante.

Missione, almeno in parte, compiuta: se le ultime prove in studio della band lasciavano un po’ a desiderare e palesavano una certa stanchezza da routine, questo Ten conquista soprattutto per il rinnovato entusiasmo. Occhi come sempre puntati sugli anni ’70 e ’80, i Mr. Big ritrovano un gran bel piglio power pop, accantonando in parte quel rock pompato con cui avevano fatto fortuna, e aggiungendo maggiori elementi blues. C’è meno velocità nelle dieci canzoni (più bonus track) in scaletta, ma alla fine è un approccio che paga. La band sembra aver sposato anche un mood più essenziale, meno glamour, i numeri funambolici ci sono, ma sono limitati e spesi con misura (forse qualcuno si sarebbe aspettato un Gilbert più “estroso”), e alla fine il risultato è ben centrato, soprattutto nei momenti maggiormente melodici, che si fanno tutti ricordare con piacere.

La cadenzata "Sunday Morning Kinda Girl", a dispetto dalle chitarre rombanti, possiede un delizioso retrogusto beatlesiano nel ritornello, "Good Luck Trying" è un hard rock blues dal sapore settantiano che ammicca ai Deep Purple, e la martellante "Up On You" ruba il riff agli Ac/Dc e fila via che è un piacere (grazie anche a un assolo stratosferico di Gilbert).

Altrove, il disco suona più morbido e accattivante, grazie a brani come "Who Are You", piacevole ma niente di più, all’ottima ballad in acustico "The Frame" e all’esuberante e melodica "I Am You", brano furbetto e appiccicoso, pronto per conquistare numerosi passaggi in radio. E se "Right Outta Here", con le sue sonorità mediorientali, è parecchio risaputa, colpisce, invece, il vitale e travolgente rock’n’roll di "What Were You Thinking", un’ultima generosa dose di Gerovital.

Ten è un album ben prodotto (ci mette mano Jay Ruston, mica pizza e fichi) ed è un piacere ascoltare ogni strumento che si amalgama alla perfezione con gli altri, pur avendo abbastanza spazio per respirare. Altra nota positiva di un disco, che non regala momenti memorabili e non convince per originalità, ma offre, comunque, all’ascoltatore tre quarti d’ora di musica piacevolissima. E anche se la scrittura non è al massimo dell’ispirazione, Ten permette alla band di ritirarsi alle proprie condizioni, cosa che pochi, oggi, riescono a fare.

Mentre il libro si chiudeva sulla storia della band, l'inchiostro cominciava a seccarsi e l'autore era a corto di idee, questo finale è un ultimo colpo di coda più che dignitoso. Non sarà l’addio perfetto, ma è un addio che possiede ottimi momenti, quelli capaci di suscitare la lacrimuccia nostalgica.

Voto: 7

Genere: Rock, Power Pop

 


 

 

Blackswan, martedì 27/08/2024

lunedì 26 agosto 2024

Black Country Communion - V (J&R Adventures, 2024)

 


Nulla è cambiato, tutto è rimasto identico all’ultima volta. Dopo una pausa di sette anni, il super gruppo anglo-americano Black Country Communion torna con un album, la cui proposta sembra restare immutabile nel tempo: intensità, tecnica, passione, per una manciata di brani costruiti sul trasporto ad alto contenuto energetico di riff classic rock anni ’70.

La solita solfa, direbbe qualcuno; per fortuna, dico io. Perché, in definitiva, almeno per chi ama il genere, questa è manna dal cielo. Per svariati motivi.

Il primo, perché in questo ultimo lavoro abbiamo una band che suona insieme, guardandosi negli occhi, e non scambiandosi file a distanza di centinaia di chilometri. I Black Country Communion sono entrati in studio senza idee concrete, ma hanno lavorato in maniera organica, partendo da degli abbozzi e sviluppandoli attraverso riff e groove, per catturare la scintilla collettiva che ha dato vita alle dieci canzoni in scaletta.  

Inoltre, ci troviamo al cospetto di una band affiatata, dal livello tecnico superiore, in cui ognuno dei membri sa esattamente cosa fare e, soprattutto, è libero di farlo. In questo contesto vintage, che attinge, come è evidente fin dal primo disco della loro avventura, a grandi band del passato (Led Zeppelin, Deep Purple, etc.), Bonamassa insuffla dosi massicce di blues, e ha tutto lo spazio per colorare la tela sonora con le consuete pennellate, a volte, vigorose, in altri casi morbide e sognanti. Un collante che tiene insieme la voce appassionata e le linee di basso serpeggianti di Glenn Hughes, il suono stratificato delle tastiere di Derek Sherinian, e il drumming potente e stentoreo di Jason Bonham.

Il risultato è disco che riafferma la capacità della band di aggiornare il modello rock dei primi anni ’70, dandogli un taglio contemporaneo e intergenerazionale. Al centro della narrazione, come detto, riff che evocano, soprattutto, Zep e Purple, ma anche spazio per incorporare le atmosfere funky care Hughes (oltre alla sua capacità di trovare sostanza emotiva anche nelle battute più martellanti) e per le fumanti digressioni bluesy di Bonamassa.

Un mondo sonoro riconoscibilissimo, in cui, poi, ci sono anche le canzoni, prevedibili, forse, come lo è tutta la musica che si ispira al passato, ma non per questo meno avvincenti.

Il singolo che apre il disco, "Enlighten", è una convincente combinazione fra riff hard rock e hook melodici accattivanti, l’altro singolo, "Stay Free", mette Steve Wonder al servizio dei Led Zeppelin e trascina con un groove funky irresistibile, "Restless" è una ballata blues a lenta combustione, in cui protagonista è la chitarra stellare di Bonamassa, e se "Letting Go" viaggia a cento all’ora su un riff che richiama alla memoria Angus Young, la conclusiva "The Open Road" è una cavalcata funky che rallenta il passo solo per permettere al chitarrista americano di prendere in mano le redini e sfoderare un vibrante assolo, che dal vivo potrebbe allungarsi a dismisura per chiudere, tra le fiamme, il live act della band.

Che V non riservi soprese e che la sensazione di deja vù si nasconda dietro ogni brano è un’ovvietà sulla quale è totalmente inutile perdere tempo. Quello che conta è che, per quanto anacronistico, il nuovo disco dei BCC è l’ennesimo regalo al mondo del rock di una band che si è trasformata in anello di congiunzione tra passato e presente, che restituisce emozione ai tanti nostalgici degli anni ’70, ma che è anche in grado di suggerire alle nuove generazioni la potenza e la bellezza di un genere che, più di altri, riguarda soprattutto la giovinezza. E’ musica suonata, è musica suonata bene, è musica suonata con passione e divertimento. E’ semplicemente rock.

