mercoledì 5 marzo 2025

Sam Fender - People Watching (Polydor, 2025)

 


Tre indizi, i tre dischi pubblicati finora, compreso questo nuovo People Watching, fanno una prova. E la prova è che Sam Fender, trentenne songwriter britannico originario di North Shield, si colloca a un livello superiore rispetto a tanti musicisti della sua generazione.

Fender possiede una voce pazzesca, non solo potente, ma anche incredibilmente versatile per un ragazzo della sua età, e scrive grandi canzoni, tanto fresche quanto profonde, capaci di intercettare gli smarrimenti e i disagi della propria generazione, in modo sincero e tenendosi lontano dalle banalità. Figlio della working class, cuore smaccatamente british, sensibilità attenta ai problemi della propria terra, di cui sa cogliere con arguzia il quadro socio-politico, Fender ama guardare, però, anche all’America, con occhio di riguardo soprattutto a Bruce Springsteen (Geordie Springsteen, così lo chiamano i fan), a cui si ispira per l’intensità delle liriche, per lo spirito indomito che pervade di potenza le sue canzoni e per certe sonorità immediatamente riconducibili al Boss (la title track che apre il disco).Si tratta, però, solo d’ispirazione, di un modello a cui rifarsi: la musica di Fender non è un copia incolla di quella di Springsteen, ma è libera, appassionata, e suona originale e seducente.

Co-prodotto da Adam Granduciel (The War On Drugs) People Watching è senza dubbio il disco più maturo, ricco e onesto di Fender, un album che crea un mosaico di emozioni, affrontando i temi della speranza, del dolore, della solidarietà, che si sofferma a riflettere sui tempi, sulla deriva dell’umanità, sulla potenza dell’amore e l’angoscia che deriva dall’amare, avvolgendo ogni canzone in scaletta in una sensazione dicotomica, in cui leggerezza e melodie cristalline convivono con una tensione palpabile e un’umbratile nostalgia. Dolce e amaro, bianco e nero, speranza e disillusa consapevolezza.

La title track apre il disco ed è un immediato deja vu, una canzone che Fender ha nelle corde da tempo e che lo riconnette all’amato Boss. Un brano diretto, senza fronzoli, trainato da una tensione ardente ma senza retorica, immediata nel suo appeal melodico che vibra prima ancora del ritornello. Un momento dalle atmosfere cinematografiche, eppure così intimo, riflessivo, e pervaso di arresa malinconia, le parole come vesciche sulla lingua: "Osservo la gente mentre torno a casa, invidioso del barlume di speranza. Mi dà una pausa dal sentirmi solo, mi regala un momento fuori dall'ego. Mi sentivo così invincibile, pensavo che ci fosse un mondo per cui valeva la pena sognare”.

Più arioso e leggero è il pop folk di "Nostalgia’s Lie", le chitarre che sanno di Cranberries e Rem evocano profumi primaverili, ma il titolo tiene fede al mood del brano, che parla di illusioni e ricordi che ingannano (“Ho lasciato il segno violento nella cavità della quercia, stavo girando e ridendo. È mai stato quello che pensavo fosse veramente?”).

Il tocco di Fender è immediatamente riconoscibile anche quando cambia registro, cosa che succede spesso nel corso di una scaletta straordinariamente coesa, eppure capace, canzone dopo canzone, di aggiungere qualcosa di nuovo alla narrazione. Che spesso si fa amarissima e disillusa, come nella melodia di cristallo di "Chin Up", che risveglia languori brit pop, per guardare, in un tramestio di rimpianti, recriminazione e rammarico, alla propria incapacità di vivere gli anni della maturità (“inattivo e stupido, 28 anni e continuo a succhiarmi il pollice”), adombrando una dipendenza da cocaina (“odio la cocaina, continuo a muovermi al suo ritmo”) e constatando la sconfitta della propria generazione (“Le persone sono scappate di casa. La nostra Jackie attraversa la miseria, A gennaio ha perso nuovamente il lavoro. Di notte lo sente piangere…Il freddo avvolge il neonato”).

