lunedì 30 settembre 2024

The Police - King Of Pain (A&M, 1983)

 


C'è un fossile intrappolato nell'alta parete di una scogliera
C'è la mia anima lassù
C'è un salmone morto congelato in una cascata
C'è la mia anima lassù
C'è una balena arenata sulla spiaggia dal riflusso della grande marea
C'è la mia anima lassù
C'è una farfalla intrappolata nella tela di un ragno
C'è la mia anima lassù

Questi versi depressi e grondanti sofferenza rappresentano il senso di Sting per il dolore. King Of Pain è, infatti, una canzone intima e molto personale, attraverso la quale il cantante dei Police cercava di rielaborare un momento infelice della propria vita. Sting, infatti, si era recentemente separato dalla sua prima moglie, l'attrice Frances Tomelty, e, in quei giorni turbolenti, non andava d'accordo con gli altri due membri della band, con i quali, spesso e volentieri, si trovava in disaccordo su svariate scelte artistiche. Con questo brano, allora, Sting cerca di darsi una scossa, si incorona King Of Pain e prova ad analizzare, per superarlo, il proprio tormento interiore.  

C'è una piccola macchia nera sul sole di oggi. 

La canzone inizia con questo famoso verso, a proposito del quale, il cantante in un’intervista a Musician, disse: “Ho evocato simboli di dolore e li ho collegati alla mia anima. Una macchia nera sul sole mi ha colpito come un'immagine molto dolorosa”.

Questo verso, che evoca immediatamente l’umore cupo di chi si trova a fare i conti con qualcosa che disturba la propria serenità, nacque in seguito a un evento specifico. Durante i giorni in cui il suo matrimonio stava collassando, Sting era seduto sotto un albero del suo giardino, e mentre rimuginava sulla fine della sua storia d’amore, vide il sole tramontare e notò delle macchie solari. Quando Trudie Styler, la sua nuova compagna, vedendolo solo e depresso, lo raggiunse in giardino, Sting le disse: "Oggi c'è una piccola macchia nera sul sole. Quella lassù è la mia anima". Trudie alzò discretamente gli occhi al cielo e, vagamente infastidita dall’umore di quello che, tempo dopo, sarebbe diventato suo marito, disse: “Eccolo di nuovo, il re del dolore.”

Sting scrisse King Of Pain nel 1982 a Goldeneye, una tenuta in Giamaica precedentemente abitata da Ian Fleming, che lì scrisse molti dei romanzi di James Bond, e registrò il primo abbozzo del brano utilizzando un piccolo sintetizzatore Casio. Quel suono tintinnante piacque molto a Copeland, che, però, ebbe l’idea di renderlo un po’ più organico e pieno, utilizzando uno xilofono. L’utilizzo dello xilofono per la canzone è stato uno dei pochi suggerimenti che Sting accettò dai suoi compagni, con i quali, a causa del suo egocentrismo, era, ormai, ai ferri corti. Tanto che alla fine delle registrazioni di Synchronicity, in cui venne inclusa King Of Pain, il trio si sciolse e Sting iniziò una proficua carriera solista.  

 


 

Blackswan, lunedì 30/09/2024


giovedì 26 settembre 2024

Pallbearer - Mind Burns Alive (Nuclear Blast, 2024)

 


Una genesi complicata, quella di Mind Burns Alive, un disco messo in cantiere due volte, nel 2020 e nel 2022, che tuttavia non ha mai visto una forma definitiva, trovata con pertinacia solo alla fine dello scorso anno e realizzata compiutamente a metà del 2024.

C’era quindi molto attesa per il quinto album in studio dei doomsters Pallbearer, per verificare se l’antico granitico approccio sarebbe tornato a scuotere le casse dello stereo, o se la band, come era evidente nel precedente Forgotten Days (2020), avrebbe mutato definitivamente pelle, per diventare qualcosa d’altro rispetto a ciò che i fan della prima ora conoscevano.

Con questo eccellente Mind Burns Alive si può affermare che la mutazione sia definitiva, che il magma distorsivo delle prime prove in studio sia scomparso quasi totalmente, per lasciare spazio a un approccio più melodico e atmosferico, in cui le lunghe suggestioni strumentali e le armonie conducono la scaletta dell’album in territori limitrofi al prog. Certo, non mancano esplosioni elettriche e ribollenti muri di chitarre, ma sono funzionali, semmai, a un linguaggio più forbito, che sceglie la digressione e il crescendo come principale forma espressiva.

Se è vero che anche in passato i Pallbearer non sono mai stati una band di allegroni, oggi, l’elemento malinconico, si è ulteriormente accentuato, in virtù anche dei temi trattati, visto che l’album affronta il malessere mentale degli esseri umani di fronte all’oscurità in cui il mondo sta sprofondando, con il suo fardello di disperazione motivato da guerre, pandemie e catastrofi ambientali. Le nostre menti prendono fuoco, bruciano lentamente di fronte ad avversità esistenziali che sono diventate universali, che affossano le speranze rivolte a un futuro sempre più tetro, insufflando nelle nostre anime del vapore acido della paura.

Con queste premesse, è ovvio che il disco sia avvolto spesso in un velo di tristezza che la potenza del metal non può certo esprimere al meglio. Ecco, allora, l’opener "Where The Lights Fades", un brano che farà storcere immediatamente il naso a chi è aduso a sonorità estreme, e che porta la musica della band originaria dell’Arkansas verso una dimensione inaspettata: arpeggio melodico, voci pulite, tappeto di tastiere, un mood sospeso tra prog e pop, che solo la seconda parte del brano movimenta un poco con un suggestivo crescendo. Un brano inaspettato e splendido, che cattura immediatamente all’ascolto di un disco che ha parecchie frecce al proprio arco.

La title track apre ruvida e pesante, ma il riff delle chitarre è straordinariamente melodico, l’andamento epico, il ritornello irresistibile, il finale intenso e liberatorio. "Signals" è l’ennesima canzone che allontana i Pallbearer dai loro esordi, l’incipit per voce e morbido arpeggio di chitarra è tremante, il brano si riempie poi molto lentamente tra volute sonore meste e arrese, salvo poi inasprirsi in un crescendo, che è la sintesi perfetta di come si possa forgiare una splendida melodia anche nel metallo più incandescente.

"Endless Place" è il capolavoro piazzato proprio nel cuore del disco, undici minuti di assoluta perfezione, che ricalcano lo svolgimento del brano precedente (quanto tristezza e quanta melodia!), prima che le trame ascendenti di un sax acuminato attraversino la coltre crepuscolare, cavalcando la tempesta elettrica sottostante. Più introspettiva, la successiva "Daybreak", il brano più melodico della scaletta, che porta la band in un mondo parallelo e sognante, per tornare poi sulla terra con la conclusiva "With Disease", che mostra l’antica ferocia senza tuttavia dimenticare accenti più melodici e un mood complessivamente angosciato e sofferente.

