lunedì 30 giugno 2025

Pulp - More (Rough Trade, 2025)

 


Provo un piacere sottile a mettere nel lettore un nuovo cd di una delle band amate durante gli anni della gioventù. Nel 2025, è già successo con gli Skunk Anansie, tornati sulle scene dopo uno iato lunghissimo, e i Garbage, che non hanno mai smesso di fare musica, nonostante siano trascorsi tre decenni dagli esordi. Questo godimento è qualcosa che ha a che fare con la nostalgia, non c’è dubbio (ah, che emozione sentirsi ancora giovani), e probabilmente con l’insoddisfazione prodotta da tanti ascolti coevi di band o artisti osannati, ma incapaci di stimolare un orecchio “anziano” sia sotto il profilo della scrittura che della qualità tecnica dell’esecuzione. Così stanno le cose, per quanto mi riguarda. Sono orgogliosamente boomer, al punto che quando ho saputo che i Pulp, una delle band più geniali del movimento brit pop, sarebbe uscita con un nuovo disco dopo ben ventiquattro anni di silenzio, una lacrimuccia (facciamo anche due) mi ha rigato la guancia. Pura emozione.

Correva l’anno 1995, quando il gruppo capitanato da Jarvis Cocker pubblicò il suo quinto album in studio, Different Class, probabilmente la più grande affermazione artistica della band e certamente il loro lavoro di maggior successo commerciale. Dopo dodici anni trascorsi quasi esclusivamente ai margini di un riconoscimento significativo, i Pulp erano finalmente arrivati alle orecchie del grande pubblico, e si sarebbero rivelati difficili da dimenticare. Nonostante, successivamente, abbiano pubblicato solo altri due album (il cupo e disilluso This is Hardcore del 1998 e l'addio sontuoso We Love Life del 2001) la popolarità dei Pulp persiste ancora oggi, tanto che il tour della reunion del 2023 ha attirato grandi folle. Fu proprio durante quei mesi che si presentò per la prima volta la possibilità di scrivere nuova musica, con la band che provò il nuovo brano "Hymn of the North" durante le prove audio, per poi suonarlo in pubblico durante il live act.

Da quel momento qualcosa si è smosso, e il 2024 è stato un anno decisivo, dedicato, la prima metà, alla scrittura di nuovo materiale, e la seconda metà, alla registrazione del disco vero e proprio. Supervisionato dal produttore degli Arctic Monkeys, James Ford, e con la partecipazione del batterista storico Nick Banks, del chitarrista Mark Webber e della tastierista Candida Doyle, oltre ovviamente a Cocker, More è stato il disco dei Pulp più veloce mai registrato. Eppure, la scaletta che ne è il risultato non sembra assolutamente affrettata, tutt'altro.

Questo è evidente fin dal singolo principale e brano d'apertura dell'album "Spike Island", che suona immediatamente classico come qualsiasi successo degli anni '90 della band. Ritmo di batteria coinvolgente e una linea di basso vivace, la canzone si assesta su un profondo groove disco quando Cocker, ironizzando sulla sua età (quest’anno sono sessantadue) e sul ritorno sulle scene canta "Stavo lottando con la gruccia, indovina chi ha vinto?", poco prima che il ritornello da cantare in coro rievochi i giorni antemici del brit pop.

Anche "Tina", la seconda traccia, perpetua la tradizione della band, con un ritornello orecchiabile in mezzo a versi sommessi e ossessionanti. "Tina" è un classico Pulp, un gioiello bizzarro e accattivante attraverso cui Cocker racconta con sarcasmo di un amore che non decolla: "stiamo davvero bene insieme, perché non ci incontriamo mai".

La canzone successiva, "Grown Ups", è un po' azzardata, dura 5 minuti e 56 secondi, il che la rende il momento più lungo dell'album. Tuttavia, il risultato è brillante: tastiere potenti sostenute da un riff incalzante ammantano di energia i testi vividi di Cocker, che ci guidano attraverso le sue esperienze con l’invecchiamento.

In netto contrasto c'è la canzone successiva, "Slow Jam", che fa esattamente ciò che promette, e rallenta di molto il ritmo, attraverso una linea di basso rilassata e funky, e un cantato sommesso e malinconico con cui il cantante documenta la fine di una storia d’amore.

Se "Slow Jam" racconta il collasso di una relazione, "Farmers Market" ne accoglie, invece, la luce nascente. Accarezzata da delicati archi, linee di pianoforte sognanti e un tocco jazzy nel drumming la canzone fotografa sotto una luce agrodolce un incontro tra due anime coi trascorsi esistenziali della mezza età: "Hai sorriso e ho potuto vedere che la vita aveva preso anche te, ma non era niente di serio, solo una ferita superficiale".  

Il brano successivo, "My Sex", rappresenta un audace cambio di tono, con il sussurro sensuale di Cocker che segna un ritorno alla sfacciata spavalderia che ha alimentato una considerevole quantità di grandi successi dei Pulp. Come nel resto di More, però, il passare del tempo è sempre in agguato e sulle note di un funky sinuoso Cocker canta “sbrigati perché il mio sesso sta per esaurirsi", come se la vita potesse sfuggirgli di mano da un momento all'altro, una preoccupazione, questa, senza dubbio acuita dalla morte del bassista di lunga data Steve Mackey. Tuttavia, Cocker non si accontenta più di prodezze puramente sessuali, non è più un giovane spavaldo con un luminoso futuro davanti. A sessantun anni, il cantante è giunto alla conclusione che l'amore è ciò a cui tutti dovrebbero aspirare. "Senza amore, ti stai solo masturbando dentro qualcun altro", dichiara senza mezzi termini nel secondo singolo "Got To Have Love", un brano disco-pop travolgente (vengono in mente i Santa Esmeralda) con una costruzione e un rilascio magistrali, un numero che si rivelerà sicuramente un momento culminante quando verrà eseguito dal vivo.

Da qui in avanti il disco si avventura in un territorio dedicato alla ballata, e sebbene non sia questo il motivo per cui i Pulp sono più conosciuti, è probabilmente il punto di forza di questo ottimo More.

"Background Noise" racconta l’amara consapevolezza del vuoto lasciato dalla rottura di una storia: Cocker paragona l'amore al "ronzio di un frigorifero, che noti solo quando scompare", dando vita a un ritornello melodico e drammatico che si distingue come uno dei momenti migliori dell'album. "Partial Eclipse" è piacevole, anche se un po' dimenticabile, mentre la penultima canzone, "Hymn of the North", è una delle vette del disco. Note di piano sgocciolate, e voce da crooner, il brano si sviluppa lentamente, prima che un bridge alla Style Council interrompa per pochi secondi il flusso e apra a una seconda metà composta di archi, ottoni e linee vocali ipnotiche, per poi apparire nuovamente dal nulla.

Alla fine, l'album ha in serbo un'altra chicca. "A Sunset" è un brano dal dolce ondeggiare, avvolto da lussureggianti fioriture orchestrali. Un modo appropriato per concludere l'album, con dolcezza e tanta ironica sagacia, quando Cocker canta, quasi sorridendo, una tremenda verità: "La prima regola dell'economia? Le persone infelici spendono di più".

