Alice
Lindstedt è una giovane regista di documentari costretta a barcamenarsi
con la precarietà. C’è una storia, nascosta da qualche parte nelle
crepe del passato, che la ossessiona da sempre. Nell’estate del 1959 il
piccolo villaggio minerario di Silvertjarn è stato teatro di un evento
inspiegabile: i suoi novecento abitanti sono svaniti nel nulla,
lasciandosi dietro soltanto una città fantasma, il cadavere di una donna
lapidata nella piazza del paese e una neonata di pochi giorni
abbandonata sui banchi della scuola. Nonostante le indagini e le
perlustrazioni a tappeto della polizia, non si è mai trovata alcuna
traccia dei residenti, nè alcun indizio sul loro destino. La nonna di
Alice viveva nel villaggio, e tutta la sua famiglia è scomparsa insieme a
loro. Le domande senza risposta sono troppe, e Alice decide di
realizzare un documentario per ricostruire ciò che è realmente accaduto.
Insieme a una troupe di amici si reca sul posto per i primi
sopralluoghi: ben presto capiranno che non sarà così facile tornare
indietro.
Figlia della celebre scrittrice Viveca Sten (famosa per la serie di romanzi Omicidi di Sandhamn),
la trentaduenne Camilla, dopo aver pubblicato alcuni libri per ragazzi,
si affaccia sulla scena crime con questo folgorante esordio, dal titolo
Il Villaggio Perduto.
E’
il 1959, quando gli abitanti di Silvertjarn, un villaggio minerario
situato nel nord della Svezia, scompaiono nel nulla, lasciandosi dietro
solo il cadavere di una donna lapidata e una neonata ancora in vita. Le
indagini condotte dalla polizia non portano a nulla e l’opinione
pubblica si sbizzarrisce in congetture improbabili e assurde, che
lasciano il tempo che trovano.
Sessant’anni
dopo, Alice Lindsted, giovane e precaria documentarista, la cui nonna
aveva vissuto a Silvertjarn, si reca sul posto con una troupe di quattro
persone, a effettuare i sopralluoghi per un documentario che potrebbe
cambiarle la vita. Quello, però, che sembra solo un mistero lontano nel
tempo, prende concreta vita in un crescendo di terrore, che porterà alla
luce un passato oscuro, inquietante e raccapricciante.
Camilla
Sten dà vita ad un thriller costruito come una letale bomba a
orologeria, i cui ingranaggi, ben oliati da una narrazione suddivisa fra
passato e presente, porteranno a un finale palpitante, che lascerà
senza fiato il lettore.
Se la scrittrice conosce a menadito le regole dell’horror, che richiamano alla mente alcuni gioielli di genere, come Midsommar di Ari Aster o il celebre The Blair Witch Project,
pellicola del 1999, diretta da Daniel Myrick e Eduardo Sánchez, da cui
il romanzo trae evidente ispirazione, non c’è nulla però di
soprannaturale in un epilogo che risulta essere concretamente reale e
plausibile.
Nella
prima parte del romanzo la Sten addomestica la tensione e tiene un
passo lento, poi, man mano che ci si addentra nella lettura, il ritmo
cresce, i colpi di scena si susseguono, il terrore dei protagonisti
diventa palpabile. Non è una cavalcata a rotta di collo, ma un crescendo
rossiniano di paura e angoscia, ancora più accentuato da una location
tanto suggestiva quanto infida e avversa.
La
giovane scrittrice risulta sempre padrona di un intreccio costruito ad
arte, riuscendo persino a tratteggiare con intelligente profondità la
psicologia della sua principale protagonista, una giovane donna
tormentata dai fantasmi di un passato di depressione, che continuano a
non darle pace. Camilla Sten, poi, scrive bene, anzi benissimo, è questo
è l’ulteriore plus di un thriller appassionante e sconvolgente, da cui è
impossibile staccarsi fino alla catarsi finale.
Un
ultimo giro di campo dopo una gloriosa carriera: è il momento di
prendere gli applausi e ringraziare quel pubblico di appassionati che,
tra alti e bassi, non ha mai smesso di dimostrare il proprio affetto.
Finisce qui la carriera dei Mr. Big, supergruppo di virtuosi dello
strumento, che ha deciso di lasciare il palco dopo oltre trentacinque
anni di battaglie e, come evocato dal titolo, dieci album in studio. E’
il canto del cigno del campione, che vuole lasciare a testa alta,
chiudendo con la lungimiranza di chi sa che gli anni della gloria sono
passati per sempre, e che un ultima buona performance accompagnerà il
ritiro con il sapore di un dolce ricordo nelle orecchie dei propri fan.
Paul
Glbert, Billy Sheehan, Eric Martin e il nuovo batterista, Nick
D’Virgilio (che ha preso il posto di Pat Torpey, prematuramente
scomparso nel 2018 a causa di una grave malattia) offrono, dunque, alla
loro storia un ulteriore tassello: se il carburante è quasi esaurito e i
giorni delle corse memorabili sono ormai retaggio di un lontano passato
da guardare attraverso lo specchietto retrovisore, l’ultima corsa era
da chiudere con una voluta derapata, per strappare ancora applausi e
magari qualche “ooooh” di meraviglia fra il pubblico pagante.
Missione,
almeno in parte, compiuta: se le ultime prove in studio della band
lasciavano un po’ a desiderare e palesavano una certa stanchezza da
routine, questo Ten conquista soprattutto per il rinnovato
entusiasmo. Occhi come sempre puntati sugli anni ’70 e ’80, i Mr. Big
ritrovano un gran bel piglio power pop, accantonando in parte quel rock
pompato con cui avevano fatto fortuna, e aggiungendo maggiori elementi
blues. C’è meno velocità nelle dieci canzoni (più bonus track) in
scaletta, ma alla fine è un approccio che paga. La band sembra aver
sposato anche un mood più essenziale, meno glamour, i numeri funambolici
ci sono, ma sono limitati e spesi con misura (forse qualcuno si sarebbe
aspettato un Gilbert più “estroso”), e alla fine il risultato è ben
centrato, soprattutto nei momenti maggiormente melodici, che si fanno
tutti ricordare con piacere.
La
cadenzata "Sunday Morning Kinda Girl", a dispetto dalle chitarre
rombanti, possiede un delizioso retrogusto beatlesiano nel ritornello,
"Good Luck Trying" è un hard rock blues dal sapore settantiano che
ammicca ai Deep Purple, e la martellante "Up On You" ruba il riff agli
Ac/Dc e fila via che è un piacere (grazie anche a un assolo
stratosferico di Gilbert).
Altrove,
il disco suona più morbido e accattivante, grazie a brani come "Who Are
You", piacevole ma niente di più, all’ottima ballad in acustico "The
Frame" e all’esuberante e melodica "I Am You", brano furbetto e
appiccicoso, pronto per conquistare numerosi passaggi in radio. E se
"Right Outta Here", con le sue sonorità mediorientali, è parecchio
risaputa, colpisce, invece, il vitale e travolgente rock’n’roll di "What
Were You Thinking", un’ultima generosa dose di Gerovital.
