martedì 17 giugno 2025

(Looking For) The Heart Of Saturday Night - Tom Waits (Asylum, 1974)

 


Questa è la sesta e ultima traccia del lato A di The Heart Of Saturday Night, secondo disco in studio di Tom Waits, pubblicato nell’ottobre del 1974. La canzone, se si dà un’occhiata alla scaletta, risulta essere speculare a Ghosts Of Saturday Night, che è la traccia finale dell'album. Questa collocazione non è stata casuale, dato che Heart vede Waits alla ricerca del cuore del sabato sera, mentre Ghosts lo vede spazzare via i suoi resti. Entrambe le canzoni, poi, hanno parte del titolo tra parentesi tra parentesi (nessuna delle altre nove canzoni dell'album li ha): (Looking For) The Heart of Saturday Night e The Ghosts of Saturday Night (After Hours at Napoleone's Pizza House).

Il brano è il racconto in terza persona di un giovane che guida nelle vie della città alla ricerca del cuore del sabato sera, attraverso il quale Waits sembra significare l'essenza della vitalità che i fine settimana hanno avuto per i giovani lavoratori di ogni generazione. Trovare il "cuore" di questo sentimento è un concetto poeticamente ambiguo, che probabilmente costituisce l’attrattiva principale della canzone, perché ciò che non può mai essere veramente trovato, non può nemmeno mai essere veramente perso, quindi la ricerca per trovarlo può dare un senso all’esistenza per tutto il tempo che desideriamo.

Non si tratta, quindi, della cosa che stiamo cercando, ma piuttosto del cercare la cosa. In tal senso, viene immediatamente da pensare a Jack Kerouac e al suo iconico romanzo On The Road, in cui tali concetti sono il fil rouge della narrazione:

“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. - Dove andiamo? - Non lo so, ma dobbiamo andare.”

E ancora:

“Qual è la tua strada amico?… la strada del santo, la strada del pazzo, la strada dell'arcobaleno, la strada dell'imbecille, qualsiasi strada. È una strada in tutte le direzioni per tutti gli uomini in tutti i modi.”

Fu lo stesso Waits a citare Kerouac durante un’intervista alla stazione radio KFPK, presentando la prima esecuzione assoluta del brano. Waits sostenne che la canzone era un tributo ai "Kerouacians", intendendo così i fan del romanziere americano Jack Kerouac. Lo stile sconclusionato e semplice di Kerouac, che a volte incorporava elementi di improvvisazione jazz, conferiva uno splendore mistico agli aspetti più semplici della vita americana. E a parte Charles Bukowski, nessun'altra influenza letteraria è più evidente nel lavoro di Waits, specialmente nei suoi primi lavori.

Se questo è il significato della canzone, si può cercare, allora, di approfondire maggiormente il ragionamento. Perché è evidente un rovescio della medaglia nel concetto di “andare, non importa dove”. La ricerca fine a se stessa, infatti, può diventare un'attività inutile che ci lascia correre in tondo finché un giorno non ci svegliamo e realizziamo che abbiamo sprecato tutta la nostra vita. In The Heart Of Saturday Night non è chiaro quale risultato abbia ottenuto la ricerca del personaggio centrale. Il protagonista della canzone guida per i viali durante un sabato sera, abbracciato alla sua innamorata. Non succede nulla di esplosivo, c’è solo l’attesa di ciò che potrà essere. La canzone è, quindi, il ritratto della vita in tutta la sua mistica semplicità, e le note si srotolano con una placida disinvoltura.

Ti fermi al rosso

Riparti al verde

Perché stanotte sarà qualcosa

Di mai visto prima

E poi corri lungo il viale

Stai cercando il cuore del sabato sera 

 

Poi, all’improvviso, verso la fine del brano, alcuni versi ribaltano completamente la prospettiva:

 

Una lacrima di malinconia scende magica dai tuoi occhi

E fremi fino al midollo

Perché ora sogni di quei sabato che furono

E poi inciampi

Stai inciampando nel cuore del sabato sera

E inciampi

Inciampi nel cuore del sabato sera

 

Non c’è nulla di triste in The Heart Of Saturday Night, che sembra avere solo ed esclusivamente connotati positivi di vitalità. Eppure, il verso è messo lì per una ragione, tanto che all’improvviso il luminoso sentimentalismo della musica inizia ad assumere un'aria cupa. Ecco, dunque, la svolta, la pugnalata al cuore, il momento del dubbio, quello che suggerisce la vacuità di certe esistenze, o, più probabilmente, la sconfitta nel cuore di un giovane, o di una generazione, che non trova uno scopo per vivere. 