Mind Burns Alive è quello che si potrebbe definire il disco della svolta definitiva per quanto riguarda la breve ma intensa carriera dei Pallbearer. Il doom c’è ancora, ma non è il piatto più sostanzioso della premiata ditta. Circostanza, questa, che potrebbe allontanare molti fan della prima ora, e avvicinarne, invece, altri, più abituati a una musica che rifugge facile etichette e che ama suoni contaminati e sperimentali. In senso assoluto, visto con gli occhi di un ascoltatore neutrale, Mind Burns Alive è semplicemente un gran disco, ricco di sfumature, suggestivo per quel rinnegare almeno in parte il passato, alla ricerca di più intriganti forme espressive.

Voto: 8

Genere: Prog Metal

 


 

 

Blackswan, giovedì 26/09/2024

martedì 24 settembre 2024

Julie Christie - Ridiculous And Full Of Blood (Red Crk, 2024)

 


Julie Christmas, un nome che evoca il calore del Natale, il tepore del caminetto, l’albero, i doni, le luci, la tavola imbandita. Mai suggestione fu più errata. Basta guardare la copertina e leggere il titolo di questo nuovo Ridiculous And Full Of Blood per rendersi conto di approcciarsi a un’esperienza inquietante.

La signora Natale, per chi non se lo ricordasse, si è fatta un nome a metà degli anni 2000 con due band di sludge/alternative metal (Made Out Of Babies e Battle Of Mice), con un album solista (The Bad Wife del 2010) che aveva dimostrato tutta l’ampiezza del suo talento, e con la scintillante collaborazione con i Cult Of Luna per quel capolavoro che porta il nome di Mariner (2016).

La musica della Christmas rifugge alle facili categorizzazioni, come appare evidente da questo Ridiculous And Full Of Blood, un album che imbocca numerosi percorsi del tutto inaspettati. Versatile, ricco di sfumature e sfaccettato, il disco sembra un logico successore di The Bad Wife, ma più inquieto e inquietante, in cui le sfumature vagamente barocche del suo predecessore sono sostituite da echi sludge, psichedelia, bordate alternative metal, esplosioni noise, derive post rock e melodie avant pop, che rendono l’ascolto accessibile.

La band che accompagna la Christmas è straordinariamente funzionale al progetto, soprattutto perché la line up è composta di musicisti con cui l’artista newyorkese ha già collaborato in passato: John LaMacchia (chitarrista dei Candiria), Johannes Persson (padrone indiscusso dei Cult Of Luna), il bassista/produttore Andrew Schneider, il tastierista Tom Tierney e il batterista Chris Enriquez (Spotlights). E poi ci sono lei e la sua straordinaria voce, un’estensione pazzesca e una varietà espressiva da fare invidia a chiunque, capace di percuotere e accarezzare, di sedurre come una ragazzina smorfiosa, di inerpicarsi in acuti estremi, di delirare in preda alla follia, di esplodere in terrificanti urla belluine che raggelano il sangue.

La scaletta è varia, le canzoni hanno uno sviluppo ben poco lineare, il mood è cupo, ombroso, solo a tratti illuminato da qualche accattivante ritornello, e fra le pieghe di questi dieci brani destabilizzanti è possibile cogliere il devasto elettrico di certi Sonic Youth, la tensione nervosa delle più rumorose Sleater Kinney e, ovviamente, rigurgiti post metal mutuati dalla collaborazione con i Cult Of Luna.

L’inziale "Not Enough" è un sabba febbrile, la ritmica è convulsa, le chitarre taglienti come rasoi, la tensione e la disperazione sono palpabili, esacerbate dalla vertiginosa performance della Christmas. "Supernatural" fonde mirabilmente noise e pop (le Sleater Kinney sono dietro l’angolo), "Ash" è puro delirio di distorsioni (la prova vocale della Christmas è da brividi), "Thin Skin" e "Blast" sono due fucilate di noise rock furente e selvaggio, che non fa prigionieri, giustiziando i padiglioni auricolari senza pietà. E se "End Of the World" parte eterea e carezzevole, prima che il cantato gutturale di Johannes Persson spazzi via ogni suggestione, trascinando il brano in un manga infernale in cui la Christmas annaspa in un latrato disperato, "Silver Dollars" cavalca la furia di uno sludge crepuscolare e inquieto.

Ridiculous And Full Of Blood è un disco che si muove per territori selvaggi e minacciosi, un’aggressione sonora continua che rende l’ascolto ostico e respingente. Eppure, in queste dieci canzoni decisamente fuori di testa, si raggrumano alcune delle cose migliori, in termini di pathos, scrittura e originalità, ascoltate durante l’anno. Un album, come spesso capita alla musica migliore, destinato a un esiguo pugno di fortunati ascoltatori che, sono pronto a scommetterci, lo inseriranno nella loro personale top ten del 2024.

Voto: 9

Genere: noise rock, alternative, metal

 


 

Blackswan, martedì 24/09/2024

lunedì 23 settembre 2024

Simple Man - Lynyrd Skynyrd (MCA, 1973)

 


Un canzone fantastica, un testo immediato e diretto, eppure, nella sua semplicità, ricco di riflessioni su quello che davvero conta al mondo. Simple Man è un vademecum esistenziale, sono le istruzioni per l’uso su ciò che un giovane dovrebbe fare per avere una vita appagante e ricca di felicità: cogli l’attimo, cerca l’essenziale, non farti sedurre dalle lusinghe del denaro e della fama.

“La mamma me lo diceva quando ero giovane

Vieni a sederti accanto a me, figlio mio unico

E ascolta attentamente quello che dico

E se lo fai ti aiuterà…”

E ancora:

“Prenditi il tuo tempo, non vivere troppo in fretta

I problemi arriveranno e passeranno

Troverai una donna, sì, e troverai l'amore

E non dimenticare, figliolo, che c'è qualcuno lassù

E sii un uomo semplice” 

Parole chiare, che non possono essere fraintese, parole che indicano la strada da percorrere per essere felici. L’unica ricchezza che conta è la ricchezza interiore, che risiede nelle piccole cose di tutti i giorni e nei grandi sentimenti che nascono dal cuore: 

“Dimentica la tua brama per l'oro del ricco

Tutto ciò di cui hai bisogno è nella tua anima…

Ragazzo, non preoccuparti, troverai te stesso

Segui il tuo cuore e nient'altro…” 

Questa malinconica e toccante ballata fu scritta da Ronnie Van Zant e Gary Rossington che, da poco, avevano perso, rispettivamente la nonna e la mamma. I due una sera, avvicinati dal lutto e dal dolore, si ritrovarono nell'appartamento di Van Zant e, tra una birra e l’altra, iniziarono a raccontarsi aneddoti sulle due donne. Fu quasi inevitabile che la chiacchierata sfociasse nell’idea per una canzone, Così, in circa un’ora, nacque Simple Man: Rossington compose la progressione di accordi del brano e Van Zant scrisse il testo, basandosi sui consigli che le donne avevano dato loro nel corso degli anni.  

Rossington, a proposito della canzone, raccontò in un’intervista la genesi di Simple Man: “Abbiamo semplicemente messo in una canzone quello che nostra mamma e nostra nonna ci avevano detto. Le parole sono le loro, noi le abbiamo semplicemente suonate."