Ten
è un album ben prodotto (ci mette mano Jay Ruston, mica pizza e fichi)
ed è un piacere ascoltare ogni strumento che si amalgama alla perfezione
con gli altri, pur avendo abbastanza spazio per respirare. Altra nota
positiva di un disco, che non regala momenti memorabili e non convince
per originalità, ma offre, comunque, all’ascoltatore tre quarti d’ora di
musica piacevolissima. E anche se la scrittura non è al massimo
dell’ispirazione, Ten permette alla band di ritirarsi alle proprie condizioni, cosa che pochi, oggi, riescono a fare.
Mentre
il libro si chiudeva sulla storia della band, l'inchiostro cominciava a
seccarsi e l'autore era a corto di idee, questo finale è un ultimo
colpo di coda più che dignitoso. Non sarà l’addio perfetto, ma è un
addio che possiede ottimi momenti, quelli capaci di suscitare la
lacrimuccia nostalgica.
Nulla
è cambiato, tutto è rimasto identico all’ultima volta. Dopo una pausa
di sette anni, il super gruppo anglo-americano Black Country Communion
torna con un album, la cui proposta sembra restare immutabile nel tempo:
intensità, tecnica, passione, per una manciata di brani costruiti sul
trasporto ad alto contenuto energetico di riff classic rock anni ’70.
La
solita solfa, direbbe qualcuno; per fortuna, dico io. Perché, in
definitiva, almeno per chi ama il genere, questa è manna dal cielo. Per
svariati motivi.
Il
primo, perché in questo ultimo lavoro abbiamo una band che suona
insieme, guardandosi negli occhi, e non scambiandosi file a distanza di
centinaia di chilometri. I Black Country Communion sono entrati in
studio senza idee concrete, ma hanno lavorato in maniera organica,
partendo da degli abbozzi e sviluppandoli attraverso riff e groove, per
catturare la scintilla collettiva che ha dato vita alle dieci canzoni in
scaletta.
Inoltre,
ci troviamo al cospetto di una band affiatata, dal livello tecnico
superiore, in cui ognuno dei membri sa esattamente cosa fare e,
soprattutto, è libero di farlo. In questo contesto vintage, che attinge,
come è evidente fin dal primo disco della loro avventura, a grandi band
del passato (Led Zeppelin, Deep Purple, etc.), Bonamassa insuffla dosi
massicce di blues, e ha tutto lo spazio per colorare la tela sonora con
le consuete pennellate, a volte, vigorose, in altri casi morbide e
sognanti. Un collante che tiene insieme la voce appassionata e le linee
di basso serpeggianti di Glenn Hughes, il suono stratificato delle
tastiere di Derek Sherinian, e il drumming potente e stentoreo di Jason
Bonham.
Il
risultato è disco che riafferma la capacità della band di aggiornare il
modello rock dei primi anni ’70, dandogli un taglio contemporaneo e
intergenerazionale. Al centro della narrazione, come detto, riff che
evocano, soprattutto, Zep e Purple, ma anche spazio per incorporare le
atmosfere funky care Hughes (oltre alla sua capacità di trovare sostanza
emotiva anche nelle battute più martellanti) e per le fumanti
digressioni bluesy di Bonamassa.
Un
mondo sonoro riconoscibilissimo, in cui, poi, ci sono anche le canzoni,
prevedibili, forse, come lo è tutta la musica che si ispira al passato,
ma non per questo meno avvincenti.
Il
singolo che apre il disco, "Enlighten", è una convincente combinazione
fra riff hard rock e hook melodici accattivanti, l’altro singolo, "Stay
Free", mette Steve Wonder al servizio dei Led Zeppelin e trascina con un
groove funky irresistibile, "Restless" è una ballata blues a lenta
combustione, in cui protagonista è la chitarra stellare di Bonamassa, e
se "Letting Go" viaggia a cento all’ora su un riff che richiama alla
memoria Angus Young, la conclusiva "The Open Road" è una cavalcata funky
che rallenta il passo solo per permettere al chitarrista americano di
prendere in mano le redini e sfoderare un vibrante assolo, che dal vivo
potrebbe allungarsi a dismisura per chiudere, tra le fiamme, il live act
della band.
Che V
non riservi soprese e che la sensazione di deja vù si nasconda dietro
ogni brano è un’ovvietà sulla quale è totalmente inutile perdere tempo.
Quello che conta è che, per quanto anacronistico, il nuovo disco dei BCC
è l’ennesimo regalo al mondo del rock di una band che si è trasformata
in anello di congiunzione tra passato e presente, che restituisce
emozione ai tanti nostalgici degli anni ’70, ma che è anche in grado di
suggerire alle nuove generazioni la potenza e la bellezza di un genere
che, più di altri, riguarda soprattutto la giovinezza. E’ musica
suonata, è musica suonata bene, è musica suonata con passione e
divertimento. E’ semplicemente rock.
Negli
Stati Uniti il country è sempre stato definito da una sorta di
classicismo antidiluviano, da un afflato nostalgico che profuma di
fattoria, praterie, strade polverose e recinti per cavalli, e che
rinfocola, anno dopo anno, una devozione incrollabile nei confronti dei
numi tutelari del genere. Questa cultura reazionaria e inossidabile da
noi ha attecchito sotto forma di passione, ma i molti che amano le
sonorità roots possiedono una visione necessariamente diversa, in cui
l’idolatria a ogni costo lascia il posto a un approccio più ragionato ed
europeo.
In questo contesto, si sarebbe tentati di liquidare Songwriter,
nuovo album di inediti di Johnny Cash, morto vent’anni fa a Nashville,
all’età di 71 anni, non come un doveroso omaggio a un’icona country, ma,
nella migliore delle ipotesi, come un tentativo disperato di tenerlo
inutilmente in vita e, nella peggiore, come una cinica operazione
commerciale.
All'inizio
degli anni '90, Cash, come molti dei suoi colleghi più anziani, era
troppo vecchio per essere considerato cool, ma ancora troppo giovane per
essere onorato come padre della patria. Gli anni '80 erano stati duri e
tumultuosi per il musicista originario dell’Arkansas: mentre la figlia
Rosanne flirtava con il successo grazie a un approccio crossover, lui
ristagnava nella mediocrità, sia per i ripetuti periodi di
riabilitazione sia a causa della cessazione del rapporto con la Mercury
Records.
In questo periodo di stasi, nel
1993, Cash incise alcuni demo di nuove canzoni agli LSI Studios, allora
gestiti dalla figliastra e dal genero. Sessioni semplici, quasi scarne:
solo la chitarra e quella voce singolarmente stentorea, che aveva
acquisito un tocco di tenerezza dovuta alla fragilità della mezza età.
Poi, la svolta, quando, nel decennio successivo, the man in black iniziò una fruttuosa collaborazione con Rick Rubin, sfornando un filotto di dischi leggendari (gli American Recordings),
trovando finalmente e giustamente il suo posto nell’empireo dei
grandissimi della musica country, e acquisendo, oltre tutto, fama
internazionale.
A
cagione del nuovo corso, quei demo del ’93 rimasero chiusi nel
cassetto, finché John Carter Cash, l'unico figlio di Johnny e June, li
trovò e si chiese cosa avrebbe potuto fare con questa raccolta di
canzoni. Nasce così Songwriter: la voce e la chitarra di Cash
vengono isolate e ripulite dalla polvere, e quindi affidate a un gruppo
eterogeneo di assi del genere (Marty Stuart, Vince Gill, Dave Roe, Pete
Abbott, oltre a Dan Auerbach) che hanno risuonato i brani per farli
rivivere nella versione che oggi tutti possono ascoltare. Potere della
tecnologia.