More segna un grande ritorno, il ritorno di una delle band più influenti degli anni ’90, a cui il tempo trascorso ha concesso una nuova possibilità, magistralmente sfruttata. Undici canzoni che suonano come dovrebbe suonare la musica dei Pulp oggi, che è il tempo dei capelli grigi e dei rimpianti che aprono a una nuova consapevolezza, che spingono ad adeguarsi a un nuovo sentire. More è il suono della vita che scorre, del tempo che ci erode lentamente ma anche di tutta la bellezza che abbiamo avuto la fortuna di vedere. La spavalderia di un tempo si è attenuata, l’ironia è più sottile, le riflessioni più temperate e agrodolci. Ciò che resta intatta, però, è la musica, bella e coinvolgente esattamente come trent’anni fa.

Voto: 8

Genere: Pop

 


 

 

Blackswan, lunedì 30/06/2025

 

giovedì 26 giugno 2025

Young Gun Silver Fox - Pleasure (Monty Records, 2025)

 


Sembrerebbe roba da vecchi nostalgici anni ’70, e forse in parte lo è. Eppure, visto il successo del duo londinese, il gradimento risulta essere trasversale, grazie a una proposta, rifinita in dieci anni di carriera, che ha il merito di essere incredibilmente orecchiabile, buona per tutti i palati, nonostante l’altissima qualità del songwriting e un cesello strumentale formidabile.

I Young Gun Silver Fox sono una coppia formata dal frontman dei Mamas Gun, Andy Platts, e dall'artista/autore/produttore Shawn Lee. I due hanno già pubblicato quattro album acclamati dalla critica e di grande successo commerciale, e con questo nuovo Pleasure, è evidente che la loro traiettoria ascendente è destinata a continuare, offrendo ancora una volta il loro sound unico: un cocktail eclettico di yacht rock, funky e blue-eyed soul, che ha mandato a memoria la lezione di artisti quali Steely Dan, Christopher Cross, Earth Wind & Fire, Stevie Wonder e Brian Wilson.

Un suono classicissimo, eppure, ancora, incredibilmente necessario, una via di fuga da un mondo roboante, in cui le vite delle persone sono costrette in un frullatore troppo veloce e logorante. La musica dei Young Gun Silver Fox, come recitava una vecchia pubblicità italiana, sembra essere concepita apposta contro il logorio della vita moderna, è una pausa dagli affanni, una sosta da un girovagare senza senso, che restituisce un po’ di quella bellezza che andiamo progressivamente dimenticando. Nulla di nuovo, nulla di sperimentale, sia bene inteso, semplicemente il riappropriarsi del proprio tempo di qualità, attraverso canzoni che creano un immaginario composto dalla dolcezza ventilata di un’estate al mare, di gite in barca e tramonti da esplorare con gli occhi persi all’orizzonte, di feste sulla spiaggia, mentre nel cuore della notte la risacca accompagna l’eccitazione di groove eleganti, stilosi nel loro completo di lino bianco.

Registrato in parte separatamente, attraverso lo scambio di file, e in parte nello studio di Platts, The Prairie, l’album si apre con il singolo principale "Stevie e Sly", canzone che rende omaggio a due giganti della musica, citandoli ma creando un approccio ritmico personalissimo. Apparentemente funk da cocktail party, che invece risucchia l’effimero dell’occasione in un groove irresistibile, tanto che ascoltata una volta, sfido chiunque a resistere dal metterla in loop per altre dieci.

"Pleasure", basta il titolo a farlo capire, è un cestino di ciliege, ne assaggi una e non smetti di mangiarle. "Born To Dream" è allegra e confortevole al contempo, ricorda i Doobie Brothers e Christopher Cross, ascolti di cinquant’anni fa, che riprendono vita con un vigore che lascia a bocca aperta.

Gli arrangiamenti per fiati brillano grazie a un affiatato trio di musicisti ospiti, ma a parte questo, sono Platts e Lee a gestire lo spettacolo: producono, suonano e si occupano della parte tecnica con una consapevolezza superiore e un'anima vintage nelle vene.

Ecco, allora, che per i nostalgici degli Steely Dan gli intrecci vocali della conclusiva "One Horse Race" o la malinconia soffusa di "Late Night Last Train", che fluttua con un'intimità onirica, coronata da un solo di chitarra che sembra sprigionato dall'etere, sarà come potersi abbeverare nuovamente alla fonte della vita eterna, mentre "Burning Daylight" consolerà i fan degli Earth, Wind & Fire (incredibile l’arrangiamento di fiati), che ritroveranno un suono antico riletto con sensibilità blue-eyed soul.

E se chiudete gli occhi, si può anche immaginare di ballare su una rotonda affacciata sul mare, mentre la brezza della notte porta con sé funk sinuosi glitterati di polvere di stelle anni ’70 ("Holding Back The Fire"), o stilosissimi midtempo, tutto gel e completo nero su giacca bianca, come quando quegli anni erano rivisitati dalla coolness dandy di Robert Palmer ("Just For Pleasure").

Il risultato è un disco che sfida le tendenze del momento, riportando in vita un mondo lontano, che, senza prendersi troppo sul serio, finisce comunque per essere dolce lenimento per l’anima: Pleasure è caldo, melodico e avvolgente. E’ pura evasione, e un promemoria che la musica di qualità non passa mai di moda, ma continua a far stare maledettamente bene chi l’ascolta.

Voto: 8

Genere: Yacht Rock, Funky, Soul, Pop

 


 

 

Blackswan, giovedì 26/06/2025

martedì 24 giugno 2025

Garbage - Let All That We Imagine Be The Light (BMG, 2025)

 


Trent’anni di carriera e non sentirli. Se il precedente, ottimo, No Gods, No Masters (2021) pubblicato nei giorni cupi della pandemia, era un disco arrabbiato, fortemente politicizzato, quasi minaccioso nella sua cupa mise en place, Let All That We Imagine Be The Light non perde la carica d’urgenza che aveva caratterizzato il predecessore, riuscendo a essere egualmente rilevante e musicalmente intrigante. Tuttavia l’approccio modifica, almeno in parte, la prospettiva, e i toni risultano, in qualche modo, meno esasperati.

Questo ottavo album in studio, conferma la presenza di tutti e quattro i membri originali (Shirley Manson, Duke Erikson, Steve Marker e Butch Vig) che insieme hanno messo mano al songwriting e alla produzione, insieme al sodale di lunga data, Billy Bush. Registrato tra il Red Razor Studio di Los Angeles, il Grunge Is Dead Studio di Vig e persino la camera da letto della Manson, il disco, come dicevamo, vede la band allontanarsi dal mood rabbioso e indignato di No Gods No Masters, per abbracciare un suono pop rock più caldo e melodico, e guardare alla follia di un mondo che ha imboccato la strada dell’autodistruzione, attraverso occhi che cercano speranza e parole che veicolano positivi messaggi d’amore.

