Francese di Poitiers, nata nel 1995 con il nome di Sowat, poi trasformato nell’attuale Klone nel 2003, la band transalpina veste abiti mutevoli, che l’hanno portata, disco dopo disco (siamo all’ottavo in studio) ad affinare il proprio suono. I Klone, infatti, hanno pubblicato il loro album di debutto, Duplicate, poco più di 20 anni fa, e di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Quello, infatti, era un album dai riff vorticosi e dalle ritmiche complesse, che aveva molto in comune con la musica dei conterranei Goijra, al netto di qualche momento decisamente più melodico.
E’ da questi spunti melodici, poi, che ha preso forma la lunga trasformazione della band, che da Le Grand Voyage
del 2019, ha mitigato frenesia e aggressione, dando più importanza alla
dimensione progressive e rock della proposta, che è diventata
preponderante nel penultimo, bellissimo, Meanwhile, e definitiva in questo nuovo The Unseen.
Il passaggio dalla Kscope, etichetta votata al prog, alla Pelagic Records non ha sviato la band dal percorso intrapreso, e questo nuovo disco ha relegato furia e potenza a momenti residuali, ponendo ulteriormente l’accento su eleganza formale e arrangiamenti sofisticati, e accorciando il minutaggio della scaletta, declinata, peraltro con la solita clamorosa perizia tecnica.
I sei, insomma, non hanno mai suonato sicuri ed eleganti come in questo album, aperto dalla magnifica Interlaced, un brano dal retrogusto alternative anni ’90, rotondo, quasi solare, se non fosse per quel sentore malinconico che si fa preponderante nella seconda parte di canzone, attraversata da svolazzi di sax che innalzano la tensione.
L’approccio
sonoro della band alterna momenti intensi ad altri più intimi, e la
voce del frontman Yann Ligner si adatta perfettamente a una musica che
spesso, come nella title track, procede quasi istintiva, morbida e
carezzevole, fino al momento catartico in cui prende vita un crescendo
distorto, disturbato da riff post hard core e avvolto da inquietanti
tastiere. Un brano, l’unico, che evoca vagamente il passato della band,
soprattutto nel finale quando il suono si fa arcigno, seppur declinato
con la consueta eleganza espressiva.
Come dicevamo, rispetto al predecessore, The Unseen è un disco più raccolto, dura poco più di quaranta minuti e le canzoni sono solo sette. Non serve di più per esprimere con consapevolezza un suono che ha trovato la sua definitiva dimensione, attraverso canzoni che funzionano tutte, sia nel rock sinistro di "Magnetic", sia nella tensione latente di "After The Sun", che si aggira per territori post rock, sia nella lunga, ondivaga e conclusiva "Spring", in cui le atmosferiche placide e il drumming leggermente in controtempo trovano accelerazione in un climax sferragliante in crescendo, che, poi, si dissolve nel liquido amniotico di una coda strumentale avvolta in un aura psichedelica.
The Unseen sancisce, dunque, la definitiva evoluzione della band francese, che ha quasi del tutto cancellato la parola metal dal proprio lessico, in favore di composizioni prog rock moderne, intelligenti, ricche di spontaneità e sentimento, in perfetto equilibrio fra adulta espressività e suggestiva immaginazione. Manca il singolo che può competere sul mercato, ma in fin dei conti, poco importa. Questo disco è bellissimo anche così.
Voto: 8
Genere: Prog Rock
Blackswan, lunedì 20/01/2025
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