Simple Man, in realtà, incarnava alla perfezione Ronnie Van Zant, che amava gli amici, la famiglia e il divertimento molto più di qualsiasi cosa il denaro potesse comprare. Valori, questi, a cui rimase fedele anche dopo aver trovato la fama, e fino alla sua morte, avvenuta nel noto incidente aereo del 1977, che costò la vita anche al chitarrista degli Skynyrd, Steve Gaines, e a sua sorella, la cantante Cassie Gaines.

La canzone è l’ultima traccia del lato A del disco d’esordio dei Lynyrd Skynyrd, il cui titolo fornisce un’utile guida alla pronuncia del nome della band (Leh-nerd Skin-nerd). Simple Man, però, rischiò di non finire sul disco. Il grande Al Kooper, che era il produttore dell’album, aveva ascoltato il brano e non gli piaceva, e non aveva, quindi, intenzione di inserirlo in scaletta. La band, allora, lo estromise momentaneamente, registrò il brano in autonomia e, solo in seguito, invitò Kooper ad aggiungere il suo contributo all’organo.

Durante la promozione del CD/DVD Live From Freedom Hall del 2010, l’allora frontman della band, Johnny Van Zant, ebbe a dire, a proposito di Simple Man: “E’ una canzone fantastica e penso che chiunque là fuori debba rispettare la propria madre e le parole della propria madre. In quella canzone è la mamma che ti parla e penso che sia probabilmente una delle mie preferite, se non la mia preferita in assoluto da suonare dal vivo. È semplicemente una canzone fantastica, che non manca mai e fa impazzire il pubblico.”    




Blackswan, lunedì 23/09/2024

venerdì 20 settembre 2024

Kawamura Genki - Se I Gatti Scomparissero Dal Mondo (Einaudi, 2024)

 


Il protagonista della nostra storia di lavoro fa il postino, mette in comunicazione tutti gli altri ma accanto a sé non ha nessuno. La sua unica compagnia è un gatto, Cavolo, con cui divide un piccolo appartamento. I giorni passano pigri e tutti uguali, fin quando quello che sembrava un fastidioso mal di testa si trasforma nell'annuncio di una malattia incurabile. Come passare la settimana che gli resta da vivere? Riesce a stento a compilare la lista delle dieci cose da provare prima di morire. Non resta nulla da fare, se non disperarsi: ma ecco che ci mette lo zampino il Diavolo in persona. E come ogni diavolo che si rispetti, anche quello della nostra storia propone un patto. Un giorno di piú di vita in cambio di qualcosa… Con la delicatezza di Sepúlveda e il gusto per il fantastico di Murakami, Kawamura Genki ha scritto una fiaba moderna per ricordarci quali sono le cose davvero importanti.

 

Un consiglio ve lo do subito: approcciatevi a questo meraviglioso romanzo abbandonando ogni filtro razionale. Leggetelo col cuore, abbandonatevi al flusso delle emozioni, e piangete pure tutte le lacrime che volete, perché vi farà un gran bene all’anima.

Se I Gatti Scomparissero Dal Mondo è un libricino breve, esile nella trama, semplice nella scrittura, didascalico, forse, in certe riflessioni, ma denso di umanità. Il contesto è surreale e la metafora è il fil rouge che lega tutta la narrazione. I temi trattati, però, sono concreti, reali: si parla d’amore, di vita e di morte, il mood è poetico, quasi fanciullesco, l’ironia attutisce le bordate emozionali, ma Genki non fa sconti, e il dolore, pagina dopo pagina, arriva, eccome se arriva, strapazzando il cuore del lettore.

Il protagonista del romanzo è un giovane postino, che vive da solo insieme a Cavolo, il gatto che, anni prima, sua mamma aveva accolto in casa. Una vita tranquilla e monotona che viene sconvolta da una ferale notizia: gli viene diagnosticata una malattia incurabile e pochi giorni di vita. Devastato dal dolore e dalla paura, il giovane torna a casa, dove ad aspettarlo c’è il diavolo in persona, con una proposta che potrebbe cambiare il corso degli eventi: per ogni giorno di vita in più, il giovane dovrà decidere cosa far sparire dal mondo, definitivamente e per tutta l’umanità.

Inizia così Se I Gatti Scomparissero Dal Mondo, con un dilemma, la cui soluzione, apparentemente ovvia (la vita non ha prezzo, soprattutto se è la nostra), implica, però, per il protagonista tormentate scelte etiche. Il libro scorre, pagina dopo pagina, leggero e avvincente, una sorta di fiaba moderna, che potrebbe leggere anche un bambino, se non fosse che ogni singola pagina ha un suo segreto da svelare.

Ecco allora che il diavolo non è veramente il diavolo, ma il nostro doppio: è il protagonista del racconto, è ogni singolo lettore che sfoglia il libro, sono i nostri rimpianti, i rimorsi, sono tutte quelle scelte che avremmo dovuto prendere per avere una vita migliore, ma che non abbiamo fatto, perché il nostro bagaglio etico ce l’ha impedito. Il diavolo è il fardello che ci portiamo sulle spalle, è un peso infinito che ci impedisce di godere a pieno dell’esistenza, ma è anche tutto ciò che non siamo e non saremo mai, perché è meglio una vita di piccolo cabotaggio, purchè onesta e vissuta con animo buono, con empatia verso il prossimo, che scegliere il facile compromesso che porta al successo.

Come recita il titolo, uno dei protagonisti del breve romanzo è un gatto, ma non occorre possederne uno per apprezzare fino in fondo ciò che il racconto ha da suggerirci. Cavolo, il felino con cui il protagonista condivide le sue giornate, è in realtà l’ennesima metafora. Il gatto, che a un certo punto della storia inizia a parlare, rappresenta il bambino che c’è in noi, quel fanciullo che vede le cose come sono, senza i filtri emotivi e senza le sovrastrutture lessicali che un adulto si è creato per combattere quella estenuante battaglia che chiamiamo vita. Il gatto parla e si rivolge al suo padrone chiamandolo “signore”, esattamente come fanno i bimbi con gli adulti, gli dice che non ha mai capito nulla dei suoi “miao”, interpretandoli sempre in modo errato (siamo davvero capaci di ascoltare un bambino?), ma gli sta vicino, e lo consola con quell’affetto spontaneo e cristallino, di cui solo gli animali e i cuccioli di uomo sono capaci. Non solo. Il gatto è anche amore, amore per le persone che ci circondano e per quelle passioni (la musica, il cinema, etc) che danno un senso alla nostra vita.

Detto questo, cosa togliere all’umanità per vivere un giorno in più? In ciò consiste, soprattutto, l’originalità del racconto e la straordinaria misura narrativa di Genki, che ragiona sulle scelte del suo protagonista, soppesando i pro e i contro di un mondo senza cellulari, senza orologi o, Dio ce ne scampi, senza film. Forse si potrebbe fare a meno di tutto, ma si può vivere la propria vita senza l’amato gatto?  

Non anticipo nulla su quella che sarà la scelta del giovane protagonista del romanzo, facendovi solo presente che la parte finale del libro affronta con intenso lirismo (la chiosa fa battere ancora più forte il cuore) il tema del perdono e dell’amore verso i genitori. Sentimenti, questi, che rendono la vita degna di essere vissuta, e ci consentono di affrontare la morte fisica, per quanto ineluttabile, come un evento naturale, a cui ci si può preparare con serena rassegnazione. Perché la vera morte, quella che non fa sconti, è il vuoto dell’anima, è l’afasia affettiva, è la mancanza di memoria, di quei ricordi, cioè, dolci o tristissimi, che ci fanno dire: ho vissuto, è stato un bel viaggio, sono in pace col mondo.