La
traccia di apertura "Hello Out There" suona troppo moderna per
identificarsi con il songwriting di Cash, sembra un tentativo di mettere
theman in black in connessione con un futuro che non
ha mai conosciuto e vicino al suono postmoderno di Sturgill Simpson.
L’effetto è suggestivo, ma poco veritiero.
Fortunatamente
gli impulsi revisionisti si limitano solo a questa canzone, mentre
nelle altre tracce Cash torna a mostrare la propria personalità e a
ispirare gli arrangiamenti della band. "Poor Valley Girl" è una lettera
d'amore a June calda come l'asfalto di Nashville ad agosto, "I Love You
Tonite" una ballata da capogiro e "Drive On", un inno empatico per i
suoi coetanei che sono stati segnati dalla follia del Vietnam ma hanno
comunque trovato una strada verso il futuro. Cash torna a vivere in
queste sue canzoni, è il protagonista assoluto, un songwriter che, anche
in un periodo non certo glorioso, ha saputo dare voce alla sua umile e
tumultuosa storia, e a quella sua esistenza, in cui ha provato di tutto,
la povertà, la fama (la bellissima "Spotlight"), la dipendenza, l’amore
totalizzante per June, la forza salvifica della musica ("She Sang Sweet
Baby James", indiretto omaggio a James Taylor).
Il potere degli American Recordings
derivava per buona parte dalla riconoscibilità della narrazione, da una
raccolta di brani noti, cioè, che una voce preziosa del passato
plasmava in un affascinante gioco di karaoke, in cui ci si stupiva della
bravura di un artista capace di affrontare un songbook, talvolta
lontanissimo dalla tradizione.
In Songwriter,
invece, c’è la riscoperta dell’ordinario, del modo in cui un
sessantenne apparentemente al punto più basso della sua carriera guarda
indietro alla sua vita per meravigliarsi di cose semplici: l’amore, la
famiglia, il fascino della sua terra, la sorpresa di essere
sopravvissuto, nonostante tutto. Queste canzoni, probabilmente, non
sarebbero state in grado di innescare la miracolosa resurrezione
avvenuta grazie a Rick Rubin, ma ci ricordano la persona reale che era
Cash, così forte e così vulnerabile, verace romanziere di vite vere,
traboccanti di sentimento e di dolore.
In tal senso, Songwriter
è un disco indispensabile, che la tecnologia, in questo caso veramente
al servizio della musica, ha riportato in vita, regalando ai fan canzoni
belle, appassionate, attraversate da sincera umanità. Impossibile
sapere se Cash avrebbe apprezzato, e se avrebbe condiviso questa forma
definitiva che il progresso ha dato ai brani in scaletta , tenuti per lungo tempo a
impolverarsi nel buio di un archivio. Di sicuro c’è solo che, lungi
dall’essere scarti, queste canzoni rappresentano un momento di storia
che meritava essere riscoperto.
Dal
momento che questa canzone è così fortemente associata a Sinatra, molte
persone presumono che la stessa sia stata scritta dal cantante. Ma non è
così.
My Way ha avuto origine da una canzone francese chiamata Comme D'Habitude,
scritta dai compositori Jacques Revaux e Gilles Thibault. I due la
proposero alla pop star francese Claude Francois, che la modificò un po'
(guadagnandosi un credito come coautore) e che la registrò nel 1967,
ricevendo un discreto successo in Europa. Questa versione racconta la
storia di un uomo che vive la fine del suo matrimonio, perchè l'amore
fra i coniugi è evaporato a causa della noia della vita quotidiana.
Quando
Paul Anka si trovava come turista in Francia, ascoltò per caso la
canzone e se ne innamorò perdutamente, tanto che, appena tornato a New
York, si mise al lavoro per riscriverne il testo in lingua inglese.
Anka, che scrisse le liriche tutto d’un botto, alle 3 di una
notte piovosa, regalò la canzone in questa versione a Frank Sinatra,
che poi la registrò il 30 dicembre 1968. Il testo di Anka cambiò il
significato originale trasformandolo nella storia di un uomo che guarda
indietro con affetto a una vita vissuta alle sue condizioni:
E ora, la fine è vicina
E così mi trovo di fronte al sipario finale
Amico mio, lo dirò chiaramente
Esporrò il mio caso, di cui sono certo
Ho vissuto una vita piena
Ho percorso ogni autostrada
E molto altro ancoraho fatto a modo mio
My Way divenne la canzone simbolo di Frank Sinatra, ma lui non la sopportava, affermando, in più di un’occasione, che "odiava" il brano. Nei suoi ultimi anni, descrisse My Way come "un successo pop di Paul Anka che divenne una sorta di inno nazionale", e a rincarare la dose, ci si mise perfino la figlia di Sinatra, Tina, che, nel 2000, durante un’intervista alla BBC, disse: “papà ha sempre pensato che quella canzone fosse egoistica ed egoista. Non gli piaceva.”
Negli
Stati Uniti, strano a dirsi, il brano ebbe un’accoglienza tiepida,
poiché non era in linea con lo spirito antisistema che si respirava nel
1969, mentre nel Regno Unito, ebbe un successo travolgente, rientrando
nelle classifiche sei volte tra il 1970 e il 1971, detenendo, ancora
oggi, il record per la permanenza più lunga nelle classifiche
anglosassoni.
Dopo
aver dominato le classifiche della musica popolare americana negli anni
'40 e all'inizio degli anni '50, Sinatra visse un calo di popolarità
con l’esplosione del rock’n’roll, ma riuscì comunque ad ottenere alcuni
grandi successi, con Learnin' The Blues (1955) e Strangers in the Night (1966), entrambe finite al numero 1 della Hot 100. My Way,
come detto, invece, non riuscì a scalare le classifiche, attestandosi
solo alla ventisettesima piazza, ma nel tempo divenne una delle canzoni
più popolari di Sinatra, creando uno strettissimo legame con il suo
interprete che, per inciso, trovava il brano poco in linea con la sua
sensibilità.
Non
è dato sapere se il crooner, ai tempi, avesse in mente le tende di
velluto nero di un negozio di pompe funebri quando cantava di affrontare
il suo ultimo sipario. Tuttavia, nel 2005, un sondaggio condotto da Co-Operative Funeralcare
ha messo questa melodia in cima alle canzoni più richieste ai funerali
nel Regno Unito, tanto che, il portavoce dell’azienda, Phil Edwards,
ebbe a dire, orgogliosamente: “My Way possiede quel fascino senza
tempo: le parole riassumono ciò che così tante persone sentono della
loro vita e come vorrebbero che i loro cari le ricordassero".
La
canzone, inoltre, nasconde anche un risvolto incredibile, che sembra
una bufala inventata ad arte, ma che, invece, fate pure le vostre
verifiche, è assolutamente vera. Bisogna, però, allontanarsi dagli Stati
Uniti e dal mondo occidentale, e trasferirsi nelle Filippine, Stato in
cui Frank Sinatra è considerato un semidio, My Way una sorta di
inno nazionale ufficioso e il karaoke il passatempo più diffuso. Ora,
se per caso vi recaste nel Paese e aveste voglia di cimentarvi in un
locale di karaoke, evitate, però, di misurarvi con My Way,
perché se la eseguite male, se la stonate o vi dimenticate parte del
testo, il rischio è quello di essere coinvolti in una rissa e, perfino,
di venire ucciso. Tanti sono stati, infatti, gli omicidi legati
all’esecuzione della canzone, che la polizia locale ha rubricato questi
crimini sotto il file: My Way Killings.
