lunedì 16 settembre 2024

The Blues Pills - Birthday (BMG, 2024)

 


Che gli svedesi Blues Pills avessero talento da vendere era chiaro fin dai due primi album, l’omonimo esordio e Lady In Gold, pubblicati rispettivamente nel 2014 e nel 2016. Poi, Holy Moly!, uscito nel 2020, in piena pandemia, aveva confermato l’ottima impressione suscitata dai suoi predecessori, e anche se era passato un po’ in sordina, a causa della drammaticità di quei giorni oscuri, l’album era un vero gioiello, il vertice di una breve, ma entusiasmante carriera.

Il nuovo Birthday è anche meglio, è un disco dalla vitalità sfrenata, intenso e divertente, ricco di groove e di ottime idee che ne fanno uno dei migliori album pop rock dell’anno. È stato detto che questo lavoro potrebbe essere interpretato come un nuovo inizio per una band che non pubblica niente da quattro anni, e tutto sommato non è una riflessione sbagliata. Dopotutto, i Blues Pills erano conosciuti soprattutto per un mix retrò di rock-blues e psichedelia, perfetto per la loro precedente casa discografica, la Nuclear Blast, che si trovava a veicolare quella musica verso un pubblico amante del metal e dell’hard rock.

Birthday, dunque, si discosta dai lavori precedenti, anche se non ci sono vere e proprie rivoluzioni. Semmai, questo disco sembra più l’evoluzione naturale di un suono, plasmato da una consapevole maturità: le influenze derivanti dagli anni ’70 ci sono ancora, ma mancano la patina oscura e gli accenti fortemente vintage, il suono è più mainstream e solare, e c’è una maggior attenzione alla costruzione delle canzoni e a irresistibili hook dal sapore radiofonico. Non è un caso che il loro nuovo produttore, Freddy Alexander, abbia dato una svolta decisiva al corso della band, accentuandone l’energia, lucidandone i ritornelli e aggiornandone il suono.  

Grandi canzoni, quindi, ma anche una band più in palla che mai, guidata dalla vibrante voce di Erin Larsson, e spinta dalla propulsione della sezione ritmica composta del bassista André Kvarnström e del batterista Kristoffer Schander. Da segnalare, ovviamente, anche lo straordinario lavoro alla sei corde di Zack Anderson, che evita lunghi e prepotenti assoli in favore di un tocco più misurato e colorato.

Una scaletta, dicevamo, composta da undici canzoni, tutte sotto i quattro minuti di durata, che non ha un momento di cedimento, a partire dalla title track, un grintosa tirata rock dal ritornello uncinante, una di quelle canzoni da ascoltare a ripetizione con rinnovato piacere.

Pura adrenalina è anche la successiva "Don't You Love It," trainata da una linea di basso spacca sassi e dal consueto hook melodico irresistibile, mentre "Top Of The Sky" è una lectio magistralis su come costruire una ballata emotivamente irresistibile a ritmo di valzer. Un altro aspetto importante dell’album è la versatilità della band e la volontà di esplorare diverse direzioni musicali. Ecco allora spuntare un mid tempo anello di congiunzione fra pop e rock quale "Like A Drug", la cui costruzione lenta ribolle di passione, la frivolezza divertita di "Piggyback Ride" (con un assolo al fulmicotone di Zack Anderson), la furente "Holding Me Back", scattante come una molla, che, poi, derapa nel blues in crescendo di "Somebody Better", in cui Erin Larsson dà vita a una performance stellare.

C’è ancora spazio per un blues cadenzato e cupo, trafitto da coltellate slide, ("Shadows"), per i grumi di fosca malinconia che punteggiano "I Don't Wanna Get Back On That Horse Again" (altro assolo spettacolare di Anderson) e gli echi sixties di "What Has This Life Done To You", ballata che chiude la scaletta con volute di romanticismo agro dolce.