 

Blackswa, venerdì 20/09/2024

mercoledì 18 settembre 2024

Aaron Frazer - Into The Blue (Dead Oceans, 2024)

 


Accantonato temporaneamente il lavoro con la casa madre (Durand Jones And The Indications), a tre anni di distanza dal suo debutto solista acclamato dalla critica, il polistrumentista Aaron Frazer torna con un nuovo album dal titolo Into The Blue.

Se la scena soul moderna pullula di musicisti che “rubano” a mani basse dalla ricca storia del genere, Frazer ha il merito, invece, di fondere i tropi del soul con una visione più moderna ed eterogenea, che lo rende molto meno classico e, per certi versi, più fascinoso. Intendiamoci, il musicista americano non rinnega il passato, abbracciando momenti di puro soul, tratteggiando armonie vertiginose e melodie d’amore spacca cuore, ma attraverso il suo acrobatico falsetto, trasforma il considerevole bagaglio di influenze in qualcosa di meno ovvio e più sperimentale, prendendo le distanze sia dal suo precedente lavoro che dal retro soul della band di provenienza.

In tal senso, il disco suona eterogeneo ed esplora nuovi territori, ma è evidente che anche nei suoi momenti maggiormente sperimentali, il cuore di Frazer resta ostinatamente radicato nel soul. Da un lato, dunque, sfoggia con orgoglio le sue influenze classiche, dall’altro, cerca di superare i limiti di genere, per vedere quello che lo stesso potrebbe diventare attraverso un audace modernità. Frazer, in buona sostanza, è riuscito a trovare una intrigante via di mezzo tra il rendere omaggio alla storia e il tentativo di alterarla completamente.

Per raggiungere questo obiettivo, ha arruolato, come co-produttore dell’album, Alex Goose, noto per i suoi campionamenti e le collaborazioni con artisti hip-hop come Freddie Gibbs, Madlib e Brockhampton. Il risultato è un album che miscela con coraggio soul, psichedelia, spaghetti western, disco, gospel e hip-hop, restando in bilico sul confine che divide passato e presente, con l’intento però di poggiare il piede nell’area più moderna del genere. Così, diverse canzoni includono campionamenti e ritmiche influenzate dall'hip-hop, e sono punteggiate da sottili tocchi elettronici.

Ne deriva una scaletta è un po’ meno organica rispetto al suo lavoro precedente, ma i frequenti azzardi aprono a una gamma più ampia di suoni, che variano da traccia a traccia. Ciò potrebbe far storcere il naso ai fan della prima, ma è senz’altro ammirevole il tentativo di Frazer di evitare la ripetizione di clichè, che a lungo andare diventerebbero indigesti.

L’album si apre con l’orecchiabile mid tempo di "Thinking Of You", perfetta fotografia del nuovo corso, e si sviluppa attraverso momenti ad alto tasso energetico, come "Payback", che cita gli Outkast, eleganti tropicalismi ("Dime", con la cantante cilena Cancamusa), evocative ballate western (la title track), trascinanti groove funky ("Easy To Love") e brani emotivamente intensi, come la struggente e sognante "The Fool", avvolta in vapori jazzy.

Non tutte le canzoni in scaletta sono memorabili, e si potrebbe affermare, almeno ai primi ascolti, che Into The Blue suoni un poco disunito e incoerente. La sensazione, però, viene lentamente meno quando si coglie quella che è la visione d’insieme che dà vita al disco, e cioè la volontà di scrivere brani che sembrino molto più personali di quelli pubblicati finora. In tal senso, Into The Blue esprime tutta l’ambizione di Frazer nel voler ridefinire il panorama soul moderno: un percorso lungo e accidentato, di cui questo nuovo lavoro è un abbrivio riuscito, ma, ovviamente, non definitivo.

Voto: 7

Genere: Soul, R&B, Funky

 


 


Blackswan, mercoledì 18/09/2024

martedì 17 settembre 2024

Alicia Keys - Perfect Way To Die (RCA, 2020)

 


Una ballata per pianoforte, emozionata e struggente, scritta da Alicia Keys per parlare del dolore di una madre che ha perso il proprio figlio, massacrato a colpi di pistola. Una morte improvvisa, insensata e illogica, di quelle a cui non è possibile dare una risposta, che non siano lacrime e un profondo tormento.

 

Una semplice passeggiata fino al negozio all'angolo

La mamma non avrebbe mai pensato che avrebbe ricevuto una chiamata dal coroner

Ha detto che suo figlio è stato ucciso, ucciso a colpi di arma da fuoco

Puoi venire ora?

 

Durante il ritornello, Alicia Keys si immedesima in questa mamma affranta, che non sa darsi pace, e con pena infinita si sofferma per dare il suo ultimo saluto al figlio trucidato:

 

Perché questa potrebbe essere la nostra ultima volta

E sai che sono pessima nel dire addio

Penserò a tutto quello che avresti potuto fare

Almeno rimarrai per sempre giovane

Immagino che tu abbia scelto il modo perfetto per morire

 

E’ molto probabile che la Keys, attraverso queste liriche strazianti, stia ricordando la morte di Trayvon Martin. Martin, un afroamericano di 17 anni di Miami Gardens, Florida, venne ucciso a colpi di arma da fuoco a Sanford, sempre in Florida, da George Zimmerman, un ispanico di 28 anni. La sera del 26 febbraio, Martin stava tornando a casa della fidanzata da un vicino minimarket, quando venne fermato da Zimmerman, un vigilantes della zona, che lo riteneva un sospetto. Tra i due si accese ben presto un alterco, degenerato poi in colluttazione e quindi nell’assassino dell’adolescente colpito al petto da un colpo di pistola. Durante lo scontro, anche Zimmerman rimase leggermente ferito, circostanza che permise all’uomo di invocare la legittima difesa. La polizia non lo incriminò, sostenendo che non esistevano prove a suo carico, in assenza delle quali la legge della Florida impediva di arrestarlo o accusarlo. Dopo che i media nazionali si interessarono massicciamente all’incidente, Zimmerman fu finalmente accusato e processato, ma una giuria lo ha assolto dall'accusa di omicidio di secondo grado, nel luglio 2013.

La Keys, successivamente, ha spiegato che la canzone si riferiva anche ad altre due morti insensate di afroamericani avvenute per mano della polizia: quella del diciottenne Mike Brown, ucciso a colpi di arma da fuoco dall'agente di polizia bianco, Darren Wilson, nella città di Ferguson, in Missouri, nel 2014, e quella di Sandra Bland, che venne trovata impiccata in una cella del Texas, il 13 luglio 2015, pochi giorni dopo essere stata fermata per una lieve violazione del codice stradale (aveva svoltato senza inserire la freccia).