Qualche
esempio? Nel 2018, nella città di Dipolog, durante una festa di
compleanno, il sessantunenne Jose Bosmion è stato ucciso a coltellate
dal suo vicino, il ventottenne Rolando Caneso, perché prima ha preteso
di cantare My Way al suo posto, e poi avrebbe stonato in modo
tale da scatenare la rabbia furiosa del giovane che lo ha ucciso. E
ancora. Durante una festa di capodanno, il sindaco di un quartiere di
Manila ha osato cantare la canzone indossando una parrucca bionda da
donna: un gruppo di motociclisti che passava di lì, lo ha visto compiere
il gesto “blasfemo” e lo ha ammazzato a colpi di pistola. E dire che
l’uomo prima di cominciare a cantare, aveva anche ironizzato sui rischi
che correva ad eseguire My Way…
Nessuno
riesce a spigarsi perché tanta violenza scatenata dal brano. Secondo il
proprietario di una scuola di canto di Manila, la spiegazione sarebbe
“esistenziale”: “E’ un brano molto arrogante, il testo evoca
sentimenti di orgoglio e arroganza nel cantante, come se tu fossi
qualcuno di importante quando invece non sei nessuno. E’ una canzone che
maschera i tuoi fallimenti. Ecco perché porta a scontri omicidi”.
Il
guardacaccia Gaël Leuven era un marcantonio solido come uno scoglio
bretone, ma per ucciderlo sono bastate due coltellate al torace. A
Louviec lo conoscevano tutti. Compreso Josselin de Chateaubriand (forse
discendente di quel Chateaubriand), il nobilastro dall’abbigliamento
eccentrico che adesso è il principale sospettato. Richiamato in Bretagna
dal commissario locale, Adamsberg si addentra nelle numerose
ramificazioni del caso. Ma, pur perdendosi come di consueto in false
piste e digressioni mentali, in osservazioni prive di qualunque nesso
con l’indagine, c’è da scommettere che anche questa volta verrà a capo
del groviglio di omicidi ed efferatezze. Grazie alle sue illuminazioni
proverbiali ma anche, forse, all’energia ancestrale dei menhir.
Personaggio
controverso per alcune prese di posizione politiche controcorrente
(vedi la difesa a oltranza di Cesare Battisti), Fred Vargas è
considerata, ormai da quasi un trentennio, maestra indiscussa del noir
d’oltralpe.
A sette anni da Il Morso Della Reclusa, la scrittrice francese torna nelle librerie con questo Sulla Pietra,
il cui protagonista è nuovamente lo stralunato e svagato commissario
Jean-Baptiste Adamsberg, personaggio anomalo e lontano dagli stereotipi
del genere, uomo lento e riflessivo, che giunge alla risoluzioni dei
casi con intuizioni geniali ben lontane dalla classica logica
investigativa. Protagonista bizzarro e decisamente affascinante,
garanzia di successo in termini di vendite, che però, in questo caso,
sembra funzionare molto meno bene rispetto ai precedenti romanzi.
Sulla Pietra
è romanzo lunghissimo, dovuto alla convivenza di due indagini che si
sovrappongono intrecciandosi, e che soffre di una lentezza che rasenta
spesso i confini della noia. Tutto, dalla trama all’intreccio narrativo,
risulta, infatti, bolso e privo di mordente, e se le indagini parallele
su un gruppo di lestofanti che spadroneggiano a Louviec, pittoresco
paesino della Bretagna, sono sviluppate con discreta padronanza,
risultano molto meno riusciti gli sviluppi relativi al crimine
principale, quello per cui Adamsberg abbandona Parigi per coadiuvare la
polizia locale, e il cui movente, come si vedrà alla fine, è un po’
tirato per i capelli.
La
location d’altri tempi è senz’altro suggestiva, così come lo sono
alcune interessanti digressioni storico-artistiche (Vargas è donna di
grande cultura e lavora al CNRS) di cui il romanzo è punteggiato.
Eppure, l’andamento del romanzo è moscio e ripetitivo, gli snodi
narrativi alternano soluzioni prevedibili, ad altre totalmente
improbabili, e se il linguaggio è talvolta ricercato, in altri casi,
perde di spessore e mordente, abbigliandosi di una sciatteria quasi
puerile.
Lascia
interdetti, inoltre, la mancanza di approfondimento psicologico dei
personaggi (i quali sono per buona metà libro intenti a mangiare e
bere), tanto che anche Adamsberg risulta una figura sfumata e di
contorno.
L’impressione
finale è che la Vargas, sulle cui capacità non si discute, abbia voluto
mettere troppa carne al fuoco, dimenticandosi però la consueta
attenzione alla cottura. Il risultato è tanto fumo e niente arrosto, un
epilogo, purtroppo, di cui anche i più affezionati commensali della
scrittrice francese saranno, in definitiva, ben poco soddisfatti.
Si
afferma continuamente che il rock è morto, eppure ho come l’impressione
che il genere goda ancora di ottima salute. Non sono solo i pienoni ai
concerti eventi, che anche quest’anno hanno riempito stadi e arene di
appassionati di ogni età. Ciò che fa veramente la differenza è il
ritorno sulle scene di grandi gruppi del passato che sembrano aver
trovato l’elisir di eterna giovinezza (l’avete ascoltato l’ultimo album
dei Deep Purple?) e il proliferare di nuove band che esplorano un suono
antico con entusiasmo, idee e piglio moderno.
E’
questo il caso del power trio messicano che prende il nome di The
Warning. Forti del potere della sorellanza e di un profondo amore per il
classic rock, le Warning sono un gruppo rock emergente che, in
circolazione da qualche anno, si sta conquistando sempre più visibilità e
interesse da parte di pubblico e critica.
La
band, composta dalle sorelle Daniela, Paulina e Alejandra Villarreal,
suonano rock fin da quando erano bambine e vivevano a Monterrey, in
Messico. Nel corso degli anni, sono stati in grado di trasformare i loro
sogni d'infanzia in realtà, facendosi un nome attraverso singoli e
video su youtube (virale la loro cover di Enter Sandman dei
Metallica), suonando, poi, in tour, al fianco di artisti come Foo
Fighters e Muse.
Il
loro profondo legame e la ferocia tipica di chi vuol emergere a tutti i
costi sono stati il carburante nobile di una carriera in ascesa e la
forza propulsiva per comporre i brani del loro quarto album (il secondo
per una major), composti durante le pause di tour estenuanti.
Keep Me Fed
è il disco di una band che ha raggiunto un ottimo livello di maturità,
che guarda al passato, certo, ma rilegge l’hard rock dei giorni di
gloria, togliendo la polvere accumulata nei decenni, per forgiare un
suono moderno, potente, dinamico e brillante. Dodici canzoni, in cui
manca forse il singolo che le possa condurre all’affermazione
definitiva, ma che suonano compatte, vibranti, a volte attraversate da
quell’urgenza che è l’arma più affilata della giovinezza, altre, invece,
incastonate in melodie di facile presa che svelano, tra chitarre
rombanti, una consapevole attitudine pop.