Un disco vitale ed emotivamente complesso, quindi, concepito per gran parte durante il recupero fisico e psicologico della Manson, a seguito di un intervento chirurgico all'anca e un prolungato blocco creativo. "L'album parla molto della ricerca dell'amore nel mondo come strumento per combattere l'odio che proviamo", ha spiegato in più di un’occasione la cantante, e questa prospettiva conferisce al disco un importante nucleo meditativo, in cui al dolore, alla distruzione e alla mortalità, si contrappongono temi come speranza, guarigione e accettazione di sé.

Non è un caso che l’album si apra con il brano manifesto del nuovo corso, "There's No Future in Optimism", in cui è immediatamente riconoscibile il marchio di fabbrica Garbage (fuzz di chitarra distorta, bassi pulsanti, synth analogici e la voce ustionante della Manson) e il cui titolo cupo contrasta con le liriche, che contengono un invito ad abbracciare l'amore anziché la disperazione. "Sei pronto per l'amore?" chiede la cantante, sfidando la rassegnazione con un impeto di resistenza e ottimismo.

Temi prevalentemente universali, quelli trattati in Let All That We Imagine Be The Light, che lasciano talvolta spazio a riflessioni personali, come nella scorbutica "Chinese Fire Horse", in cui la Manson incanala la rabbia in testi taglienti rivolti a tutti coloro che l’hanno invitata a ritirarsi, a causa dei problemi di salute e dell’età che avanza inesorabile (“You Say My Time Is Over…But The Truth Is On My Side, I’m Not Dead, I’m Not Done”) o nella conclusiva e intensa "The Day That I Met God", in cui la Manson racconta senza veli i suoi problemi di salute, la sua depressione, la lenta guarigione grazie a un Dio chiamato Tramadol (analgesico della famiglia degli oppioidi).

L’alchimia messa in atto dai Garbage è quella dei giorni migliori, quella che riesce a creare canzoni tanto spigolose quanto melodiche (l’incedere disturbante di "Hold" è spazzato via da un ritornello che non fa prigionieri), prodotte mirabilmente e immediatamente riconoscibili di un sound identitario da ormai trent’anni. In tal senso, "Get Out of My Face, AKA Bad Kitty" nasce da una matrice abusata ma non usurata, anzi pervasa da rinnovata energia, che trasforma il brano in un fremente inno alla sopravvivenza e alla fiducia in se stessi, un invito alla ribellione, costi quel che costi: "Se non puoi unirti a loro, allora devi batterli".

La scaletta funziona tutta, dalla prima all’ultima nota, sia nel mood sinistro e teso della cinematografica "Have We Met (The Void)", sia nelle trame sognanti di "Sisyphus" che nella tensione vagamente trip hop della splendida "Radical", ennesimo struggente invito alla speranza: “Let All That We Imagine Be The Light, It’s Radical”).

Let All That We Imagine Be The Light è un ottimo disco, un disco inconfondibilmente Garbage: chitarre spigolose, beat angolari, paesaggi sonori cinematografici avvolgenti, tante cose da dire e una produzione raffinata. E’ anche, però, un lavoro più caldo del suo predecessore ed è emotivamente profondo. Un disco sul dolore e la lotta per la sopravvivenza, che invita a continuare a combattere e a cercare la risposta nell’amore. Perché nel marasma in cui versa l’umanità, nella distruzione e nelle rovine, la bellezza è ancora possibile. Basta cercare la luce, anche laddove tutto sembra oscurità.

Voto: 8

Genere: Alternative, rock

 


 

 

Blackswan, martedì 24/06/2025

lunedì 23 giugno 2025

Breathing - Kate Bush (Emi, 1980)

 


Pubblicato nel settembre del 1980, Never For Ever, terzo album in studio di Kate Bush, ha rappresentato per la musicista britannica il disco della svolta commerciale, facendola diventare la prima artista solista donna britannica con un album al primo posto nel Regno Unito. Prodotto, e fu la prima volta, dalla stessa Bush (insieme al suo ingegnere del suono Jon Kelly), il disco, il cui titolo riflette la transitorietà di tutto ciò che accade nella vita, rispecchia perfettamente il suono dell’epoca in cui fu concepito, facendo largo uso di elettronica ed effetti ricercati, e inanella un filotto di canzoni spettacolari, tra cui la celeberrima Babooshka, Army Dreamers e Breathing.

Quest’ultima parla dell'olocausto nucleare visto dalla prospettiva di un feto. È ancora nel grembo materno e sa che la bomba è esplosa e che morirà perché non può fare a meno di respirare l'aria radioattiva attraverso sua madre. Un brano drammatico, che l’ascoltatore ascolta impotente, mentre il feto, la madre e il resto dell'umanità rimangono senza aria e muoiono.


Abbiamo perso la nostra occasione

Siamo il primo e l'ultimo,

Dopo l'esplosione

Schegge di plutonio scintillano in ogni polmone


Nel testo c’è anche un curioso riferimento al fumo e alla nicotina, che sembra apparentemente fuori luogo, e che invece ha un significato ben preciso: “Respirando, respirando la sua nicotina…

Fu la stessa Bush, qualche anno dopo, a spiegarne il senso, durante un’intervista: “Breathing riguarda gli esseri umani che si uccidono. Penso che la gente che fuma sia una di quelle piccole cose che dicono molto sugli esseri umani. Voglio dire, fumo e mi diverto, ma sappiamo che fumare è pericoloso. Forse c'è una sorta di strano desiderio subconscio di danneggiare noi stessi…

La musicista britannica definì Breathing la sua “piccola sinfonia”, e attribuì la riuscita della canzone alla bravura dei turnisti che la suonarono in studio. All’inizio, i musicisti cercavano semplicemente di tirar fuori un buon suono, di rendere il brano tecnicamente perfetto. La Bush, però, non era soddisfatta, riteneva che mancasse emozione: “i turnisti avevano le loro battute, capivano di cosa parlava la canzone, ma all'inizio non c'era emozione, e quella traccia richiedeva tanta emozione. È stato solo quando hanno suonato con sentimento che l'intera cosa è decollata. Quando siamo andati a riascoltarla, volevo piangere…

Mentre la band stava eseguendo il brano, si presentò all’improvviso nello studio di registrazione un manager della Emi, il quale arrivò esattamente nel momento in cui la Bush cantava il verso: “Continua a respirare, Fuori, dentro, fuori, dentro, fuori, dentro”. Apriti cielo! Il manager, inviperito, fece subito presente alla musicista che non avrebbe mai pubblicato una canzone a sfondo così esplicitamente pornografico, e solo dopo aver riascoltato il brano per intero e ricevuto una lunga spiegazione, finì per acconsentire a inserire la canzone nella scaletta del disco.