Quando la canzone fu pubblicata, la Keys ci tenne a precisare su Instagram che: "naturalmente, NON esiste un modo perfetto per morire. Quella frase non ha nemmeno senso. Proprio come non ha senso che ci siano così tante vite innocenti che non avrebbero dovuto essere portate via a causa della cultura distruttiva della violenza della polizia."

Perfect Way To Die, che fa parte del settimo album della songwriter statunitense, intitolato semplicemente Alicia, fu scritta nel 2019, ma venne pubblicata, successivamente, il 19 giugno del 2020 (qualche mese prima dell’album), data che ricorda il Juneteenth, una celebrazione afroamericana risalente al 19 giugno 1865, quando in Texas gli schiavi furono affrancati, subito dopo la fine della guerra civile.

E’ rimasta negli occhi di molti appassionati, poi, l’interpretazione del brano da parte di Alicia Keys, il 28 giugno 2020, ai BET Awards, quando la musicista ha eseguito Perfect Way To Die al pianoforte, nel bel mezzo di una strada vuota. Alla fine dell’esibizione, la Keys si è inginocchiata in segno di protesta mentre la telecamera si allontanava per rivelare i nomi, scritti con il gesso sul marciapiede, di uomini e donne neri uccisi dalla polizia.

 


 

 

Blackswan, martedì 17/09/2024

lunedì 16 settembre 2024

The Blues Pills - Birthday (BMG, 2024)

 


Che gli svedesi Blues Pills avessero talento da vendere era chiaro fin dai due primi album, l’omonimo esordio e Lady In Gold, pubblicati rispettivamente nel 2014 e nel 2016. Poi, Holy Moly!, uscito nel 2020, in piena pandemia, aveva confermato l’ottima impressione suscitata dai suoi predecessori, e anche se era passato un po’ in sordina, a causa della drammaticità di quei giorni oscuri, l’album era un vero gioiello, il vertice di una breve, ma entusiasmante carriera.

Il nuovo Birthday è anche meglio, è un disco dalla vitalità sfrenata, intenso e divertente, ricco di groove e di ottime idee che ne fanno uno dei migliori album pop rock dell’anno. È stato detto che questo lavoro potrebbe essere interpretato come un nuovo inizio per una band che non pubblica niente da quattro anni, e tutto sommato non è una riflessione sbagliata. Dopotutto, i Blues Pills erano conosciuti soprattutto per un mix retrò di rock-blues e psichedelia, perfetto per la loro precedente casa discografica, la Nuclear Blast, che si trovava a veicolare quella musica verso un pubblico amante del metal e dell’hard rock.

Birthday, dunque, si discosta dai lavori precedenti, anche se non ci sono vere e proprie rivoluzioni. Semmai, questo disco sembra più l’evoluzione naturale di un suono, plasmato da una consapevole maturità: le influenze derivanti dagli anni ’70 ci sono ancora, ma mancano la patina oscura e gli accenti fortemente vintage, il suono è più mainstream e solare, e c’è una maggior attenzione alla costruzione delle canzoni e a irresistibili hook dal sapore radiofonico. Non è un caso che il loro nuovo produttore, Freddy Alexander, abbia dato una svolta decisiva al corso della band, accentuandone l’energia, lucidandone i ritornelli e aggiornandone il suono.  

Grandi canzoni, quindi, ma anche una band più in palla che mai, guidata dalla vibrante voce di Erin Larsson, e spinta dalla propulsione della sezione ritmica composta del bassista André Kvarnström e del batterista Kristoffer Schander. Da segnalare, ovviamente, anche lo straordinario lavoro alla sei corde di Zack Anderson, che evita lunghi e prepotenti assoli in favore di un tocco più misurato e colorato.

Una scaletta, dicevamo, composta da undici canzoni, tutte sotto i quattro minuti di durata, che non ha un momento di cedimento, a partire dalla title track, un grintosa tirata rock dal ritornello uncinante, una di quelle canzoni da ascoltare a ripetizione con rinnovato piacere.

Pura adrenalina è anche la successiva "Don't You Love It," trainata da una linea di basso spacca sassi e dal consueto hook melodico irresistibile, mentre "Top Of The Sky" è una lectio magistralis su come costruire una ballata emotivamente irresistibile a ritmo di valzer. Un altro aspetto importante dell’album è la versatilità della band e la volontà di esplorare diverse direzioni musicali. Ecco allora spuntare un mid tempo anello di congiunzione fra pop e rock quale "Like A Drug", la cui costruzione lenta ribolle di passione, la frivolezza divertita di "Piggyback Ride" (con un assolo al fulmicotone di Zack Anderson), la furente "Holding Me Back", scattante come una molla, che, poi, derapa nel blues in crescendo di "Somebody Better", in cui Erin Larsson dà vita a una performance stellare.

C’è ancora spazio per un blues cadenzato e cupo, trafitto da coltellate slide, ("Shadows"), per i grumi di fosca malinconia che punteggiano "I Don't Wanna Get Back On That Horse Again" (altro assolo spettacolare di Anderson) e gli echi sixties di "What Has This Life Done To You", ballata che chiude la scaletta con volute di romanticismo agro dolce.

C’è una raffinata arte musicale in Birthday, in cui nessuna nota, nessuna parola, nessun assolo risulta sprecato. I Blues Pills hanno davvero realizzato il loro disco migliore, e su questo non ci piove, ma sono anche riusciti a mantenere intatta la propria riconoscibilità, pur imboccando strade diverse, immagino nel tentativo di raggiungere un pubblico più ampio. Non so se alla fine riusciranno nell’intento, ma quel che è certo è che Birthday è un album che si fa ascoltare a ripetizione, grazie a canzoni scintillanti, alcune delle quali, vi assicuro, resteranno in heavy rotation nel vostro stereo per parecchio tempo.

Voto: 8

Genere: Rock, Pop 




Blackswan, lunedì 16/09/2024

giovedì 12 settembre 2024

Life In The Woods - Looking For Gold (Universal Music Italia, 2024)

 


E’ il 2019, quando il power trio romano Life In The Woods (composto da il chitarrista e cantante Logan Ross, il bassista Frank Lucchetti e il batterista Tomasch Tanzilli) pubblica Blue, un EP contenente cinque brani, prodotti da Gianni Maroccolo, un nome che suggerisce immediatamente un alto livello di qualità. Poi, come successo a molti artisti, l’inevitabile battuta d’arresto dovuta alla pandemia e al lockdown, che ha rallentato il progetto, senza tuttavia cancellarlo.

Cinque anni dopo, esce finalmente questo Looking For Gold, un album di debutto che ripaga ampiamente del tempo perduto e che entra di diritto nel novero dei migliori dischi rock autoctoni del 2024.

Racchiuso nell’elegante copertina disegnata da Mark Kostabi, quotatissimo pittore californiano, che aveva già messo mano all’artwork di Use Your Illusion dei Guns, l’esordio dei Life In The Woods rende omaggio al classic rock di derivazione settantiana, l’approccio è energico e vibrante, la produzione (c’è anche lo zampino di Maurizio Orlando Becker, editor presso Classic Rock Italia e Ciao 2001) recupera la genuinità di quel suono antico che, grazie alla passione dei tre ragazzi romani, torna a scintillare come in quei gloriosi anni.