Le
tre sorelline, poi, suonano bene, la produzione insuffla energia in
ogni nota, e anche sotto il profilo delle liriche (date un’occhiata al
booklet del cd) si percepisce la volontà di lanciare un messaggio e di
tenersi lontano da facili slogan e banalità assortite.
In
scaletta, si trovano, ad esempio, diverse canzoni che trattano il tema
del diventare una versione diversa di se stessi per compiacere qualcun
altro. In "Satisfied", ad esempio, è possibile ascoltare versi come: "Come una macchina, completerò, obbedirò, perfezionerò ogni mia mossa, ogni mia parola, finché non rimarrà più nulla di me".
Niente male per tre giovani ragazze, a cui, forse, manca ancora un po’
di furbizia, ma che sembrano ben indirizzate verso un radioso futuro.
Le
belle canzoni, poi, non mancano: l'orecchiabile e grintosa "Six Feet
Deep" apre il disco, infilando la quinta e graffiando i padiglioni
auricolari, "S!ck" è un altro convincente esempio di rock moderno,
potente e melodico al contempo, e se "MORE" e "Satisfied" pagano debito
ai Muse, dichiarata fonte d’ispirazione del trio messicano, "Escapism"
si veste di malinconici abiti pop, che dimostrano la capacità delle
Warning di scartare dal percorso principale.
Sotto
il profilo musicale, le tre sorelle mandano a memoria uno schema solido
ma non immutabile, in cui convivono ritornelli innodici, dinamici
intrecci vocali, tempi che accelerano e rallentano, creando sensazione
di vertigine, accentuato, poi, nel contrasto fra chitarre feroci e
melodie che accendono la luce su diversi momenti che risultano
maggiormente cupi (le chitarre ribassate di "Sharks", il cui tanfo
sulfureo rimanda ai Korn).
Coloro che hanno amato l’esordio delle Gems, o sono fan di Halestorm e Pretty Reckless, troveranno in Keep Me Feed
un altro motivo per sorridere e un disco da mandare a memoria per
attizzare il sacro fuoco del rock che, a dispetto di quel che si dice in
giro, sembra essere più vivido che mai.
In The Court Of Crimson King
(1969), vale giusto la pena ricordarlo brevemente, non solo è il
visionario album d’esordio dei britannici King Crimson, ma rappresenta
anche una delle vette più alte di tutto il movimento rock progressive.
Un fantastica miscela di rock, jazz e musica colta, che, nel 2015, la
rivista Rolling Stone ha premiato come il secondo album più bello di
tutti i tempi, dietro a The Dark Side Of The Moon dei Pink
Floyd. Solo cinque canzoni in scaletta, che, anche come minutaggio,
travalicano gli standard dell’epoca, superando tutti i sei minuti di
durata, e il cui stile musicale, pur sposando le istanze sperimentali
del momento, confluì in una sorta di concept, che andò ben oltre i già
ampi orizzonti del prog, innovando profondamente e diventando un disco
cult per intere generazioni.
Un
album che, a prescindere dall’incommensurabile valore musicale,
contiene anche una profonda riflessione sull’uomo e sulla società,
proponendosi come crudo resoconto delle paure e delle angosce dell'uomo
del ventunesimo secolo. Ad aprire il disco, quella che, probabilmente,
resta la canzone più famosa della band britannica, 21st Century Schizoid Man,
sette deliranti minuti in cui jazz e hard rock collidono in un caos
organizzato di break e riff, in un insieme avanguardistico, cacofonico e
selvaggio, eppure inaspettatamente e magistralmente sotto controllo.
Le liriche sono fortemente critiche nei confronti degli Stati Uniti e della politica guerrafondaia americana (“Politicians' funeral pyre”) e, ovviamente, della sanguinosa guerra scatenata in Vietnam, a proposito della quale, Greg Lake canta: “Innocents raped with napalm fire”.
Chi
fosse il destinatario della canzone, lo spiegò senza giri di parole lo
stesso Fripp, presentando la canzone a un concerto del 1969: “la
canzone era dedicata a una personalità politica americana che tutti
conosciamo e amiamo teneramente. Il suo nome è Spiro Agnew".
Agnew è
stato il trentanovesimo vicepresidente degli Stati Uniti (e il primo
greco-americano a ricoprire tale carica), in servizio sotto il
presidente Richard Nixon, e fu anche il cinquantacinquesimo governatore
del Maryland. Considerato più nixoniano di Nixon stesso, eroe di guerra,
conservatore e guerrafondaio, feroce oppositore dei pacifisti, che
arrivò ad appellare come effemminati, Agnew fu il “braccio armato”
dell’allora amministrazione repubblicana, ma fu costretto a dimettersi
nel 1973, dopo essere stato rieletto per la seconda volta, perché
responsabile di evasione fiscale su alcuni contributi elettorali. E’
lui, dunque, l’emblema dell’uomo schizoide rappresentato dalle taglienti
liriche di Pete Sinflied, il quale, prima di diventare il paroliere
della band, iniziò come roadie e direttore delle luci.
Dopo
lunghe prove, i King Crimson registrarono la traccia base in una sola
ripresa, con tutti e quattro i membri che suonavano insieme
contemporaneamente. Greg Lake (in seguito chitarrista degli Emerson,
Lake & Palmer) era al basso e alla voce, Robert Fripp suonava la
chitarra, Ian McDonald il sassofono e Michael Giles era alla
batteria.Sebbene tutti e quattro i musicisti siano accreditati per aver
composto la musica, furono Lake e McDonald ha inventare il riff
distintivo della canzone, il cui insolito e innovativo suono fu ottenuto
aumentando al massimo il volume della voce attraverso la console di
missaggio e variando l'equalizzazione su ogni colpo del charleston.
L’iconica copertina dell'album In the Court of the Crimson King, che ritrae lo "schizoid man", fu dipinta da Barry Godber, un amico di Pete Sinfield. Greg Lake ha spiegato durante un’intervista: "Ricordo
che eravamo circa a metà del disco e ci siamo resi conto che non
avevamo una copertina dell'album. Nessuno di noi sapeva nulla di arte
grafica. Ma Pete (Sinfield) ha detto: "Ho un amico che è un artista
grafico. Potrebbe essere in grado di fare qualcosa.”
Sinfield
chiamò Godber facendogli presente le necessità della band, e il giovane
artista si presentò negli studi di registrazione qualche giorno dopo,
nel momento esatto in cui la band stava registrando 21st Century Schizoid Man.
Il ragazzo entrò nella sala di registrazione con un pacco sotto il
braccio e quando lo aprì, mostrò al gruppo i due dipinti che, poi,
sarebbero diventate l’art work del disco. Il dipinto utilizzato per
l'esterno della copertina rappresenta il volto di un uomo spaventato,
con gli occhi spalancati, mentre urla, un uomo con il volto sfigurato e
l'orecchio sproporzionato, che rappresenta l'uomo schizoide del
ventunesimo secolo di cui parla la canzone. All'interno, invece, è
presente un volto apparentemente calmo e sorridente, che mostra anche le
mani, in posa ieratica: rappresenta il Re Cremisi, eponimo sia
dell'album che del gruppo. In entrambi i dipinti, ovviamente, il colore
predominante è il rosso cremisi. La cosa incredibile, a parte il fatto
siamo di fronte a un'opera d'arte fantastica, stava nell’inaspettata
coincidenza: la band aveva registrato la canzone solo quel pomeriggio e
non era assolutamente possibile che Godber l’avesse ascoltata prima o
potesse in qualche modo conoscere l’oggetto della composizione. E invece, incredibilmente, senza saperlo, colse lo spirito dell'opera.