C’è una raffinata arte musicale in Birthday, in cui nessuna nota, nessuna parola, nessun assolo risulta sprecato. I Blues Pills hanno davvero realizzato il loro disco migliore, e su questo non ci piove, ma sono anche riusciti a mantenere intatta la propria riconoscibilità, pur imboccando strade diverse, immagino nel tentativo di raggiungere un pubblico più ampio. Non so se alla fine riusciranno nell’intento, ma quel che è certo è che Birthday è un album che si fa ascoltare a ripetizione, grazie a canzoni scintillanti, alcune delle quali, vi assicuro, resteranno in heavy rotation nel vostro stereo per parecchio tempo.

Voto: 8

Genere: Rock, Pop 




Blackswan, lunedì 16/09/2024

giovedì 12 settembre 2024

Life In The Woods - Looking For Gold (Universal Music Italia, 2024)

 


E’ il 2019, quando il power trio romano Life In The Woods (composto da il chitarrista e cantante Logan Ross, il bassista Frank Lucchetti e il batterista Tomasch Tanzilli) pubblica Blue, un EP contenente cinque brani, prodotti da Gianni Maroccolo, un nome che suggerisce immediatamente un alto livello di qualità. Poi, come successo a molti artisti, l’inevitabile battuta d’arresto dovuta alla pandemia e al lockdown, che ha rallentato il progetto, senza tuttavia cancellarlo.

Cinque anni dopo, esce finalmente questo Looking For Gold, un album di debutto che ripaga ampiamente del tempo perduto e che entra di diritto nel novero dei migliori dischi rock autoctoni del 2024.

Racchiuso nell’elegante copertina disegnata da Mark Kostabi, quotatissimo pittore californiano, che aveva già messo mano all’artwork di Use Your Illusion dei Guns, l’esordio dei Life In The Woods rende omaggio al classic rock di derivazione settantiana, l’approccio è energico e vibrante, la produzione (c’è anche lo zampino di Maurizio Orlando Becker, editor presso Classic Rock Italia e Ciao 2001) recupera la genuinità di quel suono antico che, grazie alla passione dei tre ragazzi romani, torna a scintillare come in quei gloriosi anni.

Il disco è zeppo di citazioni e rimandi a grandi band del passato (Led Zeppelin, Black Sabbath, Pink Floyd, etc.), ma inserite con gusto in canzoni che si distinguono per qualità di scrittura e il cui andamento, pur in un contesto riconoscibilissimo, è tutt’altro che prevedibile.

L’opener "Caravan" è un potente hard rock blues che deflagra dalle casse dello stereo, travolgendo con bordate elettriche che fanno venire in mente i migliori Rival Sons, i quattro minuti abbondanti di "Mountain" volano alle stesse vertiginose altezze del leggendario “dirigibile”, "Fistful Of Stones" incorpora elementi sulfurei che richiamano alla memoria luciferine atmosfere sabbathiane, mentre la scattante "Mad Driver" è attraversata da un’adrenalinica urgenza punk.

Non mancano momenti più riflessivi che vestono gli abiti della ballata, come nella malinconica title track (con il contributo del soprano Olivia Calò), che ammicca alla psichedelia dei Pink Floyd, in "Without A Name" dalle antiche fragranze folk o nella trasognata "Hey Blue", in cui sono riconoscibili, ancora una volta, come fonte d’ispirazione, i Led Zeppelin.

Chiude la scaletta "Manifesto", un magma sonoro di cinque minuti che dimostra l’abilità della band nel far convivere melodia e rumore, bordate hard rock e suggestive derive prog e psichedeliche.

Looking For Gold è un grande disco di rock, in cui il citazionismo, che altrove potrebbe rappresentare un limite, qui è semmai il carburante nobile per un filotto di canzoni esplosive e intense, solide nell’esecuzione e brillanti nella scrittura. Un progetto italianissimo, che non ha nulla da invidiare a più note realtà internazionali, a cui spesso, lo dico con una punta di orgoglio, manca il talento che, invece, abbonda nella musica dei Life In The Woods.