Il disco è zeppo di citazioni e rimandi a grandi band del passato (Led Zeppelin, Black Sabbath, Pink Floyd, etc.), ma inserite con gusto in canzoni che si distinguono per qualità di scrittura e il cui andamento, pur in un contesto riconoscibilissimo, è tutt’altro che prevedibile.

L’opener "Caravan" è un potente hard rock blues che deflagra dalle casse dello stereo, travolgendo con bordate elettriche che fanno venire in mente i migliori Rival Sons, i quattro minuti abbondanti di "Mountain" volano alle stesse vertiginose altezze del leggendario “dirigibile”, "Fistful Of Stones" incorpora elementi sulfurei che richiamano alla memoria luciferine atmosfere sabbathiane, mentre la scattante "Mad Driver" è attraversata da un’adrenalinica urgenza punk.

Non mancano momenti più riflessivi che vestono gli abiti della ballata, come nella malinconica title track (con il contributo del soprano Olivia Calò), che ammicca alla psichedelia dei Pink Floyd, in "Without A Name" dalle antiche fragranze folk o nella trasognata "Hey Blue", in cui sono riconoscibili, ancora una volta, come fonte d’ispirazione, i Led Zeppelin.

Chiude la scaletta "Manifesto", un magma sonoro di cinque minuti che dimostra l’abilità della band nel far convivere melodia e rumore, bordate hard rock e suggestive derive prog e psichedeliche.

Looking For Gold è un grande disco di rock, in cui il citazionismo, che altrove potrebbe rappresentare un limite, qui è semmai il carburante nobile per un filotto di canzoni esplosive e intense, solide nell’esecuzione e brillanti nella scrittura. Un progetto italianissimo, che non ha nulla da invidiare a più note realtà internazionali, a cui spesso, lo dico con una punta di orgoglio, manca il talento che, invece, abbonda nella musica dei Life In The Woods.

Voto: 8

Genere: Classic Rock

 


 

 

Blackswan, giovedì 12/09/2024

martedì 10 settembre 2024

Garth Brooks - We Shall Be Free (Liberty, 1992)

 


Brano che apre il suo quarto album in studio, The Chase, We Shall Be Free fu scritta da Garth Brooks, insieme alla cantautrice originaria di Nashville, Stephanie Davis, colpito profondamente dai disordini avvenuti a Los Angeles nel 1992. In quel momento, il cantante country era in città per gli ACM Awards e si trovò ad assistere in televisione agli scontri tra polizia e cittadini, che portarono al selvaggio pestaggio di Rodney King, un tassista afroamericano, avvenuto per mano della polizia.

La canzone parla di un uomo comune che immagina di vivere in un mondo pacifico, dove gli esseri umani sono liberi di amarsi l'un l'altro senza barriere di classe, razza, religione o orientamento sessuale. Un testo splendido, ispirato alla pace e all’amore, alla visione di un mondo senza più barriere e guerre, in cui tutti vivono in armonia con la natura.

 

Quando l'ultima cosa che notiamo è il colore della pelle

E la prima cosa che cerchiamo è la bellezza interiore

Quando i cieli e gli oceani saranno di nuovo puliti

Allora saremo liberi

Saremo liberi, saremo liberi

Stai dritto e cammina fiero

Perché saremo liberi

Quando siamo liberi di amare chiunque scegliamo

Quando questo mondo sarà abbastanza grande per tutti i diversi punti di vista

 

Un messaggio che dovrebbe aprire il cuore alla gioia di vivere e alla tolleranza. E invece… Invece, il testo scatenò un vero e proprio putiferio nei circoli ultraconservatori di Nashville e, in genere, fra molti appassionati di country, che si sentirono offesi dall’esplicita difesa dei diritti dei gay contenuta nel verso:

 

Perché saremo liberi

Quando siamo liberi di amare chiunque scegliamo

 

Di conseguenza, molte stazioni radio si rifiutarono di trasmetterlo, e Brooks, per la prima volta, perse la Top 10 della classifica nazionale (raggiungendo solo la piazza numero 12).

Brooks ci rimase malissimo, non certo per il minor successo commerciale, ma perché credeva davvero nel suo messaggio di pace universale. D’altra parte, il cantante era diventato papà per la prima volta di sua figlia Taylor, e il suo nuovo ruolo di genitore gli aveva dato la spinta per iniziare a cantare del mondo in cui avrebbe voluto veder cresce i suoi figli.

L’avversione nei confronti di We Shall Be Free lo colpì così profondamente che tornò spesso sull’argomento. In un intervista alla rivista Rolling Stone, rilasciata nel 1993, disse: “Mi sento male ogni volta che qualcuno tira fuori l'aspetto cristiano contro 'We Shall Be Free. Ed essere chiamati Bruto e Giuda, ogni genere di cose, fa davvero male. Credo che Dio esista. Credo nella Bibbia. Ma non riesco a capire che amare qualcuno sia un peccato."

E ancora, per l’uscita della sua seconda compilation, The Hits, Brooks, a proposito della canzone, disse: "We Shall Be Free è chiaramente la canzone più controversa che abbia mai scritto. Una canzone d'amore, una canzone di tolleranza da parte di qualcuno che afferma di non essere un profeta, ma un uomo normale. Non avrei mai pensato che ci sarebbero stati problemi con questa canzone. A volte le strade che prendiamo non si rivelano essere le strade che avevamo immaginato. Tutto quello che posso dire su We Shall Be Free è questo: sosterrò ogni verso di questa canzone finché vivrò.”

In realtà, non era la prima volta che Brooks dovette affrontare una reazione negativa per le sue opinioni socialmente consapevoli. Due anni prima, The Nashville Network aveva bandito il suo video musicale per The Thunder Rolls, una canzone che condannava la violenza sulle donne e in cui il cantante vestiva i panni di un marito violento e donnaiolo, che viene ucciso dalla moglie maltrattata.

Il video musicale, che ha vinto il premio Video dell'anno agli Academy of Country Music Awards del 1993, fu diretto da Timothy Miller, che alternò a scene di povertà e disordini, le foto di alcune celebrità, quali Reba McEntire, Michael W. Smith, Amy Grant, Julio Iglesias, Paula Abdul e Michael Bolton, che si resero disponibili a condividere il messaggio  di fratellanza lanciato da Brooks.

 


 

 

Blackswan, martedì 10/09/2024

lunedì 9 settembre 2024

Kissin' Dynamite - Back With A Bang (Napalm Records, 2024)


 

 

Non è che ogni disco che ascoltiamo debba necessariamente avere dei sottesi intellettuali, tentare la strada della sperimentazione o usare forme espressive astratte ed elusive. Ogni tanto un po’ di sano e spensierato cazzeggio fa benissimo. Allora, ben vengano i teutonici Kissin’ Dynamite con il loro ottavo album in studio, intitolato Back With a Bang, una vera manna dal cielo per chi pensa che la musica sia anche (o soprattutto) divertimento.

Anacronistici quel tanto (e tanto lo è) che basta e insensibili alle mode, la compagine tedesca continua a pigiare il piede sull’acceleratore di un hard rock melodico pescato a piene mani dagli anni ’80, attraverso dodici canzoni che sanno di pogo e di birra, di festa senza freni, di nottate tirate in lungo fino alla chiusura dell’ultimo locale.