Barry
Godber, che all’epoca aveva solo ventun anni, tre giorni dopo aver
consegnato i dipinti alla band, morì, colto d’infarto, mentre camminava
per strada. Quei due dipinti, oggi conservati gelosamente da Robert
Fripp, sono, purtroppo, il suo unico lascito artistico, un’opera
talmente iconica, che, quando il disco uscì, le persone, attratte da
tanta bellezza, comprarono l’album senza conoscerne il contenuto o
l'autore.
La
storia del vino che invecchiando diventa più buono vale solo se la
materia prima è di livello eccelso e se l’invecchiamento è seguito con
cura, attenzione e passione. Se no, il rischio è quello di trovarsi di
fronte a una broda imbevibile.
Il
paragone enologico, in senso assolutamente positivo, ben si adatta alla
storia degli Evergrey, i quali hanno onorato quasi trent’anni di
carriera non sbagliando un colpo. Fedeli al loro credo, insensibili alle
mode, maestri nel tratteggiare un prog metal intelligente, malinconico,
ricco di soluzioni melodiche di prim’ordine, perfetto contrappunto di
passaggi sonori di deflagrante energia, i cinque svedesi surfano ancora
sulla cresta dell’onda.
Eppure,
disco dopo disco, in un contesto immediatamente riconoscibile, la band
non ha mai mancato di affinare il linguaggio, di contestualizzare la
proposta, di approfondire una scrittura che pare sempre miracolosamente
ispirata.
Quasi trent’anni e non sentirli, tanto che Theories of Emptiness,
il loro ultimo album e quattordicesimo in studio, sembra rafforzare
ulteriormente quanto sopra detto. Dopo il precedente, e ottimo, a
parere di scrive, A Heartless Portrait del 2022, Theories of Emptiness continua a muoversi lungo un territorio familiare, senza che, tuttavia, la narrazione divenga prevedibile o stantia.
L'album
suggella anche la registrazione finale con il gruppo per il batterista
Jonas Ekdahlm, sostituito da Simen Sandnes (Temic), di recente
annunciato come nuovo membro della band. La line up risulta più pimpante
che mai, con menzione necessaria per il leader, Tom Englund, autore di
una performance di altissimo livello, grazie a quel timbro che sa
scartavetrare le orecchie o accarezzare l’anima, e allo straordinario
lavoro alle tastiere di Rikard Zander, che riempie ogni vuoto con gusto e
consapevolezza unici.
Dieci
canzoni per tre quarti d’ora di musica senza un filler, in cui Englund
ed il dimissionario Ekdahlm levigano i brani con una produzione
curatissima, in cui niente è lasciato al caso.
L’opener
"Falling From the Sun" è una bomba melodica che non lascia scampo, una
di quelle canzoni che fa capire cosa sono in grado di fare gli Evergrey
al meglio: strofa martellante e un ritornello talmente brillante che si
canticchia in meno di un minuto. "Misfortune" è un altro brano
memorabile, costruito su un riff potentissimo che, incastonato fra
splendide tastiere, esplode in un ritornello ad alto contenuto power.
Molte
delle canzoni in scaletta, come il singolo "Say", grazie a un riff
killer e al ritornello accattivante, si offrirebbero a svariati passaggi
radiofonici, se al mondo esistessero radio che non passano solo
ciofeche, ma l’armamentario degli Evergrey è vario ed efficace anche ad
altri livelli. "To Become Someone Else" è un ordigno a orologeria,
inizia come una melodia cupa e dolente (ripresa nel ritornello) per poi
esplodere in un turbinio di chitarre ribassate, "Cold Dreams" è una
power ballad che aggiunge pochi elementi elettronici e vede la presenza
alla voce di Jonas Renkse dei Katatonia e Salina Englund, la figlia di
Tom, "Ghost Of My Hero" è un lentone spacca cuore, in cui il frontman dà
prova delle straordinarie doti vocali, mentre "We Are the North" è
pesante, oscura, scossa da una vibrante anima djent.
Theories of Emptiness
è l’ennesimo bersaglio colto nel centro da una band che non palesa
alcuna flessione in termini di ispirazione, e che continua a esplorare
il proprio mondo costruito su brani melodici e vibranti, trasportando
gli ascoltatori in un viaggio attraverso un paesaggio di stati d'animo
mutevoli. Intrecciata nel tessuto di ogni canzone c'è una sottile
corrente sotterranea di malinconia e un toccante ricordo della bellezza
agrodolce dei momenti fugaci della vita, che rendono gli Evergrey una
delle migliori prog metal band in circolazione.
Gli
anni della scuola per alcuni di noi rappresentano un libro di ricordi
dolcissimi, in cui, a fianco delle interrogazioni e delle lezioni,
riemergono dal passato e si materializzano anche volti di amici e di
fidanzatine, e tutta una serie di aneddoti che ci ricordano di quando
eravamo giovani, ingenui, inconsapevoli e pieni di speranze. Per altri,
invece, quegli anni apparentemente leggeri sono stati un pesante
fardello da portare, un crogiolo di ansie e confusione, il cui ricordo
lascia un sapore amaro in bocca.
Uno
di questi è Roger Hodgson, tastierista dei Supertramp, che ha scritto e
cantato una delle canzoni più celebri di tutti i tempi: The Logical Song. Una canzone che parla di quei giorni, in termini, però, non proprio lusinghieri.
Le
liriche del brano, infatti, si soffermano su come l'innocenza e la
meraviglia dell'infanzia possano rapidamente lasciare il posto alla
preoccupazione e al cinismo, quando ai bambini viene insegnato a essere
adulti responsabili. In poche parole: fate molta attenzione, perché la
logica, spesso, può limitare la creatività e la passione. Il senso della
canzone è molto più profondo, quindi, di quanto possa sembrare questa
super hit, che, a ogni passaggio in radio, ci spinge ad alzare il volume
e cantare: il significato profondo è che quello che ci insegnano a
scuola è senz’altro utile, ma è tutto quello che, invece, non viene
insegnato a lasciare gli adolescenti in uno stato confusionale, incapaci
cioè di comprendere davvero il proprio essere più intimo.
Per
Hodgson la scuola non prepara alla vita, insegna nozioni e come
comportarsi in un consesso civile, ma non dà istruzioni su come agire in
base alle proprie aspirazioni, alle pulsioni del cuore, ai desiderata
dell’animo e alle speranze racchiuse nei sogni. L’istruzione, in
definitiva, per quanto necessaria, è monca e può creare grande
confusione, sovrapponendo ciò che gli altri vorrebbero che fossimo a ciò
che siamo realmente.
In tal senso, il tastierista fu chiarissimo, quando, presentando la canzone durane un concerto, disse: “Sono
stato mandato in collegio per dieci anni e sono definitivamente emerso
da quell'esperienza con molte domande: che diavolo mi è successo? Cos'è
la vita? E perché molte delle cose che mi erano state dette non avevano
alcun senso? Logical Song è un modo spensierato di dire qualcosa di
piuttosto profondo, perchè mi hanno sempre detto come conformarmi,
essere presentabile, essere accettabile e tutto il resto, ma non mi
hanno detto chi sono o perché sono qui”.