Voto: 8

Genere: Classic Rock

 


 

 

Blackswan, giovedì 12/09/2024

martedì 10 settembre 2024

Garth Brooks - We Shall Be Free (Liberty, 1992)

 


Brano che apre il suo quarto album in studio, The Chase, We Shall Be Free fu scritta da Garth Brooks, insieme alla cantautrice originaria di Nashville, Stephanie Davis, colpito profondamente dai disordini avvenuti a Los Angeles nel 1992. In quel momento, il cantante country era in città per gli ACM Awards e si trovò ad assistere in televisione agli scontri tra polizia e cittadini, che portarono al selvaggio pestaggio di Rodney King, un tassista afroamericano, avvenuto per mano della polizia.

La canzone parla di un uomo comune che immagina di vivere in un mondo pacifico, dove gli esseri umani sono liberi di amarsi l'un l'altro senza barriere di classe, razza, religione o orientamento sessuale. Un testo splendido, ispirato alla pace e all’amore, alla visione di un mondo senza più barriere e guerre, in cui tutti vivono in armonia con la natura.

 

Quando l'ultima cosa che notiamo è il colore della pelle

E la prima cosa che cerchiamo è la bellezza interiore

Quando i cieli e gli oceani saranno di nuovo puliti

Allora saremo liberi

Saremo liberi, saremo liberi

Stai dritto e cammina fiero

Perché saremo liberi

Quando siamo liberi di amare chiunque scegliamo

Quando questo mondo sarà abbastanza grande per tutti i diversi punti di vista

 

Un messaggio che dovrebbe aprire il cuore alla gioia di vivere e alla tolleranza. E invece… Invece, il testo scatenò un vero e proprio putiferio nei circoli ultraconservatori di Nashville e, in genere, fra molti appassionati di country, che si sentirono offesi dall’esplicita difesa dei diritti dei gay contenuta nel verso:

 

Perché saremo liberi

Quando siamo liberi di amare chiunque scegliamo

 

Di conseguenza, molte stazioni radio si rifiutarono di trasmetterlo, e Brooks, per la prima volta, perse la Top 10 della classifica nazionale (raggiungendo solo la piazza numero 12).

Brooks ci rimase malissimo, non certo per il minor successo commerciale, ma perché credeva davvero nel suo messaggio di pace universale. D’altra parte, il cantante era diventato papà per la prima volta di sua figlia Taylor, e il suo nuovo ruolo di genitore gli aveva dato la spinta per iniziare a cantare del mondo in cui avrebbe voluto veder cresce i suoi figli.

L’avversione nei confronti di We Shall Be Free lo colpì così profondamente che tornò spesso sull’argomento. In un intervista alla rivista Rolling Stone, rilasciata nel 1993, disse: “Mi sento male ogni volta che qualcuno tira fuori l'aspetto cristiano contro 'We Shall Be Free. Ed essere chiamati Bruto e Giuda, ogni genere di cose, fa davvero male. Credo che Dio esista. Credo nella Bibbia. Ma non riesco a capire che amare qualcuno sia un peccato."

E ancora, per l’uscita della sua seconda compilation, The Hits, Brooks, a proposito della canzone, disse: "We Shall Be Free è chiaramente la canzone più controversa che abbia mai scritto. Una canzone d'amore, una canzone di tolleranza da parte di qualcuno che afferma di non essere un profeta, ma un uomo normale. Non avrei mai pensato che ci sarebbero stati problemi con questa canzone. A volte le strade che prendiamo non si rivelano essere le strade che avevamo immaginato. Tutto quello che posso dire su We Shall Be Free è questo: sosterrò ogni verso di questa canzone finché vivrò.”

In realtà, non era la prima volta che Brooks dovette affrontare una reazione negativa per le sue opinioni socialmente consapevoli. Due anni prima, The Nashville Network aveva bandito il suo video musicale per The Thunder Rolls, una canzone che condannava la violenza sulle donne e in cui il cantante vestiva i panni di un marito violento e donnaiolo, che viene ucciso dalla moglie maltrattata.