 


 

 

Blackswan, lunedì 23/06/2025

venerdì 20 giugno 2025

Percival Everett - James (La Nave Di Teseo, 2025)


 

 

Ad Hannibal, una cittadina lungo il fiume Mississippi, lo schiavo Jim scopre che a breve verrà venduto a un uomo di New Orleans, finendo per essere separato per sempre dalla moglie e dalla figlia. Decide, quindi, di scappare e nascondersi nella vicina Jackson Island per guadagnare tempo e ideare un piano che gli permetta di salvare la sua famiglia. Nel frattempo, Huckleberry Finn ha simulato la propria morte per sfuggire al padre violento recentemente tornato in città, e anche lui si rifugia nella stessa isola. Come tutti i lettori delle Avventure di Huckleberry Finn sanno, inizia così il pericoloso viaggio – in zattera, lungo il fiume Mississippi – di questi due indimenticabili personaggi della letteratura americana verso l’inafferrabile, e troppo spesso inaffidabile, promessa di un paese libero. Percival Everett parte dal capolavoro di Mark Twain per raccontare la storia da un punto di vista diverso, quello di James, ma per tutti Jim, mostrando tutta l’intelligenza, l’amore, la dedizione, il coraggio e l’umanità di quello che diventa, finalmente, il vero protagonista del romanzo. Un uomo disposto a tutto pur di sopravvivere e salvare la propria famiglia, un uomo che da Jim – il nomignolo usato in senso spregiativo dai bianchi per indicare un nero qualsiasi, indegno anche di avere un nome proprio – sceglie di diventare James, e sceglie la libertà, a ogni costo.

 

Per affrontare, comprendere e rielaborare un monumento della lettura americana come Mark Twain bisogna essere degli autentici fuoriclasse, e Percival Everett, scrittore e professore di letteratura inglese alla University Of Southern California, noto per capolavori come Cancellazione (2007) e Telefono (2021), senza ombra di dubbio, lo è. L’impresa era di quelle da far tremare le gambe: riprendere Le avventure di Huckleberry Finn, uno dei capisaldi della letteratura statunitense, e riscriverlo dal punto di vista dello schiavo fuggiasco Jim, deuteragonista nel romanzo di Twain, e personaggio che il grande scrittore americano utilizzava come grimaldello per scardinare la coscienza di Huck e aprirlo a una nuova consapevolezza etica e anti razzista.

In James, nome che lo schiavo sceglie in contrapposizione a Jim (uno dei nomignoli che gli schiavisti davano alle persone di colore), la narrazione resta per buona parte fedele all’originale, ma viene integrata da tutto ciò che nel romanzo di Twain non si conosce, quando Jim esce di scena.

L’architettura è quindi quella del romanzo nel romanzo, del nuovo inserito in un nobile e antico canovaccio, con l’intento di ribaltare la prospettiva, e dare dignità a un personaggio, che, per quanto importante, nel romanzo di origine aveva una sola funzione specifica: redimere Huck.

Lo scopo in James è, dunque, duplice: omaggiare un grande classico, dandogli nuova energia, ed innestare nella trama profonde riflessioni, che fotografano l’allora per raccontare il presente, in modo da essere maggiormente comprensibile agli occhi moderni.

La premessa è d’obbligo: non è necessario aver letto Le avventure di Huckleberry Finn, per immergersi nelle pagine di James, anche se coloro che, magari durante l’adolescenza, hanno affrontato il capolavoro di Twain, si troveranno a vivere la piacevole sensazione di un deja vu perfettamente riuscito.

La trama è la medesima, alcuni luoghi (l’isola di Jackson) e alcuni personaggi ricorrono (Il re e Il Duca), e la narrazione mantiene intatte le sue peculiarità: James è un romanzo picaresco di avventura e di formazione.

La prosa è semplice, il ritmo è alto, il colpi di scena non mancano, il romanzo si legge agevolmente e alla velocità della luce. Attenzione, però: la scrittura di Everett, così essenziale, così asciutta e lineare, nasconde significati, che vanno al di là dei semplici intenti anti razzisti.

Questa componente, ovviamente non manca: gli schiavi vengono trattati come bestie, gli schiavisti, anche quelli considerati “buoni”, sono fatti tutti della stessa ignobile pasta, e anche coloro che si professano anti schiavisti, alla fine dei conti vengono smascherati nella loro ipocrisia di facciata.

Everett, però, va oltre, creando un parallelismo fra lo schiavismo vero e quello odierno, in cui la libertà è spesso una parola senza più senso, e lo sfruttamento del lavoro, da qualunque punto di vista lo si guardi, impera con una ferocia non diseguale da quello raccontato da Twain.

Signore, io cerco solo di capire. Lei dice sta facendo una distinzione fra schiavitù di proprietà e schiavitù di contratto?” chiede James al musicista apparentemente liberal, che lo compra per duecento dollari, da restituire, però, dopo duecento spettacoli retribuiti un dollaro l’uno.

James è intelligente, sa leggere e sa scrivere, ma si fa passare per stupido e analfabeta, e parla il dialetto degli schiavi, perché il suo linguaggio forbito genera vero e proprio terrore nei suoi aguzzini e padroni. E’ questo il tema centrale dell’opera di Everett: riflettere sulla funzione della scrittura e della lettura non solo come abbrivio per poter accedere alla vera libertà (che è quella del pensiero autonomo, impossibile da contenere con catene e pastoie) ma anche come strumento identitario: se sai scrivere e leggere, non sei più Jim, un nessuno, un numero o una bestia, ma diventi James, mente pensate che sa riflettere, decidere, scegliere, diventando immediatamente pericolosa e sovversiva.

In quel momento il potere della lettura mi apparve chiaro, reale. Quando vedevo le parole, nessuno era in grado di controllarle, né di controllare ciò che ne ricavavo. Non poteva neppure sapere se le stavo solo vedendo o leggendo, se le stavo compitando o comprendendo. Era una faccenda privata e e totalmente libera, e di conseguenza totalmente sovversiva”.

Ecco il senso più alto del romanzo: con James, Everett ci porta in un viaggio emozionane attraverso la storia e la letteratura americana, per ricordarci, e ce n’è un gran bisogno, che oggi siamo tutti schiavi, a prescindere dal colore della pelle, ma che, come allora, abbiamo un grande potere per combattere le forze che ci voglio pecore ammansite di un gregge alla mercé del potere e del profitto: leggere e scrivere per scardinare la logica imperante della globalizzazione e della paura.    


Blackswan, venerdì 20/06/2025

giovedì 19 giugno 2025

Messa - The Spin (Metal Blade, 2025)

 


Sono passati tre anni da Close, un disco che aveva fatto circolare, e non poco, il nome dei padovani Messa, grazie a un accattivante ibrido di metal e hard rock, declinato, però, attraverso una coltre plumbea, e reso distintivo dall’originalità di scrittura e da una debordante creatività, la stessa che rende difficile incasellare un album entro gli steccati rigidi di un solo genere.

Questo nuovo The Spin si muove seguendo le stesse coordinate del suo predecessore, ma attraverso un tracciato meno tortuoso, più lineare e, in senso assolutamente positivo, meno ostico all’ascolto. Il calderone di influenze resta tutto sommato lo stesso (hard rock, blues, doom, prog, psichedelia, dark ambient), salvo per alcuni suggestivi ammiccamenti al goth rock di derivazione anni ’80, ma le canzoni suonano più dirette e meno elusive.