Voto: 7,5

Genere: Hard Rock, Classic Rock

 


 


Blackswan, lunedì 26/08/2024

venerdì 23 agosto 2024

Johnny Cash - Songwriter (Universal, 2024)

 


Negli Stati Uniti il country è sempre stato definito da una sorta di classicismo antidiluviano, da un afflato nostalgico che profuma di fattoria, praterie, strade polverose e recinti per cavalli, e che rinfocola, anno dopo anno, una devozione incrollabile nei confronti dei numi tutelari del genere. Questa cultura reazionaria e inossidabile da noi ha attecchito sotto forma di passione, ma i molti che amano le sonorità roots possiedono una visione necessariamente diversa, in cui l’idolatria a ogni costo lascia il posto a un approccio più ragionato ed europeo.  

In questo contesto, si sarebbe tentati di liquidare Songwriter, nuovo album di inediti di Johnny Cash, morto vent’anni fa a Nashville, all’età di 71 anni, non come un doveroso omaggio a un’icona country, ma, nella migliore delle ipotesi, come un tentativo disperato di tenerlo inutilmente in vita e, nella peggiore, come una cinica operazione commerciale.

All'inizio degli anni '90, Cash, come molti dei suoi colleghi più anziani, era troppo vecchio per essere considerato cool, ma ancora troppo giovane per essere onorato come padre della patria. Gli anni '80 erano stati duri e tumultuosi per il musicista originario dell’Arkansas: mentre la figlia Rosanne flirtava con il successo grazie a un approccio crossover, lui ristagnava nella mediocrità, sia per i ripetuti periodi di riabilitazione sia a causa della cessazione del rapporto con la Mercury Records.

In questo periodo di stasi, nel 1993, Cash incise alcuni demo di nuove canzoni agli LSI Studios, allora gestiti dalla figliastra e dal genero. Sessioni semplici, quasi scarne: solo la chitarra e quella voce singolarmente stentorea, che aveva acquisito un tocco di tenerezza dovuta alla fragilità della mezza età.

Poi, la svolta, quando, nel decennio successivo, the man in black iniziò una fruttuosa collaborazione con Rick Rubin, sfornando un filotto di dischi leggendari (gli American Recordings), trovando finalmente e giustamente il suo posto nell’empireo dei grandissimi della musica country, e acquisendo, oltre tutto, fama internazionale.

A cagione del nuovo corso, quei demo del ’93 rimasero chiusi nel cassetto, finché John Carter Cash, l'unico figlio di Johnny e June, li trovò e si chiese cosa avrebbe potuto fare con questa raccolta di canzoni. Nasce così Songwriter: la voce e la chitarra di Cash vengono isolate e ripulite dalla polvere, e quindi affidate a un gruppo eterogeneo di assi del genere (Marty Stuart, Vince Gill, Dave Roe, Pete Abbott, oltre a Dan Auerbach) che hanno risuonato i brani per farli rivivere nella versione che oggi tutti possono ascoltare. Potere della tecnologia.

La traccia di apertura "Hello Out There" suona troppo moderna per identificarsi con il songwriting di Cash, sembra un tentativo di mettere the man in black in connessione con un futuro che non ha mai conosciuto e vicino al suono postmoderno di Sturgill Simpson. L’effetto è suggestivo, ma poco veritiero.

Fortunatamente gli impulsi revisionisti si limitano solo a questa canzone, mentre nelle altre tracce Cash torna a mostrare la propria personalità e a ispirare gli arrangiamenti della band. "Poor Valley Girl" è una lettera d'amore a June calda come l'asfalto di Nashville ad agosto, "I Love You Tonite" una ballata da capogiro e "Drive On", un inno empatico per i suoi coetanei che sono stati segnati dalla follia del Vietnam ma hanno comunque trovato una strada verso il futuro. Cash torna a vivere in queste sue canzoni, è il protagonista assoluto, un songwriter che, anche in un periodo non certo glorioso, ha saputo dare voce alla sua umile e tumultuosa storia, e a quella sua esistenza, in cui ha provato di tutto, la povertà, la fama (la bellissima "Spotlight"), la dipendenza, l’amore totalizzante per June, la forza salvifica della musica ("She Sang Sweet Baby James", indiretto omaggio a James Taylor).

Il potere degli American Recordings derivava per buona parte dalla riconoscibilità della narrazione, da una raccolta di brani noti, cioè, che una voce preziosa del passato plasmava in un affascinante gioco di karaoke, in cui ci si stupiva della bravura di un artista capace di affrontare un songbook, talvolta lontanissimo dalla tradizione.

In Songwriter, invece, c’è la riscoperta dell’ordinario, del modo in cui un sessantenne apparentemente al punto più basso della sua carriera guarda indietro alla sua vita per meravigliarsi di cose semplici: l’amore, la famiglia, il fascino della sua terra, la sorpresa di essere sopravvissuto, nonostante tutto. Queste canzoni, probabilmente, non sarebbero state in grado di innescare la miracolosa resurrezione avvenuta grazie a Rick Rubin, ma ci ricordano la persona reale che era Cash, così forte e così vulnerabile, verace romanziere di vite vere, traboccanti di sentimento e di dolore.

In tal senso, Songwriter è un disco indispensabile, che la tecnologia, in questo caso veramente al servizio della musica, ha riportato in vita, regalando ai fan canzoni belle, appassionate, attraversate da sincera umanità. Impossibile sapere se Cash avrebbe apprezzato, e se avrebbe condiviso questa forma definitiva che il progresso ha dato ai brani in scaletta , tenuti per lungo tempo a impolverarsi nel buio di un archivio. Di sicuro c’è solo che, lungi dall’essere scarti, queste canzoni rappresentano un momento di storia che meritava essere riscoperto.

Voto: 8

Genere: Country 




Blackswan, venerdì 23/08/2024

mercoledì 21 agosto 2024

My Way - Frank Sinatra (Reprise, 1969)

 


Dal momento che questa canzone è così fortemente associata a Sinatra, molte persone presumono che la stessa sia stata scritta dal cantante. Ma non è così.

My Way ha avuto origine da una canzone francese chiamata Comme D'Habitude, scritta dai compositori Jacques Revaux e Gilles Thibault. I due la proposero alla pop star francese Claude Francois, che la modificò un po' (guadagnandosi un credito come coautore) e che la registrò nel 1967, ricevendo un discreto successo in Europa. Questa versione racconta la storia di un uomo che vive la fine del suo matrimonio, perchè l'amore fra i coniugi è evaporato a causa della noia della vita quotidiana.