Il video musicale, che ha vinto il premio Video dell'anno agli Academy of Country Music Awards del 1993, fu diretto da Timothy Miller, che alternò a scene di povertà e disordini, le foto di alcune celebrità, quali Reba McEntire, Michael W. Smith, Amy Grant, Julio Iglesias, Paula Abdul e Michael Bolton, che si resero disponibili a condividere il messaggio  di fratellanza lanciato da Brooks.

 


 

 

Blackswan, martedì 10/09/2024

lunedì 9 settembre 2024

Kissin' Dynamite - Back With A Bang (Napalm Records, 2024)


 

 

Non è che ogni disco che ascoltiamo debba necessariamente avere dei sottesi intellettuali, tentare la strada della sperimentazione o usare forme espressive astratte ed elusive. Ogni tanto un po’ di sano e spensierato cazzeggio fa benissimo. Allora, ben vengano i teutonici Kissin’ Dynamite con il loro ottavo album in studio, intitolato Back With a Bang, una vera manna dal cielo per chi pensa che la musica sia anche (o soprattutto) divertimento.

Anacronistici quel tanto (e tanto lo è) che basta e insensibili alle mode, la compagine tedesca continua a pigiare il piede sull’acceleratore di un hard rock melodico pescato a piene mani dagli anni ’80, attraverso dodici canzoni che sanno di pogo e di birra, di festa senza freni, di nottate tirate in lungo fino alla chiusura dell’ultimo locale.

Come da copione, Back with a Bang vede la band girare attorno all’istrionico cantante Hannes Braun, e offrire una valanga di ritmi contagiosi e melodie orecchiabili, perfette per ricaricare le batterie durante queste giornate pigre e insopportabilmente calde.

Dodici canzoni, dicevamo, tutte dense di melodia e irresistibilmente groovy, una musica ad alto numero di ottani, che, come si evince dall’uno due iniziale (la title track e "My Monster") corrono veloci, dritte come fusi, per sbocciare, poi, in ritornelli che si mandano a memoria in un batter di ciglia.

Sono un po’ tamarri (forse un po’ tanto) e non puoi pretendere a livello testuale profondità e lirismo; ma, fatta questa dovuta premessa, i Kissin’ Dynamite conoscono a menadito le regole per scrivere canzoni divertenti, che lasciano poco spazio all’immaginazione, ma centrano sempre il bersaglio. Suonano bene e conoscono il mestiere, così da forgiare nell’elettricità irresistibili inni da stadio come "Raise Your Glass", un tuffo nostalgico negli anni ’80 di Bon Jovi e un ritornello stellare, insufflare con le tastiere vapore melodrammatico nella tirata a la Scorpions di "Queen Of The Night", o mostrare bicipiti da palestra e testosterone con "The Devil Is A Woman", portando sempre a casa il miglior risultato possibile.

Maestri di ritornello e melodia, i cinque ragazzi tedeschi hanno un tocco magico che risolleva il morale, spingendo a cantare a squarciagola con l’ottimismo di "The Best Is Yet To Come", o a saltare come matti in preda un’incontenibile euforia con il contagioso groove di "Learn To Fly".

Attivi dal 2006, i Kissin’ Dynamite hanno imparato a giocare con il loro sound e a offrire una grande varietà di atmosfere, pur rimanendo saldamente ancorati alla matrice dell’hard rock ispirato agli anni '80, e questo album è un ottimo esempio di quanto espansivo sia il loro suono e quante trame e sfumature può facilmente accogliere.

Di conseguenza, mentre l'energia pura di "When the Lights Go Out" mantiene viva la festa con grandi linee di basso che pompano sotto le chitarre melodiche, tamburi fragorosi e ritornelli sornioni, l’utilizzo della talk box di "More and More" omaggia "It's My Life" del già citato Bon Jovi, e la conclusiva ballata folk "Not A Wise Man", porta l’ascoltatore davanti a un ipotetico falò con la sua tanto semplice quanto efficace melodia.  