Il fatto che riesca a mettere insieme queste componenti alchemiche mantenendo un così alto grado di coesione e di fruibilità, alternando momenti di adrenalinica intensità ad altri di toccante intimismo, è la prova di quanto la band sia cresciuta in maturità e consapevolezza in dieci anni di carriera. Con The Spin i Messa abbandonano, in parte, certe architetture ardite e quei puzzle creativi contenenti svariate contaminazioni e divagazioni, per abbracciare un’espressività più nitida e pulita, meno enigmatica ma satura comunque di sedimenti emotivi, messi a fuoco da un minutaggio decisamente inferiore rispetto a quello di Close. Il risultato è un disco più bilanciato, un perfetto compendio di sezioni rarefatte, atmosfere avvolgenti, momenti ad alta densità di struggente blues/doom e muscolari sportellate elettriche, tutte componenti che convivono nello stesso nucleo di febbrile trasporto.

Pur in un contesto più convenzionale rispetto a Close, i Messa non smettono però di esplorare, di cercare nuove strade in territori apparentemente già noti, spingendo sull’impeto di assalti frontali, e cercando, riuscendoci, di contrapporre (e fondere) al metallo suggestioni eteree e inquietanti digressioni ossianiche.

A rendere unica questa conturbante amalgama è la voce versatile di Sara Bianchin, egualmente abile nel discendere attraverso i declivi più impervi e oscuri, sedurre con delicata dolcezza o aggredire con furioso ardore.

Nonostante le differenze fino a qui evidenziate, i Messa restano i Messa, e certe canzoni (l'elettronica di "Void Meridian", le volute psichedeliche e ascensionali e la digressione jazzy della splendida "The Dress", fino al passo doom che convive con le atmosfere meditabonde di "Thicker Blood"), dimostrano che la tavolozza sonora in costante mutamento continua però ad attingere a paesaggi sonori familiari.

Allo stesso tempo, come dicevamo, in The Spin la formula canzone è più rispettata, senza che ciò pregiudichi la qualità della proposta, visto che brani come "Fire on the Roof", con la sua ruvida aggressione doom, le strofe fumose e ipnotiche, il ritornello immediato e l’assolo di chitarra frastornante, o "Immolation", bluesy e fluttuante, sono belli da capogiro.

È questo che distingue leggermente The Spin dal precedente album dei Messa, che aveva un flusso organico: in questo caso la struttura è episodica, dovuta al fatto, probabilmente, che, a differenza di Close, il gruppo ha scelto di registrare l’album separatamente, in diverse location e periodi.

Comunque sia, la band padovana ha colpito nuovamente il centro del bersaglio, ed è evidente che qualunque cosa faccia, sia in grado di mantenere una propria precisa identità, pur evitando di replicare formule vincenti. The Spin non fa eccezione: è meno impegnativo e più immediato dei dischi precedenti, ma non per questo meno bello. Come raggiungere la vetta utilizzando il sentiero meno tortuoso: quel che conta è il paesaggio, anche in questo caso decisamente incantevole. 

Voto: 8

Genere: Doom, Goth Rock




Blackswan, giovedì 19/06/2025

martedì 17 giugno 2025

(Looking For) The Heart Of Saturday Night - Tom Waits (Asylum, 1974)

 


Questa è la sesta e ultima traccia del lato A di The Heart Of Saturday Night, secondo disco in studio di Tom Waits, pubblicato nell’ottobre del 1974. La canzone, se si dà un’occhiata alla scaletta, risulta essere speculare a Ghosts Of Saturday Night, che è la traccia finale dell'album. Questa collocazione non è stata casuale, dato che Heart vede Waits alla ricerca del cuore del sabato sera, mentre Ghosts lo vede spazzare via i suoi resti. Entrambe le canzoni, poi, hanno parte del titolo tra parentesi tra parentesi (nessuna delle altre nove canzoni dell'album li ha): (Looking For) The Heart of Saturday Night e The Ghosts of Saturday Night (After Hours at Napoleone's Pizza House).

Il brano è il racconto in terza persona di un giovane che guida nelle vie della città alla ricerca del cuore del sabato sera, attraverso il quale Waits sembra significare l'essenza della vitalità che i fine settimana hanno avuto per i giovani lavoratori di ogni generazione. Trovare il "cuore" di questo sentimento è un concetto poeticamente ambiguo, che probabilmente costituisce l’attrattiva principale della canzone, perché ciò che non può mai essere veramente trovato, non può nemmeno mai essere veramente perso, quindi la ricerca per trovarlo può dare un senso all’esistenza per tutto il tempo che desideriamo.

Non si tratta, quindi, della cosa che stiamo cercando, ma piuttosto del cercare la cosa. In tal senso, viene immediatamente da pensare a Jack Kerouac e al suo iconico romanzo On The Road, in cui tali concetti sono il fil rouge della narrazione:

“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. - Dove andiamo? - Non lo so, ma dobbiamo andare.”

E ancora:

“Qual è la tua strada amico?… la strada del santo, la strada del pazzo, la strada dell'arcobaleno, la strada dell'imbecille, qualsiasi strada. È una strada in tutte le direzioni per tutti gli uomini in tutti i modi.”

Fu lo stesso Waits a citare Kerouac durante un’intervista alla stazione radio KFPK, presentando la prima esecuzione assoluta del brano. Waits sostenne che la canzone era un tributo ai "Kerouacians", intendendo così i fan del romanziere americano Jack Kerouac. Lo stile sconclusionato e semplice di Kerouac, che a volte incorporava elementi di improvvisazione jazz, conferiva uno splendore mistico agli aspetti più semplici della vita americana. E a parte Charles Bukowski, nessun'altra influenza letteraria è più evidente nel lavoro di Waits, specialmente nei suoi primi lavori.

Se questo è il significato della canzone, si può cercare, allora, di approfondire maggiormente il ragionamento. Perché è evidente un rovescio della medaglia nel concetto di “andare, non importa dove”. La ricerca fine a se stessa, infatti, può diventare un'attività inutile che ci lascia correre in tondo finché un giorno non ci svegliamo e realizziamo che abbiamo sprecato tutta la nostra vita. In The Heart Of Saturday Night non è chiaro quale risultato abbia ottenuto la ricerca del personaggio centrale. Il protagonista della canzone guida per i viali durante un sabato sera, abbracciato alla sua innamorata. Non succede nulla di esplosivo, c’è solo l’attesa di ciò che potrà essere. La canzone è, quindi, il ritratto della vita in tutta la sua mistica semplicità, e le note si srotolano con una placida disinvoltura.

Ti fermi al rosso

Riparti al verde

Perché stanotte sarà qualcosa

Di mai visto prima

E poi corri lungo il viale

Stai cercando il cuore del sabato sera 

 

Poi, all’improvviso, verso la fine del brano, alcuni versi ribaltano completamente la prospettiva:

 

Una lacrima di malinconia scende magica dai tuoi occhi

E fremi fino al midollo

Perché ora sogni di quei sabato che furono

E poi inciampi

Stai inciampando nel cuore del sabato sera

E inciampi

Inciampi nel cuore del sabato sera

 

Non c’è nulla di triste in The Heart Of Saturday Night, che sembra avere solo ed esclusivamente connotati positivi di vitalità. Eppure, il verso è messo lì per una ragione, tanto che all’improvviso il luminoso sentimentalismo della musica inizia ad assumere un'aria cupa. Ecco, dunque, la svolta, la pugnalata al cuore, il momento del dubbio, quello che suggerisce la vacuità di certe esistenze, o, più probabilmente, la sconfitta nel cuore di un giovane, o di una generazione, che non trova uno scopo per vivere. 