Quando Paul Anka si trovava come turista in Francia, ascoltò per caso la canzone e se ne innamorò perdutamente, tanto che, appena tornato a New York, si mise al lavoro per riscriverne il testo in lingua inglese. Anka, che scrisse le liriche tutto d’un botto, alle 3  di una notte piovosa, regalò la canzone in questa versione a Frank Sinatra, che poi la registrò il 30 dicembre 1968. Il testo di Anka cambiò il significato originale trasformandolo nella storia di un uomo che guarda indietro con affetto a una vita vissuta alle sue condizioni:

E ora, la fine è vicina

E così mi trovo di fronte al sipario finale

Amico mio, lo dirò chiaramente

Esporrò il mio caso, di cui sono certo

Ho vissuto una vita piena

Ho percorso ogni autostrada

E molto altro ancoraho fatto a modo mio

 

My Way divenne la canzone simbolo di Frank Sinatra, ma lui non la sopportava, affermando, in più di un’occasione, che "odiava" il brano. Nei suoi ultimi anni, descrisse My Way come "un successo pop di Paul Anka che divenne una sorta di inno nazionale", e a rincarare la dose, ci si mise perfino la figlia di Sinatra, Tina, che, nel 2000, durante un’intervista alla BBC, disse: “papà ha sempre pensato che quella canzone fosse egoistica ed egoista. Non gli piaceva.”

Negli Stati Uniti, strano a dirsi, il brano ebbe un’accoglienza tiepida, poiché non era in linea con lo spirito antisistema che si respirava nel 1969, mentre nel Regno Unito, ebbe un successo travolgente, rientrando nelle classifiche sei volte tra il 1970 e il 1971, detenendo, ancora oggi, il record per la permanenza più lunga nelle classifiche anglosassoni.

Dopo aver dominato le classifiche della musica popolare americana negli anni '40 e all'inizio degli anni '50, Sinatra visse un calo di popolarità con l’esplosione del rock’n’roll, ma riuscì comunque ad ottenere alcuni grandi successi, con Learnin' The Blues (1955) e Strangers in the Night (1966), entrambe finite al numero 1 della Hot 100. My Way, come detto, invece, non riuscì a scalare le classifiche, attestandosi solo alla ventisettesima piazza, ma nel tempo divenne una delle canzoni più popolari di Sinatra, creando uno strettissimo legame con il suo interprete che, per inciso, trovava il brano poco in linea con la sua sensibilità.

Non è dato sapere se il crooner, ai tempi, avesse in mente le tende di velluto nero di un negozio di pompe funebri quando cantava di affrontare il suo ultimo sipario. Tuttavia, nel 2005, un sondaggio condotto da Co-Operative Funeralcare ha messo questa melodia in cima alle canzoni più richieste ai funerali nel Regno Unito, tanto che, il portavoce dell’azienda, Phil Edwards, ebbe a dire, orgogliosamente: “My Way possiede quel fascino senza tempo: le parole riassumono ciò che così tante persone sentono della loro vita e come vorrebbero che i loro cari le ricordassero".

La canzone, inoltre, nasconde anche un risvolto incredibile, che sembra una bufala inventata ad arte, ma che, invece, fate pure le vostre verifiche, è assolutamente vera. Bisogna, però, allontanarsi dagli Stati Uniti e dal mondo occidentale, e trasferirsi nelle Filippine, Stato in cui Frank Sinatra è considerato un semidio, My Way una sorta di inno nazionale ufficioso e il karaoke il passatempo più diffuso. Ora, se per caso vi recaste nel Paese e aveste voglia di cimentarvi in un locale di karaoke, evitate, però, di misurarvi con My Way, perché se la eseguite male, se la stonate o vi dimenticate parte del testo, il rischio è quello di essere coinvolti in una rissa e, perfino, di venire ucciso. Tanti sono stati, infatti, gli omicidi legati all’esecuzione della canzone, che la polizia locale ha rubricato questi crimini sotto il file: My Way Killings.

Qualche esempio? Nel 2018, nella città di Dipolog, durante una festa di compleanno, il sessantunenne Jose Bosmion è stato ucciso a coltellate dal suo vicino, il ventottenne Rolando Caneso, perché prima ha preteso di cantare My Way al suo posto, e poi avrebbe stonato in modo tale da scatenare la rabbia furiosa del giovane che lo ha ucciso. E ancora. Durante una festa di capodanno, il sindaco di un quartiere di Manila ha osato cantare la canzone indossando una parrucca bionda da donna: un gruppo di motociclisti che passava di lì, lo ha visto compiere il gesto “blasfemo” e lo ha ammazzato a colpi di pistola. E dire che l’uomo prima di cominciare a cantare, aveva anche ironizzato sui rischi che correva ad eseguire My Way

Nessuno riesce a spigarsi perché tanta violenza scatenata dal brano. Secondo il proprietario di una scuola di canto di Manila, la spiegazione sarebbe “esistenziale”: “E’ un brano molto arrogante, il testo evoca sentimenti di orgoglio e arroganza nel cantante, come se tu fossi qualcuno di importante quando invece non sei nessuno. E’ una canzone che maschera i tuoi fallimenti. Ecco perché porta a scontri omicidi”.  




Blackswan, mercoledì 21/08/2024

martedì 20 agosto 2024

Fred Vargas - Sulla Pietra (Einaudi, 2024)

 


Il guardacaccia Gaël Leuven era un marcantonio solido come uno scoglio bretone, ma per ucciderlo sono bastate due coltellate al torace. A Louviec lo conoscevano tutti. Compreso Josselin de Chateaubriand (forse discendente di quel Chateaubriand), il nobilastro dall’abbigliamento eccentrico che adesso è il principale sospettato. Richiamato in Bretagna dal commissario locale, Adamsberg si addentra nelle numerose ramificazioni del caso. Ma, pur perdendosi come di consueto in false piste e digressioni mentali, in osservazioni prive di qualunque nesso con l’indagine, c’è da scommettere che anche questa volta verrà a capo del groviglio di omicidi ed efferatezze. Grazie alle sue illuminazioni proverbiali ma anche, forse, all’energia ancestrale dei menhir.

Personaggio controverso per alcune prese di posizione politiche controcorrente (vedi la difesa a oltranza di Cesare Battisti), Fred Vargas è considerata, ormai da quasi un trentennio, maestra indiscussa del noir d’oltralpe.

A sette anni da Il Morso Della Reclusa, la scrittrice francese torna nelle librerie con questo Sulla Pietra, il cui protagonista è nuovamente lo stralunato e svagato commissario Jean-Baptiste Adamsberg, personaggio anomalo e lontano dagli stereotipi del genere, uomo lento e riflessivo, che giunge alla risoluzioni dei casi con intuizioni geniali ben lontane dalla classica logica investigativa. Protagonista bizzarro e decisamente affascinante, garanzia di successo in termini di vendite, che però, in questo caso, sembra funzionare molto meno bene rispetto ai precedenti romanzi.