Back With a Bang, titolo azzeccatissimo, è un album energico e dinamico, ottimo, come dicevamo, per far baldoria fino a notte fonda, far cantare uno stadio o accompagnare un viaggio in macchina, stereo a manetta e finestrini, ovviamente, abbassati. Tenetevi a debita distanza, se quello che cercate è una musica di spessore cerebrale. Se invece avete nostalgia di certe sonorità anni ’80 (Aerosmith, Bon Jovi, Skid Row, etc.), con una scaletta così farete un pieno di irresistibile gioia. Assicurato.

Voto: 7,5

Genere: Hard Rock

 


 

 Blackswan, lunedì 09/09/2024

 

giovedì 5 settembre 2024

Seth - La France Des Maudits (Seasons Of Mist, 2024)

 


Chapeau! Dopo un esordio come Le Morsure De Christ, che fece gridare al miracolo più di una testata giornalistica e innamorare stuoli di fan del genere, i transalpini Seth tornano con un sophomore che, se non gode più dell’effetto sorpresa, si mantiene, però. a livelli altissimi.

Fin dall’inizio c’è sempre stato un elemento di ribellione nel black metal, dal momento che, come la maggior parte dei sottogeneri, cercava un modo per invertire le tendenze del tempo in favore di qualcosa di molto più crudo ed eccitante. Un tempo musica di nicchia, questa frangia del metal estremo ha continuato a crescere massicciamente, sia in portata che in popolarità, pur mantenendo quegli elementi dissacranti e di sfida, grazie ai quali le norme sociali e certe convenzioni musicali vengono derise in virtù di un desiderio profondo di rottura.

La France des Maudits, nuova fatica della compagine francese, si avvicina a questo concetto ma da una prospettiva leggermente diversa, rifuggendo dagli stanchi cliché dei macabri rituali di magia nera o di aggressione belluina all’iconografia del cristianesimo, per concentrarsi sul cupo e sanguinoso periodo storico segnato dalla Rivoluzione Francese.

Un approccio plausibile, visto che la band è originaria di Bordeaux, città che vide una quantità particolarmente brutale di spargimenti di sangue durante il Regno del Terrore alla fine del 1700. La Rivoluzione, tuttavia, non è necessariamente il fulcro principale dell’album, è semmai uno sfondo drammatico per spingere l’ascoltatore in territori oscuri e inquietanti, per sviluppare un mood catacombale e presbiteriano, per rileggere con originalità le regole di un genere, in parte rispettate, attraverso un taglio atmosferico e sinfonico, che fonde mirabilmente Ossian e Grand Guignol.

La produzione è nitida, pulita e ad alta fedeltà, ogni dettaglio sonoro ha ampio spazio per respirare e ogni strumento è in evidenza senza soffocare gli altri. La virulenza del metal è attenuata da un limpido impianto melodico, il che crea un perfetto equilibrio che consente l’ascolto anche a coloro che non sono fan dei suoni più estremi. Senza perdere solo un briciolo dell’inquietante espressività del genere, i Seth hanno invece scelto di bilanciare quell'aggressività con un'atmosfera quasi malinconica e triste, e quell'approccio meno rumoroso funziona maledettamente bene.

Ci sono, e non potrebbe essere altrimenti, anche una serie di momenti veloci e furiosi, blast beat e pura violenza sonora, ma sono distanziati e usati con intelligenza, in modo da creare vertiginosi contrasti e un senso di immersione in quei giorni sanguinosi e drammatici, giorni di delazioni, condanne sommarie, di teste che rotolano, di una violenza cieca che condurrà la Francia e il mondo intero verso una nuova era.  L’omogeneità del suono e della narrazione crea un magma inscindibile, in cui ogni singola canzone vive come parte di un tutto complesso e strutturato, in cui la fluidità d’ascolto è il fiore all’occhiello di un disco epico, teatrale, magnetico, decisamente coinvolgente.