Così, alla fine, la canzone sembra riferirsi a coloro che sono intrappolati in una ricerca priva di senso di qualcosa che non li soddisfa. Sta all'ascoltatore decidere.

 


 

 

Blackswan, martedì 17/06/2025

lunedì 16 giugno 2025

OAK - The Third Sleep (Karisma, 2025)

 


 

Tre anni fa, i norvegesi Oak avevano pubblicato The Quiet Rebellion Of Compromise, un disco che, avvolto da una coltre di plumbea tristezza, era finito nel porta gioie degli album più suggestivi e interessanti dell’anno.

The Third Sleep riprende il discorso esattamente da dove si era interrotto il precedente album degli Oak, offrendo un’altra prova di progressive rock molto orecchiabile e densamente melodico. Il lavoro della band suona familiare: passaggi malinconici che traggono chiara ispirazione dai Katatonia e da Steven Wilson sono evidenti ovunque, e si sentono anche accenni ai lati più soft di Opeth e Ulver. Eppure, gli Oak fondono le loro influenze in uno stile inconfondibilmente personale, in parte grazie alla loro abilità nell'intrecciare l'elettronica con un sound prog-rock più classico.

Il cantante Simen Valldal Johannessen possiede un caratteristico ed emotivo baritono che colora la musica di una tonalità più scura, e si cimenta anche con il pianoforte, strumento che gioca un ruolo significativo come principale motore melodico dell'album. Tutto, poi, funziona benissimo, grazie a una band che ha mandato a memoria un formula densa di pregi.

Meditabondo ma dall’anima sottilmente pop, The Third Sleep sviluppa un prog ricco di sfumature, ma che rimane straordinariamente accessibile fin dall'apertura "No Such Place", in cui il riff di chitarra acustica accompagna lo strumming del pianoforte di Johannessen in un dipanarsi sempre più ricco, sorvolato, verso la fine, da un assolo di sax denso di languori.

"Run Into the Sun", avvolta in un manto di traslucida malinconia, è un vero tormentone: il ritornello è contagioso, qualcosa di adatto alla radio, anche se un ascolto più approfondito rivela un'impressionante interazione tra la chitarra solista e la melodia di pianoforte sottostante. Anche "London" possiede un ritornello altrettanto cantabile e decisamente pop, ma incorpora elementi di cupa elettronica, graffi di chitarra ritmica e un drumming decisamente più dinamico e complesso. La strofa del brano è un altro esempio in cui l'esecuzione complessa incontra l'ascoltabilità, con una linea di basso fuzzy vagante e texture di synth che guidano il canto di Johannesen.

Sebbene The Third Sleep si appoggi a strutture di canzoni convenzionali, ogni traccia presenta almeno una lunga deviazione strumentale, spesso di sapore post-rock. Il singolo principale "Shimmer" ne è un esempio lampante: dopo aver seguito principalmente uno schema strofa-ritornello per la prima metà (con delle percussioni davvero fantastiche), il brano si avvia alla conclusione con una coda strumentale di delicate chitarre acustiche, basso, batteria e pianoforte. Poi, l’aggiunta dei synth stratifica pazientemente la trama acustica prima che il tutto si gonfi dolcemente e si risolva.

"Shapeshifter" ricorre a un trucco simile nella seconda metà, ma concentra il pathos su una batteria marziale e un drive di pianoforte cupo e ossessivo. "Borders", invece, possiede un bridge più rumoroso e pesante nel punto centrale, a tratti includendo tastiere distorte e facendo abbondante uso di elettronica. 

La capacità degli Oak di combinare strutture musicali convenzionali con queste esplorazioni strumentali dettagliate e variegate rende The Third Sleep incredibilmente piacevole da ascoltare e abbastanza appagante da meritare di essere rivisitato. Il mix caldo e limpido dell'album contribuisce a fondere il tutto, lasciando ampio spazio a ogni strumento, reale o programmato, per respirare, senza che la proposta risulti sterile.

Nonostante le varie tessiture e la limpida costruzione dell'album, tuttavia, mancano passaggi eccezionalmente memorabili o avvincenti, nessun vero picco. Prevale una bellezza organica, fluida, avvolgente.

L’unica eccezione à la conclusiva, oscura e lunga "Sensory Overload", che chiosa l’album con un assolo di sax cacofonico, in un crescendo destabilizzante che sfocia in un minuto circa di qualcosa al limite del black metal puro: doppia cassa, un riff non lontano da un tremolo annerito e growl demoniaci.

Anche se The Third Sleep non ha, come accennato, momenti così sorprendenti, è decisamente coinvolgente nella sua varietà espressiva e nei suoi dettagli, è splendidamente prodotto, ben eseguito e abbastanza accessibile anche per un pubblico non abituato a confrontarsi con il prog. Qualche incursione nel metal in più renderebbe, a parere di chi scrive, tutto più elettrizzante, ma è questione di gusti. Il disco è ottimo anche così.

Voto: 7,5

Genere: Progressive, Rock 




 

Blackswan, lunedì 16/06/2025

venerdì 13 giugno 2025

Ricky Warwick - Blood Ties (Earache, 2025)

 


Un rocker di razza, uno di quelli duri e puri, insensibili alle mode e coerenti fino all’integralismo, convinto che per scrivere una buona canzone non esiste altro modo se non azzeccare un riff graffiante, un assolo supersonico e un ritornello accattivante. Ricky Warwick è un musicista consumato, con trent’anni di carriera alle spalle, vissuti a capo degli Almighty, quartetto che ha messo a ferro e fuoco gli anni ’90 con un hard rock d’impronta classica (cercatevi almeno quella bomba a mano che porta il nome di Powertrippin’) e nella line up degli storici Thin Lizzy, trasformatisi nel 2013 in Black Star Riders.

Questo Blood Ties, ottavo disco solista che fin dal titolo sottolinea l’indissolubilità del chitarrista con la sua storia e con quell’hard rock di matrice britannica che da sempre è il piatto forte della casa, non tradisce di certo le attese dei tanti fan del musicista nord irlandese.

Descritto come uno degli album più personali che abbia mai realizzato, Blood Ties è un disco attraversato da ottimismo, le cui liriche, semplici ma dirette, parlano di come la propria forza interiore riesca a combattere i demoni personali, rifiutando di farsi risucchiare in un gorgo di tristezza e depressione. In tal senso, l’opener "Angels Of Desolation" apre un immediato spiraglio alla speranza, è un hard rock tirato e arioso, che vanta uno dei migliori ritornelli dell’album e che invita tutti a non mollare di fronte alle difficoltà della vita, ma a rimboccarsi le maniche e reagire con le proprie forze.  