Sulla Pietra è romanzo lunghissimo, dovuto alla convivenza di due indagini che si sovrappongono intrecciandosi, e che soffre di una lentezza che rasenta spesso i confini della noia. Tutto, dalla trama all’intreccio narrativo, risulta, infatti, bolso e privo di mordente, e se le indagini parallele su un gruppo di lestofanti che spadroneggiano a Louviec, pittoresco paesino della Bretagna, sono sviluppate con discreta padronanza, risultano molto meno riusciti gli sviluppi relativi al crimine principale, quello per cui Adamsberg abbandona Parigi per coadiuvare la polizia locale, e il cui movente, come si vedrà alla fine, è un po’ tirato per i capelli.

La location d’altri tempi è senz’altro suggestiva, così come lo sono alcune interessanti digressioni storico-artistiche (Vargas è donna di grande cultura e lavora al CNRS) di cui il romanzo è punteggiato. Eppure, l’andamento del romanzo è moscio e ripetitivo, gli snodi narrativi alternano soluzioni prevedibili, ad altre totalmente improbabili, e se il linguaggio è talvolta ricercato, in altri casi, perde di spessore e mordente, abbigliandosi di una sciatteria quasi puerile.

Lascia interdetti, inoltre, la mancanza di approfondimento psicologico dei personaggi (i quali sono per buona metà libro intenti a mangiare e bere), tanto che anche Adamsberg risulta una figura sfumata e di contorno.

L’impressione finale è che la Vargas, sulle cui capacità non si discute, abbia voluto mettere troppa carne al fuoco, dimenticandosi però la consueta attenzione alla cottura. Il risultato è tanto fumo e niente arrosto, un epilogo, purtroppo, di cui anche i più affezionati commensali della scrittrice francese saranno, in definitiva, ben poco soddisfatti.

 

Blackswan, martedì 20/08/2024

lunedì 19 agosto 2024

The Warning - Keep Me Fed (Republic Music, 2024)

 


Si afferma continuamente che il rock è morto, eppure ho come l’impressione che il genere goda ancora di ottima salute. Non sono solo i pienoni ai concerti eventi, che anche quest’anno hanno riempito stadi e arene di appassionati di ogni età. Ciò che fa veramente la differenza è il ritorno sulle scene di grandi gruppi del passato che sembrano aver trovato l’elisir di eterna giovinezza (l’avete ascoltato l’ultimo album dei Deep Purple?) e il proliferare di nuove band che esplorano un suono antico con entusiasmo, idee e piglio moderno.

E’ questo il caso del power trio messicano che prende il nome di The Warning. Forti del potere della sorellanza e di un profondo amore per il classic rock, le Warning sono un gruppo rock emergente che, in circolazione da qualche anno, si sta conquistando sempre più visibilità e interesse da parte di pubblico e critica.

La band, composta dalle sorelle Daniela, Paulina e Alejandra Villarreal, suonano rock fin da quando erano bambine e vivevano a Monterrey, in Messico. Nel corso degli anni, sono stati in grado di trasformare i loro sogni d'infanzia in realtà, facendosi un nome attraverso singoli e video su youtube (virale la loro cover di Enter Sandman dei Metallica), suonando, poi, in tour, al fianco di artisti come Foo Fighters e Muse.

Il loro profondo legame e la ferocia tipica di chi vuol emergere a tutti i costi sono stati il carburante nobile di una carriera in ascesa e la forza propulsiva per comporre i brani del loro quarto album (il secondo per una major), composti durante le pause di tour estenuanti.

Keep Me Fed è il disco di una band che ha raggiunto un ottimo livello di maturità, che guarda al passato, certo, ma rilegge l’hard rock dei giorni di gloria, togliendo la polvere accumulata nei decenni, per forgiare un suono moderno, potente, dinamico e brillante. Dodici canzoni, in cui manca forse il singolo che le possa condurre all’affermazione definitiva, ma che suonano compatte, vibranti, a volte attraversate da quell’urgenza che è l’arma più affilata della giovinezza, altre, invece, incastonate in melodie di facile presa che svelano, tra chitarre rombanti, una consapevole attitudine pop.

Le tre sorelline, poi, suonano bene, la produzione insuffla energia in ogni nota, e anche sotto il profilo delle liriche (date un’occhiata al booklet del cd) si percepisce la volontà di lanciare un messaggio e di tenersi lontano da facili slogan e banalità assortite.   

In scaletta, si trovano, ad esempio, diverse canzoni che trattano il tema del diventare una versione diversa di se stessi per compiacere qualcun altro. In "Satisfied", ad esempio, è possibile ascoltare versi come: "Come una macchina, completerò, obbedirò, perfezionerò ogni mia mossa, ogni mia parola, finché non rimarrà più nulla di me". Niente male per tre giovani ragazze, a cui, forse, manca ancora un po’ di furbizia, ma che sembrano ben indirizzate verso un radioso futuro.

Le belle canzoni, poi, non mancano: l'orecchiabile e grintosa "Six Feet Deep" apre il disco, infilando la quinta e graffiando i padiglioni auricolari, "S!ck" è un altro convincente esempio di rock moderno, potente e melodico al contempo, e se "MORE" e "Satisfied" pagano debito ai Muse, dichiarata fonte d’ispirazione del trio messicano, "Escapism" si veste di malinconici abiti pop, che dimostrano la capacità delle Warning di scartare dal percorso principale.

Sotto il profilo musicale, le tre sorelle mandano a memoria uno schema solido ma non immutabile, in cui convivono ritornelli innodici, dinamici intrecci vocali, tempi che accelerano e rallentano, creando sensazione di vertigine, accentuato, poi, nel contrasto fra chitarre feroci e melodie che accendono la luce su diversi momenti che risultano maggiormente cupi (le chitarre ribassate di "Sharks", il cui tanfo sulfureo rimanda ai Korn). 

Coloro che hanno amato l’esordio delle Gems, o sono fan di Halestorm e Pretty Reckless, troveranno in Keep Me Feed un altro motivo per sorridere e un disco da mandare a memoria per attizzare il sacro fuoco del rock che, a dispetto di quel che si dice in giro, sembra essere più vivido che mai. 

Voto: 7,5

Genere: Rock




Blackswan, lunedì 19/08/2024

martedì 13 agosto 2024

21st Century Schizoid Man - King Crimson (Island, 1969)

 


In The Court Of Crimson King (1969), vale giusto la pena ricordarlo brevemente, non solo è il visionario album d’esordio dei britannici King Crimson, ma rappresenta anche una delle vette più alte di tutto il movimento rock progressive. Un fantastica miscela di rock, jazz e musica colta, che, nel 2015, la rivista Rolling Stone ha premiato come il secondo album più bello di tutti i tempi, dietro a The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd. Solo cinque canzoni in scaletta, che, anche come minutaggio, travalicano gli standard dell’epoca, superando tutti i sei minuti di durata, e il cui stile musicale, pur sposando le istanze sperimentali del momento, confluì in una sorta di concept, che andò ben oltre i già ampi orizzonti del prog, innovando profondamente e diventando un disco cult per intere generazioni.