Come
per la partnership fra Lennon e McCartney, la maggior parte delle
canzoni dei Supertramp sono attribuite ai loro cantanti Roger Hodgson e
Rick Davies, sebbene in molti casi a scriverla fosse stato solo uno dei
due. The Logical Song, come detto, fu composta da Hodgson, ma, curiosamente, condivide il tema della scuola con School, brano scritto da Davies e finito sull'album dei Supertramp, Crime of the Century,
del 1974. Quando, nel 1979, i rapporti tra i due leader non erano, per
così dire, idilliaci, Davies in un’intervista rilasciata alla rivista
Meldoy Maker, sostenne che la miglior canzone sul tema fosse la sua,
sostenendo, testuali parole, che ”Roger è passato direttamente dalla scuola pubblica a un gruppo rock, quindi la sua esperienza personale è un po' limitata.”.
Hodgson
scriveva spesso le sue canzoni cantando sopra i suoi riff di tastiera.
Però, non cantava liriche precostruite, ma cantava a vanvera,
inanellando una successione di parole senza senso. Per comporre The Logical Song usò lo stesso metodo, e quando dallo sconclusionato flusso verbale emerse per caso la parola “logico”,
capì subito che la stessa sarebbe stata perfetta per il titolo. Il
tastierista teneva molto a questo brano e ci lavora di continuo durante
le pause di lavorazione, tanto che la completò sei mesi prima di
proporla al resto della band durante le sessioni per Breakfast In America, convinto, peraltro, che agli altri non sarebbe piaciuta.
Una
preoccupazione del tutto infondata: la canzone venne inserita nel
disco, divenne, nel tempo, un evergreen da milioni di copie vendute e
valse a Hodgson, nel 1980, l'Ivor Novello Award della British Academy of
Composers and Songwriters, che nominò The Logical Song la migliore canzone dell’anno.
Strano
a dirsi, ma ha alle spalle una carriera da veterano e non ha nemmeno
compiuto trent’anni. Marcus King ha fatto molta strada dai tempi in cui
era considerato un enfant prodige (la sua prima esibizione pagata fu
all'età di otto anni, suonando con suo padre, il chitarrista Marvin
King) o da quando Warren Haynes lo prese sotto la sua ala protettrice,
inserendolo nel portfolio della sua etichetta, Evil Teen, per poi
produrre il suo secondo album omonimo, uscito per l’etichetta Fantasy.
Oggi King è un artista affermato, che ha vinto Grammy e si è esibito al
Tonight Show, approdo di tutte le stelle di prima grandezza.
Con Mood Swings,
il giovane chitarrista ha fatto un nuovo passo in avanti, scartando da
quella che era, per quanto ampia, una evidente comfort zone, per
abbandonarsi alle sapienti mani di un produttore superstar come Rick
Rubin. Sia le ballate country soul di El Dorado che il blues-rock di Young Blood,
benedetti da un altro grande produttore, Dan Auerbach, sembrano retaggi
di un’epoca lontanissima nel tempo, e i fan del musicista originario
del South Carolina si trovano all’improvviso a fare i conti con la
bellezza oscura di un disco con cui il chitarrista rimette tutto in
discussione. Perché questo album è doloroso e intimo, parla di rimorsi e
rimpianti, di solitudine e depressione, di abusi e amori tossici.
Gli anni delle lunghe tournée per promuovere El Dorado e Young Blood
hanno lasciato pesanti strascichi, King è finito in un tunnel, in un
periodo buio come la pece, in cui abusava di farmaci stabilizzatori
dell'umore e antipsicotici, facendo oltre modo uso di un’esiziale
automedicazione, in un contesto in cui lo stress faceva riemergere
traumi infantili repressi e pensieri suicidi.
Una
situazione destabilizzante, che marchia a fuoco le undici canzoni in
scaletta, magnificamente prodotte da Rubin, un genio dal pedigree
inestimabile, che sa come portare un artista a scavare in profondità
nella sua anima e come esprimere al meglio il dolore che lo ha
intrappolato.
Tra
soffocanti angosce e timide speranze, tutto l’ultimo vissuto di King si
riversa nelle undici canzoni in scaletta. Così le sfumature jazzy di
"Fuck My Life Up Again" affrontano l’incertezza che si può soffrire in
una relazione, "Save Me" cerca la speranza, anche se timidamente, mentre
un cuore fragile impara ad amare di nuovo, e la title track (che vede
l’insolito uso di una drum machine Rhythm Ace R77), affronta gli effetti
di un trama profondo e della conseguente depressione.
Mood Swings
è un disco profondamente soul, in qualche modo terapeutico, in cui a
farla da padrona è la ballata grondante di sofferenza, che mette a nudo i
tormenti un’anima fragile, risucchiata dalle spire di una malinconia
dal sapore amarognolo.
Uno
dei momenti più incisivi dell’album è "Delilah", che evoca il fantasma
di Gregg Allman, mentre King, la cui chitarra assume un ruolo molto più
marginale che in precedenza, sfoggia un’interpretazione vocale
struggente, l'ondeggiante soul country di "Love Is Bipolar" riporta agli
anni ’60, e "Me Or Tennesse" vede il musicista crogiolarsi
nell’autocommiserazione di un amore che sembra perduto per sempre, tra
la necessità di farmaci che plachino il dolore e un insopprimibile
desiderio di pace, che appare come un frammento di speranza in mezzo
alla predominante angoscia.
Fuori
dall’approccio concettuale di un disco composto di canzoni emotivamente
totalizzanti, il binomio King/Rubin riesce nell’intento (anche grazie a
qualche azzardo elettronico) di portare il soul blues fuori dagli
stereotipi di genere, cercando nuove strade espressive, senza tuttavia
mai dimenticare le radici. Un’evoluzione, piaccia o meno, nella breve,
ma intensa storia di un artista che, con Mood Swings, non solo è
riuscito a scavare nel profondo dei suoi sentimenti, ma è stato in
grado di presentarsi al suo pubblico senza nascondersi dietro a quella
chitarra, che suona magnificamente. Una sorta di rinascita artistica, un
nuovo abbrivio. O forse no, solo un pausa necessaria. Poco importa.
Questo disco è bellissimo e tocca le corde dell’anima. Tanto basta.
Un
colpo di pistola chiude la vita di un ricco imprenditore tedesco. È un
incidente? Un suicidio? Un omicidio? L'esecuzione di una sentenza? E per
quale colpa? La risposta vera è un'altra: è una mossa di scacchi.
Dietro quel gesto si spalanca un inferno che ha la forma di una
scacchiera. Risalendo indietro, mossa per mossa, troveremo due maestri
del gioco, opposti in tutto e animati da un odio inesauribile che
attraversano gli anni e i cataclismi politici pensando soprattutto ad
affilare le proprie armi per sopraffarsi. Che uno dei due sia l'ebreo e
l'altro sia stato un ufficiale nazista è solo uno dei vari corollari del
teorema.
Pubblicato per la prima volta nel 1993, La Variante Di Luneburg,
primo romanzo a firma del compianto Paolo Maurensig, è una vera e
propria bomba a orologeria, un libro duro, feroce, tagliente, che si
dipana per circa centocinquanta pagine dalla struttura agile, sulla
quale si sovrappongono passato e presente, prima e terza persona, in una
narrazione che avvince fin dall’intrigante inizio.