Voto: 8

Genere: Black Metal

 


 


Blackswan, giovedì 05/09/2024

mercoledì 4 settembre 2024

Bernard Butler - Good Grief (355 Recordings, 2024)

 


Quello di Bernard Butler è un nome che evoca subito il passato, anni di grande musica e di una band, gli Suede, che il chitarrista ha accompagnato nei giorni di massimo splendore (i primi due album, Suede del 1993 e l’iconico Dog Man Star del 1994), prima di andarsene sbattendo la porta. Sembra ieri, e invece, sono passati trent’anni, praticamente il tempo di una giovane vita. Mollata la casa madre, Butler aveva iniziato una brillante carriera solista, con due ottimi dischi, People Move On (1998) e Friends And Lovers (1999), che fondevano rock anni '70 e soul, appena venati di pop chitarristico anni '80.

Strano ma vero, sono passati venticinque anni tra Friends And Lovers e questo terzo album solista, intitolato Good Grief. Si tratta di uno iato corposo, anche se nessuno potrebbe accusare Butler di aver perso tempo, data la serie di produzioni che hanno esaltato tutti coloro che lo hanno ingaggiato (si pensi a Duffy per esempio), e le collaborazioni con Catherine Anne Davies, Jessie Buckley e Brett Anderson (amico/nemico degli Suede), solo per citarne alcune.

Non sorprenda, dunque, che il tempo trascorso e tutta l’esperienza accumulata si rifletta nelle canzoni di Good Grief, il disco di un uomo che ha superato la cinquantina, che ha vissuto un sogno da rockstar, che forse lo stava consumando, e che ha dovuto cercare il bandolo della matassa della propria esistenza, trovando gioie, ma anche rimpianti, quel senso di declino, che, in qualche modo, la musica ha attenuato, senza cancellare, però, completamente.

Good Grief riflette su tutto ciò, intriso della malinconia che si prova osservando il tempo che passa inesorabilmente, lo scorrere dei giorni che incide su amori e rapporti interpersonali e professionali. Butler, però, controlla la materia, mantiene le distanze e cammina in punta di piedi, cerca il tono colloquiale e famigliare, rischiando forse il clichè, ma guadagnandone in sincerità.

La voce di Butler è molto più ferma, più controllata e capace di maggiore espressività e sottigliezza, e dà vita a un perfetto equilibrio fra carezzevole velluto, confortevole robustezza e un vago tremore, che ha più a che fare con l’anima che con il timbro.

Che questo disco non sia realizzato da un ventenne, ma da un uomo navigato, che ha maturato un mondo interiore e ha cercato, e cerca di comprenderlo, è del tutto evidente in queste nove canzoni di musica pacata, ma rotonda e piena, arrangiata con cura artigianale, levigata dalla sapienza di chi ha passato una vita a metter mano ai dischi altrui.

"Camber Sands" è una ballata ricca, che riempie lentamente i vuoti di una melodia straordinaria, ti fa pensare a Bowie e a certe cose dei Waterboys di Mike Scott, al netto di ogni suggestione folk. Procede per accumulo anche la meraviglia di "Deep Emotions", una canzone che accarezza con il velluto della malinconia e ricorda alcuni dei momenti più struggenti degli Apartments, cosa che avviene anche nella sospensione acustica di "Preaching To The Choir", mentre "Living The Dream" si gonfia di archi e di un’energia vivace, ampia, aperta, pronta a spiccare il volo.

Classe infinita e eleganza da crooner in smoking, Butler non sbaglia un colpo, sia quando cerca in una chitarra distorta il contrappunto al respiro armonioso degli archi ("London Snow"), sia quando fluttua a mezz’aria nell’estasi melodica di "Clean".

"The Wind" chiude, con un tocco di intimismo agrodolce, un disco malinconico, ma non rassegnato, elegante, ma non appariscente, intenso ma senza essere melodrammatico. Un ritorno che lascia il segno.