Un album che, a prescindere dall’incommensurabile valore musicale, contiene anche una profonda riflessione sull’uomo e sulla società, proponendosi come crudo resoconto delle paure e delle angosce dell'uomo del ventunesimo secolo. Ad aprire il disco, quella che, probabilmente, resta la canzone più famosa della band britannica, 21st Century Schizoid Man, sette deliranti minuti in cui jazz e hard rock collidono in un caos organizzato di break e riff, in un insieme avanguardistico, cacofonico e selvaggio, eppure inaspettatamente e magistralmente sotto controllo.

Le liriche sono fortemente critiche nei confronti degli Stati Uniti e della politica guerrafondaia americana (“Politicians' funeral pyre”) e, ovviamente, della sanguinosa guerra scatenata in Vietnam, a proposito della quale, Greg Lake canta: “Innocents raped with napalm fire.  

Chi fosse il destinatario della canzone, lo spiegò senza giri di parole lo stesso Fripp, presentando la canzone a un concerto del 1969: “la canzone era dedicata a una personalità politica americana che tutti conosciamo e amiamo teneramente. Il suo nome è Spiro Agnew". 

Agnew è stato il trentanovesimo vicepresidente degli Stati Uniti (e il primo greco-americano a ricoprire tale carica), in servizio sotto il presidente Richard Nixon, e fu anche il cinquantacinquesimo governatore del Maryland. Considerato più nixoniano di Nixon stesso, eroe di guerra, conservatore e guerrafondaio, feroce oppositore dei pacifisti, che arrivò ad appellare come effemminati, Agnew fu il “braccio armato” dell’allora amministrazione repubblicana, ma fu costretto a dimettersi nel 1973, dopo essere stato rieletto per la seconda volta, perché responsabile di evasione fiscale su alcuni contributi elettorali. E’ lui, dunque, l’emblema dell’uomo schizoide rappresentato dalle taglienti liriche di Pete Sinflied, il quale, prima di diventare il paroliere della band, iniziò come roadie e direttore delle luci.

Dopo lunghe prove, i King Crimson registrarono la traccia base in una sola ripresa, con tutti e quattro i membri che suonavano insieme contemporaneamente. Greg Lake (in seguito  chitarrista degli Emerson, Lake & Palmer) era al basso e alla voce, Robert Fripp suonava la chitarra, Ian McDonald il sassofono e Michael Giles era alla batteria.Sebbene tutti e quattro i musicisti siano accreditati per aver composto la musica, furono Lake e McDonald ha inventare il riff distintivo della canzone, il cui insolito e innovativo suono fu ottenuto aumentando al massimo il volume della voce attraverso la console di missaggio e variando l'equalizzazione su ogni colpo del charleston.

L’iconica copertina dell'album In the Court of the Crimson King, che ritrae lo "schizoid man", fu dipinta da Barry Godber, un amico di Pete Sinfield. Greg Lake ha spiegato durante un’intervista: "Ricordo che eravamo circa a metà del disco e ci siamo resi conto che non avevamo una copertina dell'album. Nessuno di noi sapeva nulla di arte grafica. Ma Pete (Sinfield) ha detto: "Ho un amico che è un artista grafico. Potrebbe essere in grado di fare qualcosa.”

Sinfield chiamò Godber facendogli presente le necessità della band, e il giovane artista si presentò negli studi di registrazione qualche giorno dopo, nel momento esatto in cui la band stava registrando 21st Century Schizoid Man. Il ragazzo entrò nella sala di registrazione con un pacco sotto il braccio e quando lo aprì, mostrò al gruppo i due dipinti che, poi, sarebbero diventate l’art work del disco. Il dipinto utilizzato per l'esterno della copertina rappresenta il volto di un uomo spaventato, con gli occhi spalancati, mentre urla, un uomo con il volto sfigurato e l'orecchio sproporzionato, che rappresenta l'uomo schizoide del ventunesimo secolo di cui parla la canzone. All'interno, invece, è presente un volto apparentemente calmo e sorridente, che mostra anche le mani, in posa ieratica: rappresenta il Re Cremisi, eponimo sia dell'album che del gruppo. In entrambi i dipinti, ovviamente, il colore predominante è il rosso cremisi. La cosa incredibile, a parte il fatto siamo di fronte a un'opera d'arte fantastica, stava nell’inaspettata coincidenza: la band aveva registrato la canzone solo quel pomeriggio e non era assolutamente possibile che Godber l’avesse ascoltata prima o potesse in qualche modo conoscere l’oggetto della composizione. E invece, incredibilmente, senza saperlo, colse lo spirito dell'opera.

Barry Godber, che all’epoca aveva solo ventun anni, tre giorni dopo aver consegnato i dipinti alla band, morì, colto d’infarto, mentre camminava per strada. Quei due dipinti, oggi conservati gelosamente da Robert Fripp, sono, purtroppo, il suo unico lascito artistico, un’opera talmente iconica, che, quando il disco uscì, le persone, attratte da tanta bellezza, comprarono l’album senza conoscerne il contenuto o l'autore.  

 


   


Blackswan, martedì 13/08/2024

lunedì 12 agosto 2024

Evergrey - Theories Of Emptiness (Napalm, 2024)

 


La storia del vino che invecchiando diventa più buono vale solo se la materia prima è di livello eccelso e se l’invecchiamento è seguito con cura, attenzione e passione. Se no, il rischio è quello di trovarsi di fronte a una broda imbevibile.

Il paragone enologico, in senso assolutamente positivo, ben si adatta alla storia degli Evergrey, i quali hanno onorato quasi trent’anni di carriera non sbagliando un colpo. Fedeli al loro credo, insensibili alle mode, maestri nel tratteggiare un prog metal intelligente, malinconico, ricco di soluzioni melodiche di prim’ordine, perfetto contrappunto di passaggi sonori di deflagrante energia, i cinque svedesi surfano ancora sulla cresta dell’onda.

Eppure, disco dopo disco, in un contesto immediatamente riconoscibile, la band non ha mai mancato di affinare il linguaggio, di contestualizzare la proposta, di approfondire una scrittura che pare sempre miracolosamente ispirata.

Quasi trent’anni e non sentirli, tanto che Theories of Emptiness, il loro ultimo album e quattordicesimo in studio, sembra rafforzare ulteriormente quanto sopra detto.  Dopo il precedente, e ottimo, a parere di scrive, A Heartless Portrait del 2022, Theories of Emptiness continua a muoversi lungo un territorio familiare, senza che, tuttavia, la narrazione divenga prevedibile o stantia.