Warwick non si è lasciato sfuggire l’occasione, poi, di avvalersi anche di qualche ospitata di rilievo, come avviene nel rock più cupo, ma non meno elettrizzante, di "Rise And Grind", in cui Charlie Starr dei Blackberry Smoke offre una gran prova alla sei corde, nella successiva "Don’t Leave Me In The Dark", che a dispetto del titolo vede la solare presenza di Lita Ford (Runaways) in un duetto dalla melodia irresistibile, e in "The Hell of Me and You", in cui l’iconico Billy Duffy dei Cult si unisce a Ricky Warwick per un brano che trova il giusto equilibrio tra orecchiabilità e pesantezza e che fa battere il piede dall’inizio alla fine.

In generale, la seconda metà di Blood Ties ha un'atmosfera rock più dinamica, che si ritrova in "Crocodile Tears" e nel ringhio di "Wishing Your Life Away", mentre l’asticella si alza ulteriormente nella conclusiva "The Town That Didn't Stare", un altro esempio di come costruire una buona canzone rock, tra melodia di facile presa e volute di polvere sollevate dalla strada.

Sebbene la produzione sia levigata e manchi un po’ di sporco sotto le unghie, Warwick allestisce una scaletta compatta che si nutre della consueta autenticità e di quella passione di fondo che fa da collante tra momenti più morbidi e sferzante rock’n’roll. E anche se manca la canzone che fa girar la testa, l’ascolto fila via liscio e divertito, rendendo omaggio a tutti quei rocker che sentono indissolubile il legame di sangue con il proprio background musicale.

Voto: 7

Genere: Rock 




Blackswan, venerdì 13/06/2025

giovedì 12 giugno 2025

Billy Idol - Dream Into It (Dark Horse Records, 2025)

 


Quella di Billy Idol è una storia lunga quasi cinquant’anni. Roba da boomer, da nostalgici degli anni ’80. Reclutato nel 1976 in quelli che in futuro si sarebbero chiamati Siouxie And The Banshees, frontman della band punk rock dei Generation X, Idol ha vissuto il movimento punk in prima persona, ma sempre defilato, preferendo all’urgenza e agli assalti iconoclasti del movimento un approccio meno violento, più classicamente legato al rock e al pop.

Una formula che fu la sua fortuna, quando scioltisi i Generation X, iniziò una proficua carriera solista, sfornando, uno via l’altro, autentici tormentoni che hanno attraversato tutto il decennio, piazzandosi nelle parti alte delle classifiche di mezzo mondo: "Rebel Yell", "Flesh For Fantasy", "Eyes without A Face", "Mony, Mony", solo per citarne alcuni. Poi, la sua carriera ha alternato alti e bassi: un grave incidente stradale, il successo di Charmed Life (1990), la depressione, l’abuso di droghe, lo sperimentale e sottovalutato Cyberpunk (1993), collaborazioni importanti (The Who) e una serie di apparizioni sul grande schermo (The Doors di Oliver Stone). Il ritorno sulle scene nel 2005 con tre album di modesto successo, e poi un lungo iato (con l’eccezione di un paio di EP tra il 2021 e il 2022) conclusosi con questo Deam Into It, primo disco sulla lunga distanza da undici anni a questa parte.

Un lavoro, quest’ultimo, che non rinnega la formula vincente di un pop rock orecchiabile, in cui il punk, come quasi sempre nella carriera di Idol, è relegato negli atteggiamenti e nello sguardo da duro, più che nella sostanza. Dream Into It è un disco studiato a tavolino per cercare il punto esatto di fusione fra moderno e nostalgia anni '80, elemento preponderante in un artista che giunto alla soglia dei settanta, non può non guardarsi indietro e fare un bilancio di ciò che è stato.

In tal senso, la canzone più esplicita è la conclusiva "Still Dancing", che cita, quasi clonandola, la sua celebre "Dancing With My Self": un brano che riflette sul tempo che passa, senza tuttavia intaccare la voglia di sentirsi ancora vivo, senza rimpianti, orgoglioso del proprio cammino (“È stato un lungo viaggio, ma il viaggio è tutto ciò che conosco”).

C’è molto mestiere in Dream Into It, come emerge dagli arrangiamenti eleganti (ma a volte un pochino invasivi) e dall’abilità di andare alla ricerca del ritornello da mandare a memoria fin dal primo ascolto. Un giochino che riesce bene in "Gimme The Weight" (con quell’irresistibile riff di chitarra a la Smiths), nella ballata "I’m Your Hero" e nel retrogusto a la Simple Minds della title track, probabilmente il brano più riuscito del lotto.

Anche la più tirata "Too Much Fun" è un brano riuscito così come "People I Love" (splendido il suono di chitarra), due brani che racchiudono alla perfezione l’Idol pensiero, ma che hanno l’unico difetto di essere prevedibili come un piatto di pastina. In scaletta anche tre duetti con nomi importanti del rock al femminile. Il primo, "77", con Avril Lavigne, è un pop punk abbastanza banale, mentre "Wildside" insieme a Joan Jett è un midtempo in cui la melodia, anche se un po’ troppo telefonata, risulta comunque vincente. Il meglio arriva con "John Wayne", canzone che idol condivide con Alison Mosshart (conturbante leader dei Kills), trovando un equilibrio perfetto tra due voci che si fondono in un mix di malinconia e ruvido struggimento.

Un ultima citazione a Steve Stevens, storico chitarrista da sempre alla corte di Idol, che regala una prova capace di mettere le toppe a un disco non all’altezza della fama di Idol, ma abbastanza buono da tener lontano ancora per un po’ lo stauts di pensionato.

Voto: 6,5

Genere: Pop, Rock

 


 

 

Blackswan, giovedì 12/06/2025

mercoledì 11 giugno 2025

Changes - Black Sabbath (Vertigo, 1972)

 


Un suono decisamente soft, una melodia struggente, un testo nostalgico e malinconico. Strano a dirsi, ma questa splendida ballata che porta il nome di Changes è stata scritta dai Black Sabbath, band nota per aver tracciato la strada dell’heavy rock grazie a canzoni memorabili come Paranoid, War Pigs e Iron Man, solo per citare tre dei brani più famosi del loro repertorio.

Tuttavia, se è indubbio che i pezzi più pesanti sono quelli che li connettono alla loro fanbase e costituiscono la maggior parte dei loro singoli di successo, è altrettanto vero che la band, talvolta, amava anche sperimentare, esplorando territori lontanissimi dalla propria sensibilità musicale (un esempio per tutti, Air Dance, sesta traccia dal loro ottavo album, Never Say Die!, che si accosta a sonorità jazz).

Quando incisero il brano, i Sabbath erano consapevoli di andare controcorrente e che il rischio fosse quello di scontentare i loro fan storici, ma il pezzo era talmente bello, che accantonarlo sarebbe stata una vera e propria eresia.

La canzone fu scritta dal bassista del gruppo, Geezer Butler, ispirandosi al momento difficile che stava vivendo l’amico e batterista Bill Ward, il quale era alle prese con un tormentato divorzio dalla moglie. Changes è, dunque, una canzone sull’amore che collassa, il cui testo basilare, ma efficacissimo, trabocca di dolore e di rimpianto.