Voto: 8

Genere: Pop 




Blackswan, mercoledì 04/09/2024

lunedì 2 settembre 2024

Kate Nash - 9 Sad Symphonies (Kill Rock Stars, 2024)

 


Sembra passato un secolo da quando Kate Nash scalava le classifiche britanniche con il suo album d’esordio, Made Of Bricks (2007), e quel singolo, "Foundations", che la fece finire nei taccuini di tutti coloro che amano un pop di classe e alternativo. Di seguito, la carriera della Nash è proceduta spedita su due binari paralleli, quello della musica, con altri tre album di pregevole fattura, e quello cinematografico, che l’ha vista impegnata sul set di film e serie tv.

La musicista londinese è sopravvissuta non solo alla fine del contratto con la sua etichetta discografica storica (Fiction), ma anche alla cancellazione di Glow, l’amatissima serie Netflix, in cui recitava nei panni di una lottatrice, che imparava "a diventare grande e a divertirsi occupando spazio". Le note vicende pandemiche, poi, hanno fatto il resto, tenendola lontano dal circuito musicale per ben sei anni, fino alla pubblicazione di quest’ultimo 9 Sad Symphonies, ispirato e concepito durante i giorni duri della pandemia e del lockdown.

Eppure, nonostante il titolo del disco sembrerebbe suggerire un mood sofferto, proprio a cagione dei temi trattati, questo nuovo lavoro è semmai ispirato a un’ammiccante e romantica iconografia hollywoodiana (come richiamato dalla copertina) e le canzoni in scaletta, che sono dieci e non nove, abbracciano un mood per lo più gioioso, traboccante di speranza e positivismo, in cui strumenti classici e vellutati arrangiamenti d’archi trovano il contrappunto in alcuni elementi elettronici, che danno un tocco disincantato al tutto.

L’iniziale e bellissima "Millions of Heartbeats" introduce l’ascoltatore nel mondo di Kate Nash con una linea di pianoforte accattivante e gioiosa che si innesta in una ambientazione elettroclassica di più ampio respiro. Un brano che sonda l’animo umano durante la solitudine e lo spaesamento dovuti alla pandemia (“Everything hurts, it hyrts so much, i eat my dinner in the toilets at lunch”), ma che invece di abbandonarsi alla più tetra depressione si slancia in un afflato di speranza, la stessa a cui si sono aggrappati milioni di battiti cardiaci durante quel periodo oscuro (“Millions of light-years is millions and millions of heartbeats, And I think it's worth holding on for, well don't you oh? I guess we have to try”).

Nello stesso modo, la baldanza emotiva di "Misery" risucchia in un vortice orecchiabilissimo di archi ed elettronica, mentre la Nash invita alla solidarietà e alla cura degli altri con ingenua trasparenza (“Running like we never run be, Running like we never run before, I will never leave you behind… Even if the bridge was falling”), così come nella languida "Wasteman", quando gli archi si librano nel ritmo di una seducente danza, la songwriter gioisce per la fine di un amore tossico e la ritrovata libertà.

A volte le melodie sembrano scarne, sottili, sfuggenti, eppure tutto suona coinvolgente, basta il tocco di un violino malinconico nel folk divertito di "Abandoned", l’incedere pizzicato della stralunata ed emozionante "Space Odissey 2001", o lo scanzonato mood di una canzoncina dal vago retrogusto country come la conclusiva "Vampyre", un conclusivo invito a vivere liberi da condizionamenti e abbandonarsi al puro piacere della vita (“Sometimes you gotta jump and run, Let the demons from your past explode into the sun”).

Troppo spesso sottovalutata, Kate Nash si rivela per l’ennesima volta una sognwriter ispirata, capace di dare vita a un pop fantasioso e sofisticato, eppure leggiadro, divertente, portatore sano di piacevolezza e sorrisi. Nessuna alchimia particolare per giungere al cuore dell’ascoltatore: melodie solari, semplici e dirette, e testi che fanno riflettere con un tocco di disincantata ironia. Cos’altro serve a un buon disco?

Voto: 8

Genere: pop 




Blackswan, lunedì 02/09/2024