L'album suggella anche la registrazione finale con il gruppo per il batterista Jonas Ekdahlm, sostituito da Simen Sandnes (Temic), di recente annunciato come nuovo membro della band. La line up risulta più pimpante che mai, con menzione necessaria per il leader, Tom Englund, autore di una performance di altissimo livello, grazie a quel timbro che sa scartavetrare le orecchie o accarezzare l’anima, e allo straordinario lavoro alle tastiere di Rikard Zander, che riempie ogni vuoto con gusto e consapevolezza unici.

Dieci canzoni per tre quarti d’ora di musica senza un filler, in cui Englund ed il dimissionario Ekdahlm levigano i brani con una produzione curatissima, in cui niente è lasciato al caso.

L’opener "Falling From the Sun" è una bomba melodica che non lascia scampo, una di quelle canzoni che fa capire cosa sono in grado di fare gli Evergrey al meglio: strofa martellante e un ritornello talmente brillante che si canticchia in meno di un minuto. "Misfortune" è un altro brano memorabile, costruito su un riff potentissimo che, incastonato fra splendide tastiere, esplode in un ritornello ad alto contenuto power.

Molte delle canzoni in scaletta, come il singolo "Say", grazie a un riff killer e al ritornello accattivante, si offrirebbero a svariati passaggi radiofonici, se al mondo esistessero radio che non passano solo ciofeche, ma l’armamentario degli Evergrey è vario ed efficace anche ad altri livelli. "To Become Someone Else" è un ordigno a orologeria, inizia come una melodia cupa e dolente (ripresa nel ritornello) per poi esplodere in un turbinio di chitarre ribassate, "Cold Dreams" è una power ballad che aggiunge pochi elementi elettronici e vede la presenza alla voce di Jonas Renkse dei Katatonia e Salina Englund, la figlia di Tom, "Ghost Of My Hero" è un lentone spacca cuore, in cui il frontman dà prova delle straordinarie doti vocali, mentre "We Are the North" è pesante, oscura, scossa da una vibrante anima djent. 

Theories of Emptiness è l’ennesimo bersaglio colto nel centro da una band che non palesa alcuna flessione in termini di ispirazione, e che continua a esplorare il proprio mondo costruito su brani melodici e vibranti, trasportando gli ascoltatori in un viaggio attraverso un paesaggio di stati d'animo mutevoli. Intrecciata nel tessuto di ogni canzone c'è una sottile corrente sotterranea di malinconia e un toccante ricordo della bellezza agrodolce dei momenti fugaci della vita, che rendono gli Evergrey una delle migliori prog metal band in circolazione.

Voto: 8

Genere: Prog Metal

 


 

 

Blackswan, lunedì 12/08/2024

giovedì 8 agosto 2024

The Logical Song - Supertramp (A&M, 1979)

 


Gli anni della scuola per alcuni di noi rappresentano un libro di ricordi dolcissimi, in cui, a fianco delle interrogazioni e delle lezioni, riemergono dal passato e si materializzano anche volti di amici e di fidanzatine, e tutta una serie di aneddoti che ci ricordano di quando eravamo giovani, ingenui, inconsapevoli e pieni di speranze. Per altri, invece, quegli anni apparentemente leggeri sono stati un pesante fardello da portare, un crogiolo di ansie e confusione, il cui ricordo lascia un sapore amaro in bocca.

Uno di questi è Roger Hodgson, tastierista dei Supertramp, che ha scritto e cantato una delle canzoni più celebri di tutti i tempi: The Logical Song. Una canzone che parla di quei giorni, in termini, però, non proprio lusinghieri.

Le liriche del brano, infatti, si soffermano su come l'innocenza e la meraviglia dell'infanzia possano rapidamente lasciare il posto alla preoccupazione e al cinismo, quando ai bambini viene insegnato a essere adulti responsabili. In poche parole: fate molta attenzione, perché la logica, spesso, può limitare la creatività e la passione. Il senso della canzone è molto più profondo, quindi, di quanto possa sembrare questa super hit, che, a ogni passaggio in radio, ci spinge ad alzare il volume e cantare: il significato profondo è che quello che ci insegnano a scuola è senz’altro utile, ma è tutto quello che, invece, non viene insegnato a lasciare gli adolescenti in uno stato confusionale, incapaci cioè di comprendere davvero il proprio essere più intimo.

Per Hodgson la scuola non prepara alla vita, insegna nozioni e come comportarsi in un consesso civile, ma non dà istruzioni su come agire in base alle proprie aspirazioni, alle pulsioni del cuore, ai desiderata dell’animo e alle speranze racchiuse nei sogni. L’istruzione, in definitiva, per quanto necessaria, è monca e può creare grande confusione, sovrapponendo ciò che gli altri vorrebbero che fossimo a ciò che siamo realmente.

In tal senso, il tastierista fu chiarissimo, quando, presentando la canzone durane un concerto, disse: “Sono stato mandato in collegio per dieci anni e sono definitivamente emerso da quell'esperienza con molte domande: che diavolo mi è successo? Cos'è la vita? E perché molte delle cose che mi erano state dette non avevano alcun senso? Logical Song è un modo spensierato di dire qualcosa di piuttosto profondo, perchè mi hanno sempre detto come conformarmi, essere presentabile, essere accettabile e tutto il resto, ma non mi hanno detto chi sono o perché sono qui”. 

Come per la partnership fra Lennon e McCartney, la maggior parte delle canzoni dei Supertramp sono attribuite ai loro cantanti Roger Hodgson e Rick Davies, sebbene in molti casi a scriverla fosse stato solo uno dei due. The Logical Song, come detto, fu composta da Hodgson, ma, curiosamente, condivide il tema della scuola con School, brano scritto da Davies e finito sull'album dei Supertramp, Crime of the Century, del 1974. Quando, nel 1979, i rapporti tra i due leader non erano, per così dire, idilliaci, Davies in un’intervista rilasciata alla rivista Meldoy Maker, sostenne che la miglior canzone sul tema fosse la sua, sostenendo, testuali parole, che ”Roger è passato direttamente dalla scuola pubblica a un gruppo rock, quindi la sua esperienza personale è un po' limitata.”.

Hodgson scriveva spesso le sue canzoni cantando sopra i suoi riff di tastiera. Però, non cantava liriche precostruite, ma cantava a vanvera, inanellando una successione di parole senza senso. Per comporre The Logical Song usò lo stesso metodo, e quando dallo sconclusionato flusso verbale emerse per caso la parola “logico”, capì subito che la stessa sarebbe stata perfetta per il titolo. Il tastierista teneva molto a questo brano e ci lavora di continuo durante le pause di lavorazione, tanto che la completò sei mesi prima di proporla al resto della band durante le sessioni per Breakfast In America, convinto, peraltro, che agli altri non sarebbe piaciuta.