Il
romanzo si apre con quello che potrebbe essere l’abbrivio di una trama
noir, l’omicidio di un facoltoso imprenditore tedesco nella sua lussuosa
dimora, ma che prende ben presto ben altra piega.
I tre protagonisti, Tabori, Hans Mayer e Dieter Frisch, infatti sono tutti esperti di scacchi (è inevitabile il rimando alla Novella Degli Scacchi
di Stefan Sweig), un gioco che ha segnato profondamente le loro vite,
una passione che li ha divorati spingendoli a una maniacale devozione.
Non importa se il lettore conosca o meno le regole del gioco o sia a sua
volta un appassionato della scacchiera: lentamente, ma inesorabilmente,
verrà risucchiato in un mondo di partite memorabili, di giocatori
geniali (il consiglio è quello di approfondire le storie dei campioni
citati, Capablanca in primis), di vittorie esaltanti o sconfitte
esiziali, un piccolo universo diviso in due categorie ben distinte, gli “eroi”, coloro che vivono solo ed esclusivamente in funzione del gioco, e gli “antieroi”,
coloro dotati di grande talento, ma che riescono anche a vivere
passioni esterne alla scacchiera, sacrificando, magari, l’apoteosi della
vittoria e della fama, in nome della vita vera.
Va
da sé, addentrandosi nelle pagine del romanzo, che gli scacchi siano
utilizzati come metafora della guerra: una guerra di posizione, ma
esaltata da feroci scontri senza quartiere da due intelligenze
sopraffine e disposte a tutto per vincere. La scacchiera, come si vedrà,
però, è anche lotta fra il bene e il male, campo di battaglia delle
nostre esistenze, le cui scelte svelano l’anima di ciascun essere umano
di fronte a scelte definitive: vivere puntando al pareggio, costruire
strategie di gioco basate sull’arrocco, oppure scegliere l’impeto e il
caos, la variante di Luneburg, una mossa coraggiosa e spregiudicata, che
genera disordine e violenza.
Tuttavia, come dice il navigato Tabori al suo giovane allievo, “devi fare attenzione”, perché è l’attenzione che fa la differenza. Come si comprenderà nella seconda parte del romanzo, che non può non evocare Se Questo è Un Uomo di Primo Levi, La Variante di Luneburg
si apre a più alte riflessioni che riguardano l’Olocausto e la
condizione umana in quel terrificante frangente. Ecco, allora, che
l’attenzione, peculiarità che rende imbattibile il giocatore di scacchi,
diviene anche la capacità di cogliere le pieghe future della storia, i
sintomi che, nello specifico, condussero alla tragedia della dittatura e
all’abominio dei campi di sterminio. Tenere gli occhi aperti su tutto
ciò che ci circonda è soprattutto assunzione di responsabilità, è fare
la scelta giusta, decidere, costi quel che costi, tra il bene e il male,
avere cura della vita degli altri.
Le
partite che Tabori è costretto a giocare a Bergen Belsen contro il
gerarca nazista Dieter Frisch, quelle partite che celano l’orrore del
massacro, rappresentano il senso ultimo dell’esistenza, e si trasformano
in un macigno emotivo che graverà per sempre sull’anima di chi le ha
giocate, innescando un percorso di vendetta per procura, plausibile agli
occhi della giustizia umana, inaccettabile, però, per chi ha cercato di
combattere il male e ha perso.
La Variante di Luneburg
è un piccolo classico moderno, un romanzo breve, ma ricco di
implicazioni, esaltato da una prosa ricercata ma estremamente affilata,
che si cala senza retorica, arrivando al nocciolo della questione,
nell’orrore di una delle più grandi tragedie della storia dell’umanità.
Una lettura che lascerà inevitabilmente strascichi nel lettore, travolto
da confliggenti sentimenti di rabbia, pietas, paura e dolore, in una
partita a scacchi con il proprio cuore, dal quale si potrà uscire
vincenti solo prestando attenzione.
Due ottimi album, Moving Backwards del 2019 e Resident Human
del 2021, erano valsi ai finlandesi Wheel l’appellativo di next big
thing del panorama prog metal, conquistando l’attenzione di pubblico e
critica, grazie a un suono che convogliava la lezione di band del
calibro di Tool, Haken, Soen e Coheed And Cambria, solo per citare i
riferimenti più evidenti.
Questo terzo Charismatic Leaders,
composto da canzoni in gestazione fin dal 2020, pur senza rinnegare le
nobili fonti d’ispirazione, si presenta come un lavoro più pesante e
oscuro, i cui intenti, a livello testuale, si concentrano sull’analisi
sociale dei nostri tempi bui, in cui sono il culto della personalità e
la manipolazione dell’informazione, e non la programmazione politica, a
influenzare le scelte degli elettori.
L'album
inizia con "Empire", una bomba progressive ad alto voltaggio, in cui
produzione e mixaggio mettono in evidenza il nitore del drumming, una
linea di basso fantastica e le variegate tonalità della chitarra, mentre
la voce di James Lascelles, grintosa ma melodica, suona più arrabbiata
che mai. Verso la fine della canzone, compare anche un inusuale
breakdown, che lega l’insieme perfettamente, accentuando la caratura
metal del brano.
"Porcelain"
è, invece, un brano decisamente più melodico della durata di circa
sette minuti, e porta con sé un’onda lunga di suggestioni create dalla
giustapposizione di una linea vocale sinuosa a una complessa
stratificazione e trame sottostanti più pesanti. Il lento ma penetrante
assolo di chitarra a metà canzone è semplicemente bellissimo, e si fonde
perfettamente con la voce di Lascelles.
Con
una durata di 10 minuti e 46 secondi, "Submission" è la traccia più
lunga del lotto: qui, è il lavoro strumentale a rubare la scena, grazie a
intricati riff di chitarra che, a metà brano lasciano il posto d’onore a
una sezione lunatica, in cui basso e batteria si vestono di sfumature
jazz.
Un
po' più lenta, ma forse una delle tracce più pesanti dell'album, è
l’oscura Saboteur, i cui riff di chitarra ribassati colpiscono come un
pugno in faccia e la splendida linea di basso evoca suggestioni
malinconiche, mentre "Disciple", pur essendo il brano più corto in
scaletta, trabocca di sorprese, grazie anche all’intricato approccio
ritmico.
Se
"Caught in the Afterglow" evoca il prog classico e prepara il terreno
per la conclusiva "The Freeze", quest’ultima è uno degli episodi più
ispirati del disco, è attraversata da un suono di chitarra senza tempo,
caldo e seducente (l’assolo di Jussi Turunen è meraviglioso) e dal
consueto strabiliante lavoro di Santeri Saksala alla batteria, che si
muove sul sottile confine che separa minimalismo e trame complesse.
In un’ipotetica scala di valori, Charismatic Leaders si attesta al vertice della breve, ma solida discografia della band finlandese, combinando la vivacità di Resident Human con la densità di Moving Backwards,
e dimostrando che l’avventura dei Wheel è un crescendo rossiniano di
bellezza e consapevolezza. Siamo, dunque, al cospetto di una band che,
disco dopo disco, riesce costantemente a stupire, meritando un posto di
assoluto prestigio nel novero dei migliori gruppi prog metal del
momento.