Non c’è un solo momento fiacco in un disco che dissemina emozioni, in cui tutto è così dannatamente coinvolgente, anche quando trae in inganno l’ascoltatore, catturato verso la gioia dalla melodia caracollante e dall’interplay stellare fra synth e chitarre croccanti di "Wild Long Life", e spinto, invece, alla lacrima da un peso malinconico che si accartoccia attorno al pomo d’Adamo, quando Fender canta, dopo una notte di eccessi: “E sono diventato silenzioso perché il mio cuore sta ancora soffocando per un amore che ho fatto a pezzi. Oh, ho così tanto dolore qui, così tanto amore, ma sta affogando ogni centimetro della mia anima”.

La semplicità e l’immediatezza della melodia di "Arm’s Length" permette ai testi di risplendere in tutta la loro profondità senza che il tiro vagamente acido degli strumenti possano intercettarli: Fender cerca il confronto, forse anche il giudizio altrui, dice "Sono egoista e mi sento solo", ma enfatizza la necessità della distanza (“A distanza, chiacchiere e poi un po' di compagnia”) come atto per preservare la propria integrità.

Tanta è la bellezza di questa prima parte di People Watching, ma tanta ne deve ancora arrivare.

L’eleganza di "Crumbling Empire" lascia senza fiato, è la perfetta incarnazione del rock anni ’80: una melodia fluida, una magistrale tessitura di chitarre e un mood dolcemente malinconico evocano il Chris Rea di "On The Beach" o lo Springsteen di "Streets Of Philadelphia". Da capogiro.

Il tiro più ruvido di "A Little Bit Closer" apre alla riflessione religiosa, che forse non è fede ma inarrestabile tendenza all’assoluto, mentre il brillante connubio fra chitarre e pianoforte avvolge in una nube colorata "Rein Me In", fino a quando, nel finale, l'oro liquido di un sax si rovescia e trabocca, rendendo ancora più esasperato il favoloso crescendo del brano.  

Sintetizzatori distopici introducono la cupa "TV Dinner", un brano che avrebbe fatto una splendida figura su Amnesiac dei Radiohead: la voce come un flusso di coscienza, accordi ipnotici e reiterati di pianoforte avvolti da una coltre incombente di synth, perfetto tappeto sonoro per un’invettiva contro lo sfruttamento delle celebrità e il modo in cui la società le spoglia di ogni briciolo di umanità.

"Something Heavy" è una traccia che, nonostante il titolo fuorviante, dona un momento di leggerezza pop prima del gran finale.

Che arriva con "Remember My Name", canzone che chiude il disco con il groppo in gola: è pura poesia, è amore allo stato puro. Fender rende omaggio ai suoi defunti nonni, toglie la polvere dal libro dei ricordi e scrive una lettera indirizzata al Paradiso. "Ricorda il mio nome" racconta di un momento in cui suo nonno si prendeva cura della nonna mentre lei stava combattendo la demenza: “Assecondami, rendimi felice la giornata, Ti racconterò delle storie. Baciarti il viso. E pregherò che tu ricordi il mio nome”. La parole sincere, l’interpretazione vocale da brividi: i ricordi sbiaditi di vecchie fotografie sono sparsi per terra, e una lacrima riga il volto mentre il pathos dell’orchestra intensifica il dramma. Ogni nota decora il cielo punteggiandolo di stelle e stringendo il cuore in un desiderio affranto. Si potrebbe desiderare di morire per essere ricordati così.

People Watching è, per concludere, un disco d’intensità disarmante, profondo, lirico, amaro, ma anche incredibilmente brillante nel suo coinvolgimento melodico, che nasce da una scrittura tanto ispirata quanto sincera. Fender non ha bisogno di inventarsi niente di nuovo, si limita a scrivere grandi canzoni pop-rock, semplici, dirette, coinvolgenti. Ma il suo sguardo sulla vita, privo di filtri, di retorica o di inutili sentimentalismi, eleva la scaletta a un livello superiore. Ecco allora che l’accostamento di Fender a Springsteen ha veramente senso: non tanto nel suono, talvolta evocativo del grande rocker americano, quanto semmai nello stesso approccio attraverso il quale le canzoni sono attimi di esistenza da condividere con chi ascolta. La stessa onestà, la stessa passione, il potere di trasformare in epica la vita reale delle persone. Senza filtri, senza piedistalli: uno vale uno.

Voto: 9

Genere: Rock, Pop

 


 


Blackswan, mercoledì 05/03/2025

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