Come da copione, Back with a Bang vede la band girare attorno all’istrionico cantante Hannes Braun, e offrire una valanga di ritmi contagiosi e melodie orecchiabili, perfette per ricaricare le batterie durante queste giornate pigre e insopportabilmente calde.

Dodici canzoni, dicevamo, tutte dense di melodia e irresistibilmente groovy, una musica ad alto numero di ottani, che, come si evince dall’uno due iniziale (la title track e "My Monster") corrono veloci, dritte come fusi, per sbocciare, poi, in ritornelli che si mandano a memoria in un batter di ciglia.

Sono un po’ tamarri (forse un po’ tanto) e non puoi pretendere a livello testuale profondità e lirismo; ma, fatta questa dovuta premessa, i Kissin’ Dynamite conoscono a menadito le regole per scrivere canzoni divertenti, che lasciano poco spazio all’immaginazione, ma centrano sempre il bersaglio. Suonano bene e conoscono il mestiere, così da forgiare nell’elettricità irresistibili inni da stadio come "Raise Your Glass", un tuffo nostalgico negli anni ’80 di Bon Jovi e un ritornello stellare, insufflare con le tastiere vapore melodrammatico nella tirata a la Scorpions di "Queen Of The Night", o mostrare bicipiti da palestra e testosterone con "The Devil Is A Woman", portando sempre a casa il miglior risultato possibile.

Maestri di ritornello e melodia, i cinque ragazzi tedeschi hanno un tocco magico che risolleva il morale, spingendo a cantare a squarciagola con l’ottimismo di "The Best Is Yet To Come", o a saltare come matti in preda un’incontenibile euforia con il contagioso groove di "Learn To Fly".

Attivi dal 2006, i Kissin’ Dynamite hanno imparato a giocare con il loro sound e a offrire una grande varietà di atmosfere, pur rimanendo saldamente ancorati alla matrice dell’hard rock ispirato agli anni '80, e questo album è un ottimo esempio di quanto espansivo sia il loro suono e quante trame e sfumature può facilmente accogliere.

Di conseguenza, mentre l'energia pura di "When the Lights Go Out" mantiene viva la festa con grandi linee di basso che pompano sotto le chitarre melodiche, tamburi fragorosi e ritornelli sornioni, l’utilizzo della talk box di "More and More" omaggia "It's My Life" del già citato Bon Jovi, e la conclusiva ballata folk "Not A Wise Man", porta l’ascoltatore davanti a un ipotetico falò con la sua tanto semplice quanto efficace melodia.  

Back With a Bang, titolo azzeccatissimo, è un album energico e dinamico, ottimo, come dicevamo, per far baldoria fino a notte fonda, far cantare uno stadio o accompagnare un viaggio in macchina, stereo a manetta e finestrini, ovviamente, abbassati. Tenetevi a debita distanza, se quello che cercate è una musica di spessore cerebrale. Se invece avete nostalgia di certe sonorità anni ’80 (Aerosmith, Bon Jovi, Skid Row, etc.), con una scaletta così farete un pieno di irresistibile gioia. Assicurato.

Voto: 7,5

Genere: Hard Rock

 


 

 Blackswan, lunedì 09/09/2024

 

giovedì 5 settembre 2024

Seth - La France Des Maudits (Seasons Of Mist, 2024)

 


Chapeau! Dopo un esordio come Le Morsure De Christ, che fece gridare al miracolo più di una testata giornalistica e innamorare stuoli di fan del genere, i transalpini Seth tornano con un sophomore che, se non gode più dell’effetto sorpresa, si mantiene, però. a livelli altissimi.

Fin dall’inizio c’è sempre stato un elemento di ribellione nel black metal, dal momento che, come la maggior parte dei sottogeneri, cercava un modo per invertire le tendenze del tempo in favore di qualcosa di molto più crudo ed eccitante. Un tempo musica di nicchia, questa frangia del metal estremo ha continuato a crescere massicciamente, sia in portata che in popolarità, pur mantenendo quegli elementi dissacranti e di sfida, grazie ai quali le norme sociali e certe convenzioni musicali vengono derise in virtù di un desiderio profondo di rottura.

La France des Maudits, nuova fatica della compagine francese, si avvicina a questo concetto ma da una prospettiva leggermente diversa, rifuggendo dagli stanchi cliché dei macabri rituali di magia nera o di aggressione belluina all’iconografia del cristianesimo, per concentrarsi sul cupo e sanguinoso periodo storico segnato dalla Rivoluzione Francese.

Un approccio plausibile, visto che la band è originaria di Bordeaux, città che vide una quantità particolarmente brutale di spargimenti di sangue durante il Regno del Terrore alla fine del 1700. La Rivoluzione, tuttavia, non è necessariamente il fulcro principale dell’album, è semmai uno sfondo drammatico per spingere l’ascoltatore in territori oscuri e inquietanti, per sviluppare un mood catacombale e presbiteriano, per rileggere con originalità le regole di un genere, in parte rispettate, attraverso un taglio atmosferico e sinfonico, che fonde mirabilmente Ossian e Grand Guignol.

La produzione è nitida, pulita e ad alta fedeltà, ogni dettaglio sonoro ha ampio spazio per respirare e ogni strumento è in evidenza senza soffocare gli altri. La virulenza del metal è attenuata da un limpido impianto melodico, il che crea un perfetto equilibrio che consente l’ascolto anche a coloro che non sono fan dei suoni più estremi. Senza perdere solo un briciolo dell’inquietante espressività del genere, i Seth hanno invece scelto di bilanciare quell'aggressività con un'atmosfera quasi malinconica e triste, e quell'approccio meno rumoroso funziona maledettamente bene.

Ci sono, e non potrebbe essere altrimenti, anche una serie di momenti veloci e furiosi, blast beat e pura violenza sonora, ma sono distanziati e usati con intelligenza, in modo da creare vertiginosi contrasti e un senso di immersione in quei giorni sanguinosi e drammatici, giorni di delazioni, condanne sommarie, di teste che rotolano, di una violenza cieca che condurrà la Francia e il mondo intero verso una nuova era.  L’omogeneità del suono e della narrazione crea un magma inscindibile, in cui ogni singola canzone vive come parte di un tutto complesso e strutturato, in cui la fluidità d’ascolto è il fiore all’occhiello di un disco epico, teatrale, magnetico, decisamente coinvolgente.

Voto: 8

Genere: Black Metal

 


 


Blackswan, giovedì 05/09/2024

mercoledì 4 settembre 2024

Bernard Butler - Good Grief (355 Recordings, 2024)

 


Quello di Bernard Butler è un nome che evoca subito il passato, anni di grande musica e di una band, gli Suede, che il chitarrista ha accompagnato nei giorni di massimo splendore (i primi due album, Suede del 1993 e l’iconico Dog Man Star del 1994), prima di andarsene sbattendo la porta. Sembra ieri, e invece, sono passati trent’anni, praticamente il tempo di una giovane vita. Mollata la casa madre, Butler aveva iniziato una brillante carriera solista, con due ottimi dischi, People Move On (1998) e Friends And Lovers (1999), che fondevano rock anni '70 e soul, appena venati di pop chitarristico anni '80.