Una preoccupazione del tutto infondata: la canzone venne inserita nel disco, divenne, nel tempo, un evergreen da milioni di copie vendute e valse a Hodgson, nel 1980, l'Ivor Novello Award della British Academy of Composers and Songwriters, che nominò The Logical Song la migliore canzone dell’anno.   




Blackswan, giovedì 08/08/2024

mercoledì 7 agosto 2024

Marcus King - Mood Swings (American Recordings, 2024)

 


Strano a dirsi, ma ha alle spalle una carriera da veterano e non ha nemmeno compiuto trent’anni. Marcus King ha fatto molta strada dai tempi in cui era considerato un enfant prodige (la sua prima esibizione pagata fu all'età di otto anni, suonando con suo padre, il chitarrista Marvin King) o da quando Warren Haynes lo prese sotto la sua ala protettrice, inserendolo nel portfolio della sua etichetta, Evil Teen, per poi produrre il suo secondo album omonimo, uscito per l’etichetta Fantasy. Oggi King è un artista affermato, che ha vinto Grammy e si è esibito al Tonight Show, approdo di tutte le stelle di prima grandezza.

Con Mood Swings, il giovane chitarrista ha fatto un nuovo passo in avanti, scartando da quella che era, per quanto ampia, una evidente comfort zone, per abbandonarsi alle sapienti mani di un produttore superstar come Rick Rubin. Sia le ballate country soul di El Dorado che il blues-rock di Young Blood, benedetti da un altro grande produttore, Dan Auerbach, sembrano retaggi di un’epoca lontanissima nel tempo, e i fan del musicista originario del South Carolina si trovano all’improvviso a fare i conti con la bellezza oscura di un disco con cui il chitarrista rimette tutto in discussione. Perché questo album è doloroso e intimo, parla di rimorsi e rimpianti, di solitudine e depressione, di abusi e amori tossici.

Gli anni delle lunghe tournée per promuovere El Dorado e Young Blood hanno lasciato pesanti strascichi, King è finito in un tunnel, in un periodo buio come la pece, in cui abusava di farmaci stabilizzatori dell'umore e antipsicotici, facendo oltre modo uso di un’esiziale automedicazione, in un contesto in cui lo stress faceva riemergere traumi infantili repressi e pensieri suicidi.  

Una situazione destabilizzante, che marchia a fuoco le undici canzoni in scaletta, magnificamente prodotte da Rubin, un genio dal pedigree inestimabile, che sa come portare un artista a scavare in profondità nella sua anima e come esprimere al meglio il dolore che lo ha intrappolato.

Tra soffocanti angosce e timide speranze, tutto l’ultimo vissuto di King si riversa nelle undici canzoni in scaletta. Così le sfumature jazzy di "Fuck My Life Up Again" affrontano l’incertezza che si può soffrire in una relazione, "Save Me" cerca la speranza, anche se timidamente, mentre un cuore fragile impara ad amare di nuovo, e la title track (che vede l’insolito uso di una drum machine Rhythm Ace R77), affronta gli effetti di un trama profondo e della conseguente depressione.

Mood Swings è un disco profondamente soul, in qualche modo terapeutico, in cui a farla da padrona è la ballata grondante di sofferenza, che mette a nudo i tormenti un’anima fragile, risucchiata dalle spire di una malinconia dal sapore amarognolo.

Uno dei momenti più incisivi dell’album è "Delilah", che evoca il fantasma di Gregg Allman, mentre King, la cui chitarra assume un ruolo molto più marginale che in precedenza, sfoggia un’interpretazione vocale struggente, l'ondeggiante soul country di "Love Is Bipolar" riporta agli anni ’60, e "Me Or Tennesse" vede il musicista crogiolarsi nell’autocommiserazione di un amore che sembra perduto per sempre, tra la necessità di farmaci che plachino il dolore e un insopprimibile desiderio di pace, che appare come un frammento di speranza in mezzo alla predominante angoscia.

Fuori dall’approccio concettuale di un disco composto di canzoni emotivamente totalizzanti, il binomio King/Rubin riesce nell’intento (anche grazie a qualche azzardo elettronico) di portare il soul blues fuori dagli stereotipi di genere, cercando nuove strade espressive, senza tuttavia mai dimenticare le radici. Un’evoluzione, piaccia o meno, nella breve, ma intensa storia di un artista che, con Mood Swings, non solo è riuscito a scavare nel profondo dei suoi sentimenti, ma è stato in grado di presentarsi al suo pubblico senza nascondersi dietro a quella chitarra, che suona magnificamente. Una sorta di rinascita artistica, un nuovo abbrivio. O forse no, solo un pausa necessaria. Poco importa. Questo disco è bellissimo e tocca le corde dell’anima. Tanto basta.

Voto: 8

Genere: Rock, Americana, Soul, Blues

 


 


Blackswan, mercoledì 07/08/2024

martedì 6 agosto 2024

Paolo Maurensig - La Variante Di Luneburg (Adelphi, 2003)

 

 


 

Un colpo di pistola chiude la vita di un ricco imprenditore tedesco. È un incidente? Un suicidio? Un omicidio? L'esecuzione di una sentenza? E per quale colpa? La risposta vera è un'altra: è una mossa di scacchi. Dietro quel gesto si spalanca un inferno che ha la forma di una scacchiera. Risalendo indietro, mossa per mossa, troveremo due maestri del gioco, opposti in tutto e animati da un odio inesauribile che attraversano gli anni e i cataclismi politici pensando soprattutto ad affilare le proprie armi per sopraffarsi. Che uno dei due sia l'ebreo e l'altro sia stato un ufficiale nazista è solo uno dei vari corollari del teorema.

 

Pubblicato per la prima volta nel 1993, La Variante Di Luneburg, primo romanzo a firma del compianto Paolo Maurensig, è una vera e propria bomba a orologeria, un libro duro, feroce, tagliente, che si dipana per circa centocinquanta pagine dalla struttura agile, sulla quale si sovrappongono passato e presente, prima e terza persona, in una narrazione che avvince fin dall’intrigante inizio.

Il romanzo si apre con quello che potrebbe essere l’abbrivio di una trama noir, l’omicidio di un facoltoso imprenditore tedesco nella sua lussuosa dimora, ma che prende ben presto ben altra piega.