 

Mi sento infelice

Mi sento così triste

Ho perso la migliore amica

Che io abbia mai avuto

Era la mia donna

L'amavo così tanto

Ma ormai è troppo tardi

 

Strano a dirsi, ma Bill Ward, il cui matrimonio in rovina ha ispirato la canzone, non l'ha suonata, perché il brano non prevedeva l’utilizzo della batteria. Lo strumento principale è il pianoforte, suonato dal chitarrista dei Sabbath Tony Iommi, mentre il drone in sottofondo che suona come una sezione d'archi è in realtà un Mellotron, che è essenzialmente un campionatore basato su nastro. In questo caso veniva utilizzato per riprodurre i suoni degli strumenti a corda, come già avevano fatto i Beatles per l’intro di Strawberry Fields Forever.

Changes fa parte del quarto album dei Black Sabbath, intitolato semplicemente Vol. 4. L'album fu pubblicato nel 1972, quando la band era all’apice del successo, grazie a un massacrante tour de force di concerti, che li portò ad avere un nutrito seguito sia nel regno Unito che negli Stati Uniti, dove, peraltro, l’album fu registrato (ai Record Plant di Los Angeles), durante sessioni in cui i quattro facevano uso smodato di cocaina, una dipendenza che finì per esacerbare gli animi dei componenti e aprire le porte alla parabola discendente della loro carriera. La canzone, una ventina di anni dopo (nel 2003), ha vissuto una seconda vita e ha ritrovato un inaspettato successo, quando Ozzy Osbourne e sua figlia Kelly l’hanno trasformata in un duetto in cui la bambina di papà, diventata ormai grande, abbandona la famiglia per percorrere la propria strada.

 

Kelly:

Ti amo papà

Ma ho trovato la mia strada

 

Ozzy:

La mia bambina è cresciuta adesso

Ha trovato la sua strada

 

Incredibile ma vero, questa versione balzò alla prima piazza delle classifiche del Regno Unito, una posizione mai registrata da nessuna canzone dei Black Sabbath o di Ozzy Osbourne solista.

Nel 2013, il compianto e straordinario cantante soul Charles Bradley realizzò una cover intensissima di Changes, che Geezer Butler definì la migliore interpretazione di una canzone dei Black Sabbath di sempre.  




Blackswan, mercoledì 11/06/2025

lunedì 9 giugno 2025

Skunk Anansie - The Painful Truth (FLG Records, 2025)

 


Chi ha buona memoria, se lo ricorda. C’è stato un tempo, era la seconda metà degli anni ’90, in cui il nome degli Skunk Anansie era sulla bocca di tutti, grazie a tre album strepitosi (Paranoid & Sunburnt, Stoosh e il leggendario Post Orgasmic Chill) e a una miscela ribollente di punk, rock, heavy, funk, blues e reggae, tenuti insieme da un rabbioso approccio politico e femminista.

Poi, lo scioglimento, i lavori solisti, la reunion, il declino commerciale, e un nuovo lungo iato durato la bellezza di nove anni, un tempo abbastanza lungo da ingenerare dubbi su questo nuovo The Painful Truth.

Cosa aspettarsi da una band con trent’anni di carriera alle spalle, i cui dischi migliori risalgono a ben cinque decenni fa? Operazione commerciale? Rimescolamento di vecchie idee privo di creatività? Oppure un album vitale, ispirato e fresco, a cui la lunga pausa ha donato nuova energia e vitalità? Perché, diciamocelo, quel suono vincente, quell’unicum, perchè di unicum si trattava, che aveva fatto scalare alla band le classifiche di mezzo mondo, non è proprio facile da rigenerare, soprattutto se decontestualizzato da un’epoca in cui tutti si abbeveravano alla fonte del crossover.

Riuniti in una fattoria del Devonshire, luogo di riconnessione e di grande speranze, Skin e soci ce l’hanno fatta, hanno rimescolato l'attitudine punk, le melodie rock trascinanti e l'incredibile voce della frontwoman, arrangiando il tutto attraverso il filtro di una visione moderna, fresca ed elettrizzante. Elementi riconoscibili, quindi, ma un suono diversamente agghindato, a cui non manca la stessa urgenza emotiva dei giorni di gloria.

Fin dalle tensione ansiogena dell’opener "An Artist Is An Artist", le scintille volano in un miliardo di direzioni diverse contemporaneamente e il cuore batte a mille per quella che è una lectio magistrale su come costruire una perfetta canzone new wave innervata di punk, senza pasticciare come fanno decine di giovani band celebrate senza motivo dalle riviste che piacciono alla gente che piace. Un brano tanto respingente quanto accattivante, crudo e nevrotico, in cui Skin ringhia con aria di sfida “Non sono rimasta qui per essere la mia eco!”. Una canzone che non solo ti invita a entrare nel nuovo mondo Skunke Anansie, ma che letteralmente sfonda le porte e ghermisce l’ascoltatore spingendolo ad ascoltare senza sosta una scaletta di canzoni che non fa prigionieri.

Un’elettronica scorbutica accerchia l’incredibile ritornello di "This Is Not Your Life", melodia che rispecchia la genetica di una band che su queste meraviglie ha costruito le vette del proprio successo. Il gruppo è in palla, l’unità d’intenti è un caterpillar che asfalta il cammino per la voce di Skin, incredibilmente suggestiva nonostante eviti il virtuosismo, mettendosi semmai al servizio della musica, come parte del tutto e non solo come apice emotivo.

Non c’è un momento che non conquisti fin dal primo ascolto, si tratti di illanguidire l’anima con "Shame", ballata oscura e dal cuore vulnerabile, o di fondere con visionaria lucidità tensione new wave e alt rock di matrice ‘90 come accade nella travolgente "Cheers", una canzone che in un mondo più giusto congelerebbe nel loop ogni passaggio radiofonico del pianeta terra.

"Shoulda Been You" sfoggia un'atmosfera brixtoniana con la sua inebriante freschezza dub-reggae, roba da Police d’annata, e se in "Feel In Love" esplode la componente funky tanto cara alla band, preparando il tripudio di un ritornello che è un’impresa levarsi dalla testa, "My Greatest Moment", attraverso la sua elettronica roboante, crea un trompe l’oeil dietro quale si cela una delle melodie più contagiose del disco.

Chiude il sipario "Meltdown", ballata superlativa, a riprova del fatto che a Skin bastano solo un pianoforte elettrico e la sua straordinaria voce per spappolare il cuore di chi ascolta. Ancora una volta è la melodia a fare centro, qui con abiti francescani, altrove in un contesto strumentale più ambizioso e strutturato.

Ciò che resta di queste dieci canzoni è la sensazione di una band che ha saputo ritrovare il bandolo della matassa con la capacità che solo i grandi hanno di mantenere fede al proprio credo, aggiornandolo al tempo presente. Skin dice che The Painful Truth è il miglior disco degli Skunk Anansie di sempre, e se non fosse che la nostalgia tiene stretto vicino al cuore Post Orgasmic Chill, mi verrebbe voglia di darle ragione. Un esaltante ritorno.

Voto: 8.5

Genere: Rock

 


 

 

Blackswan, lunedì 09/06/2025