Strano ma vero, sono passati venticinque anni tra Friends And Lovers e questo terzo album solista, intitolato Good Grief. Si tratta di uno iato corposo, anche se nessuno potrebbe accusare Butler di aver perso tempo, data la serie di produzioni che hanno esaltato tutti coloro che lo hanno ingaggiato (si pensi a Duffy per esempio), e le collaborazioni con Catherine Anne Davies, Jessie Buckley e Brett Anderson (amico/nemico degli Suede), solo per citarne alcune.

Non sorprenda, dunque, che il tempo trascorso e tutta l’esperienza accumulata si rifletta nelle canzoni di Good Grief, il disco di un uomo che ha superato la cinquantina, che ha vissuto un sogno da rockstar, che forse lo stava consumando, e che ha dovuto cercare il bandolo della matassa della propria esistenza, trovando gioie, ma anche rimpianti, quel senso di declino, che, in qualche modo, la musica ha attenuato, senza cancellare, però, completamente.

Good Grief riflette su tutto ciò, intriso della malinconia che si prova osservando il tempo che passa inesorabilmente, lo scorrere dei giorni che incide su amori e rapporti interpersonali e professionali. Butler, però, controlla la materia, mantiene le distanze e cammina in punta di piedi, cerca il tono colloquiale e famigliare, rischiando forse il clichè, ma guadagnandone in sincerità.

La voce di Butler è molto più ferma, più controllata e capace di maggiore espressività e sottigliezza, e dà vita a un perfetto equilibrio fra carezzevole velluto, confortevole robustezza e un vago tremore, che ha più a che fare con l’anima che con il timbro.

Che questo disco non sia realizzato da un ventenne, ma da un uomo navigato, che ha maturato un mondo interiore e ha cercato, e cerca di comprenderlo, è del tutto evidente in queste nove canzoni di musica pacata, ma rotonda e piena, arrangiata con cura artigianale, levigata dalla sapienza di chi ha passato una vita a metter mano ai dischi altrui.

"Camber Sands" è una ballata ricca, che riempie lentamente i vuoti di una melodia straordinaria, ti fa pensare a Bowie e a certe cose dei Waterboys di Mike Scott, al netto di ogni suggestione folk. Procede per accumulo anche la meraviglia di "Deep Emotions", una canzone che accarezza con il velluto della malinconia e ricorda alcuni dei momenti più struggenti degli Apartments, cosa che avviene anche nella sospensione acustica di "Preaching To The Choir", mentre "Living The Dream" si gonfia di archi e di un’energia vivace, ampia, aperta, pronta a spiccare il volo.

Classe infinita e eleganza da crooner in smoking, Butler non sbaglia un colpo, sia quando cerca in una chitarra distorta il contrappunto al respiro armonioso degli archi ("London Snow"), sia quando fluttua a mezz’aria nell’estasi melodica di "Clean".

"The Wind" chiude, con un tocco di intimismo agrodolce, un disco malinconico, ma non rassegnato, elegante, ma non appariscente, intenso ma senza essere melodrammatico. Un ritorno che lascia il segno.

Voto: 8

Genere: Pop 




Blackswan, mercoledì 04/09/2024

lunedì 2 settembre 2024

Kate Nash - 9 Sad Symphonies (Kill Rock Stars, 2024)

 


Sembra passato un secolo da quando Kate Nash scalava le classifiche britanniche con il suo album d’esordio, Made Of Bricks (2007), e quel singolo, "Foundations", che la fece finire nei taccuini di tutti coloro che amano un pop di classe e alternativo. Di seguito, la carriera della Nash è proceduta spedita su due binari paralleli, quello della musica, con altri tre album di pregevole fattura, e quello cinematografico, che l’ha vista impegnata sul set di film e serie tv.

La musicista londinese è sopravvissuta non solo alla fine del contratto con la sua etichetta discografica storica (Fiction), ma anche alla cancellazione di Glow, l’amatissima serie Netflix, in cui recitava nei panni di una lottatrice, che imparava "a diventare grande e a divertirsi occupando spazio". Le note vicende pandemiche, poi, hanno fatto il resto, tenendola lontano dal circuito musicale per ben sei anni, fino alla pubblicazione di quest’ultimo 9 Sad Symphonies, ispirato e concepito durante i giorni duri della pandemia e del lockdown.

Eppure, nonostante il titolo del disco sembrerebbe suggerire un mood sofferto, proprio a cagione dei temi trattati, questo nuovo lavoro è semmai ispirato a un’ammiccante e romantica iconografia hollywoodiana (come richiamato dalla copertina) e le canzoni in scaletta, che sono dieci e non nove, abbracciano un mood per lo più gioioso, traboccante di speranza e positivismo, in cui strumenti classici e vellutati arrangiamenti d’archi trovano il contrappunto in alcuni elementi elettronici, che danno un tocco disincantato al tutto.

L’iniziale e bellissima "Millions of Heartbeats" introduce l’ascoltatore nel mondo di Kate Nash con una linea di pianoforte accattivante e gioiosa che si innesta in una ambientazione elettroclassica di più ampio respiro. Un brano che sonda l’animo umano durante la solitudine e lo spaesamento dovuti alla pandemia (“Everything hurts, it hyrts so much, i eat my dinner in the toilets at lunch”), ma che invece di abbandonarsi alla più tetra depressione si slancia in un afflato di speranza, la stessa a cui si sono aggrappati milioni di battiti cardiaci durante quel periodo oscuro (“Millions of light-years is millions and millions of heartbeats, And I think it's worth holding on for, well don't you oh? I guess we have to try”).

Nello stesso modo, la baldanza emotiva di "Misery" risucchia in un vortice orecchiabilissimo di archi ed elettronica, mentre la Nash invita alla solidarietà e alla cura degli altri con ingenua trasparenza (“Running like we never run be, Running like we never run before, I will never leave you behind… Even if the bridge was falling”), così come nella languida "Wasteman", quando gli archi si librano nel ritmo di una seducente danza, la songwriter gioisce per la fine di un amore tossico e la ritrovata libertà.

A volte le melodie sembrano scarne, sottili, sfuggenti, eppure tutto suona coinvolgente, basta il tocco di un violino malinconico nel folk divertito di "Abandoned", l’incedere pizzicato della stralunata ed emozionante "Space Odissey 2001", o lo scanzonato mood di una canzoncina dal vago retrogusto country come la conclusiva "Vampyre", un conclusivo invito a vivere liberi da condizionamenti e abbandonarsi al puro piacere della vita (“Sometimes you gotta jump and run, Let the demons from your past explode into the sun”).

Troppo spesso sottovalutata, Kate Nash si rivela per l’ennesima volta una sognwriter ispirata, capace di dare vita a un pop fantasioso e sofisticato, eppure leggiadro, divertente, portatore sano di piacevolezza e sorrisi. Nessuna alchimia particolare per giungere al cuore dell’ascoltatore: melodie solari, semplici e dirette, e testi che fanno riflettere con un tocco di disincantata ironia. Cos’altro serve a un buon disco?

Voto: 8

Genere: pop 




Blackswan, lunedì 02/09/2024