I tre protagonisti, Tabori, Hans Mayer e Dieter Frisch, infatti sono tutti esperti di scacchi (è inevitabile il rimando alla Novella Degli Scacchi di Stefan Sweig), un gioco che ha segnato profondamente le loro vite, una passione che li ha divorati spingendoli a una maniacale devozione. Non importa se il lettore conosca o meno le regole del gioco o sia a sua volta un appassionato della scacchiera: lentamente, ma inesorabilmente, verrà risucchiato in un mondo di partite memorabili, di giocatori geniali (il consiglio è quello di approfondire le storie dei campioni citati, Capablanca in primis), di vittorie esaltanti o sconfitte esiziali, un piccolo universo diviso in due categorie ben distinte, gli “eroi”, coloro che vivono solo ed esclusivamente in funzione del gioco, e gli “antieroi”, coloro dotati di grande talento, ma che riescono anche a vivere passioni esterne alla scacchiera, sacrificando, magari, l’apoteosi della vittoria e della fama, in nome della vita vera.

Va da sé, addentrandosi nelle pagine del romanzo, che gli scacchi siano utilizzati come metafora della guerra: una guerra di posizione, ma esaltata da feroci scontri senza quartiere da due intelligenze sopraffine e disposte a tutto per vincere. La scacchiera, come si vedrà, però, è anche lotta fra il bene e il male, campo di battaglia delle nostre esistenze, le cui scelte svelano l’anima di ciascun essere umano di fronte a scelte definitive: vivere puntando al pareggio, costruire strategie di gioco basate sull’arrocco, oppure scegliere l’impeto e il caos, la variante di Luneburg, una mossa coraggiosa e spregiudicata, che genera disordine e violenza.

Tuttavia, come dice il navigato Tabori al suo giovane allievo, “devi fare attenzione”, perché è l’attenzione che fa la differenza. Come si comprenderà nella seconda parte del romanzo, che non può non evocare Se Questo è Un Uomo di Primo Levi, La Variante di Luneburg si apre a più alte riflessioni che riguardano l’Olocausto e la condizione umana in quel terrificante frangente. Ecco, allora, che l’attenzione, peculiarità che rende imbattibile il giocatore di scacchi, diviene anche la capacità di cogliere le pieghe future della storia, i sintomi che, nello specifico, condussero alla tragedia della dittatura e all’abominio dei campi di sterminio. Tenere gli occhi aperti su tutto ciò che ci circonda è soprattutto assunzione di responsabilità, è fare la scelta giusta, decidere, costi quel che costi, tra il bene e il male, avere cura della vita degli altri.

Le partite che Tabori è costretto a giocare a Bergen Belsen contro il gerarca nazista Dieter Frisch, quelle partite che celano l’orrore del massacro, rappresentano il senso ultimo dell’esistenza, e si trasformano in un macigno emotivo che graverà per sempre sull’anima di chi le ha giocate, innescando un percorso di vendetta per procura, plausibile agli occhi della giustizia umana, inaccettabile, però, per chi ha cercato di combattere il male e ha perso.

La Variante di Luneburg è un piccolo classico moderno, un romanzo breve, ma ricco di implicazioni, esaltato da una prosa ricercata ma estremamente affilata, che si cala senza retorica, arrivando al nocciolo della questione, nell’orrore di una delle più grandi tragedie della storia dell’umanità. Una lettura che lascerà inevitabilmente strascichi nel lettore, travolto da confliggenti sentimenti di rabbia, pietas, paura e dolore, in una partita a scacchi con il proprio cuore, dal quale si potrà uscire vincenti solo prestando attenzione.  


Blackswan, martedì 06/08/2024

lunedì 5 agosto 2024

Wheel - Charismatic Leaders (Sony/InsideOut, 2024)

 


Due ottimi album, Moving Backwards del 2019 e Resident Human del 2021, erano valsi ai finlandesi Wheel l’appellativo di next big thing del panorama prog metal, conquistando l’attenzione di pubblico e critica, grazie a un suono che convogliava la lezione di band del calibro di Tool, Haken, Soen e Coheed And Cambria, solo per citare i riferimenti più evidenti.

Questo terzo Charismatic Leaders, composto da canzoni in gestazione fin dal 2020, pur senza rinnegare le nobili fonti d’ispirazione, si presenta come un lavoro più pesante e oscuro, i cui intenti, a livello testuale, si concentrano sull’analisi sociale dei nostri tempi bui, in cui sono il culto della personalità e la manipolazione dell’informazione, e non la programmazione politica, a influenzare le scelte degli elettori.

L'album inizia con "Empire", una bomba progressive ad alto voltaggio, in cui produzione e mixaggio mettono in evidenza il nitore del drumming, una linea di basso fantastica e le variegate tonalità della chitarra, mentre la voce di James Lascelles, grintosa ma melodica, suona più arrabbiata che mai. Verso la fine della canzone, compare anche un inusuale breakdown, che lega l’insieme perfettamente, accentuando la caratura metal del brano.

"Porcelain" è, invece, un brano decisamente più melodico della durata di circa sette minuti, e porta con sé un’onda lunga di suggestioni create dalla giustapposizione di una linea vocale sinuosa a una complessa stratificazione e trame sottostanti più pesanti. Il lento ma penetrante assolo di chitarra a metà canzone è semplicemente bellissimo, e si fonde perfettamente con la voce di Lascelles. 

Con una durata di 10 minuti e 46 secondi, "Submission" è la traccia più lunga del lotto: qui, è il lavoro strumentale a rubare la scena, grazie a intricati riff di chitarra che, a metà brano lasciano il posto d’onore a una sezione lunatica, in cui basso e batteria si vestono di sfumature jazz.

Un po' più lenta, ma forse una delle tracce più pesanti dell'album, è l’oscura Saboteur, i cui riff di chitarra ribassati colpiscono come un pugno in faccia e la splendida linea di basso evoca suggestioni malinconiche, mentre "Disciple", pur essendo il brano più corto in scaletta, trabocca di sorprese, grazie anche all’intricato approccio ritmico.

Se "Caught in the Afterglow" evoca il prog classico e prepara il terreno per la conclusiva "The Freeze", quest’ultima è uno degli episodi più ispirati del disco, è attraversata da un suono di chitarra senza tempo, caldo e seducente (l’assolo di Jussi Turunen è meraviglioso) e dal consueto strabiliante lavoro di Santeri Saksala alla batteria, che si muove sul sottile confine che separa minimalismo e trame complesse.

In un’ipotetica scala di valori, Charismatic Leaders si attesta al vertice della breve, ma solida discografia della band finlandese, combinando la vivacità di Resident Human con la densità di Moving Backwards, e dimostrando che l’avventura dei Wheel è un crescendo rossiniano di bellezza e consapevolezza. Siamo, dunque, al cospetto di una band che, disco dopo disco, riesce costantemente a stupire, meritando un posto di assoluto prestigio nel novero dei migliori gruppi prog metal del momento.

Voto: 8

Genere: Prog Metal

 


 


Blackswan, lunedì 05/08/2024