Così, alla fine, la canzone sembra riferirsi a coloro che sono intrappolati in una ricerca priva di senso di qualcosa che non li soddisfa. Sta all'ascoltatore decidere.

 


 

 

Blackswan, martedì 17/06/2025

lunedì 16 giugno 2025

OAK - The Third Sleep (Karisma, 2025)

 


 

Tre anni fa, i norvegesi Oak avevano pubblicato The Quiet Rebellion Of Compromise, un disco che, avvolto da una coltre di plumbea tristezza, era finito nel porta gioie degli album più suggestivi e interessanti dell’anno.

The Third Sleep riprende il discorso esattamente da dove si era interrotto il precedente album degli Oak, offrendo un’altra prova di progressive rock molto orecchiabile e densamente melodico. Il lavoro della band suona familiare: passaggi malinconici che traggono chiara ispirazione dai Katatonia e da Steven Wilson sono evidenti ovunque, e si sentono anche accenni ai lati più soft di Opeth e Ulver. Eppure, gli Oak fondono le loro influenze in uno stile inconfondibilmente personale, in parte grazie alla loro abilità nell'intrecciare l'elettronica con un sound prog-rock più classico.

Il cantante Simen Valldal Johannessen possiede un caratteristico ed emotivo baritono che colora la musica di una tonalità più scura, e si cimenta anche con il pianoforte, strumento che gioca un ruolo significativo come principale motore melodico dell'album. Tutto, poi, funziona benissimo, grazie a una band che ha mandato a memoria un formula densa di pregi.

Meditabondo ma dall’anima sottilmente pop, The Third Sleep sviluppa un prog ricco di sfumature, ma che rimane straordinariamente accessibile fin dall'apertura "No Such Place", in cui il riff di chitarra acustica accompagna lo strumming del pianoforte di Johannessen in un dipanarsi sempre più ricco, sorvolato, verso la fine, da un assolo di sax denso di languori.

"Run Into the Sun", avvolta in un manto di traslucida malinconia, è un vero tormentone: il ritornello è contagioso, qualcosa di adatto alla radio, anche se un ascolto più approfondito rivela un'impressionante interazione tra la chitarra solista e la melodia di pianoforte sottostante. Anche "London" possiede un ritornello altrettanto cantabile e decisamente pop, ma incorpora elementi di cupa elettronica, graffi di chitarra ritmica e un drumming decisamente più dinamico e complesso. La strofa del brano è un altro esempio in cui l'esecuzione complessa incontra l'ascoltabilità, con una linea di basso fuzzy vagante e texture di synth che guidano il canto di Johannesen.

Sebbene The Third Sleep si appoggi a strutture di canzoni convenzionali, ogni traccia presenta almeno una lunga deviazione strumentale, spesso di sapore post-rock. Il singolo principale "Shimmer" ne è un esempio lampante: dopo aver seguito principalmente uno schema strofa-ritornello per la prima metà (con delle percussioni davvero fantastiche), il brano si avvia alla conclusione con una coda strumentale di delicate chitarre acustiche, basso, batteria e pianoforte. Poi, l’aggiunta dei synth stratifica pazientemente la trama acustica prima che il tutto si gonfi dolcemente e si risolva.

"Shapeshifter" ricorre a un trucco simile nella seconda metà, ma concentra il pathos su una batteria marziale e un drive di pianoforte cupo e ossessivo. "Borders", invece, possiede un bridge più rumoroso e pesante nel punto centrale, a tratti includendo tastiere distorte e facendo abbondante uso di elettronica. 

La capacità degli Oak di combinare strutture musicali convenzionali con queste esplorazioni strumentali dettagliate e variegate rende The Third Sleep incredibilmente piacevole da ascoltare e abbastanza appagante da meritare di essere rivisitato. Il mix caldo e limpido dell'album contribuisce a fondere il tutto, lasciando ampio spazio a ogni strumento, reale o programmato, per respirare, senza che la proposta risulti sterile.

Nonostante le varie tessiture e la limpida costruzione dell'album, tuttavia, mancano passaggi eccezionalmente memorabili o avvincenti, nessun vero picco. Prevale una bellezza organica, fluida, avvolgente.

L’unica eccezione à la conclusiva, oscura e lunga "Sensory Overload", che chiosa l’album con un assolo di sax cacofonico, in un crescendo destabilizzante che sfocia in un minuto circa di qualcosa al limite del black metal puro: doppia cassa, un riff non lontano da un tremolo annerito e growl demoniaci.

Anche se The Third Sleep non ha, come accennato, momenti così sorprendenti, è decisamente coinvolgente nella sua varietà espressiva e nei suoi dettagli, è splendidamente prodotto, ben eseguito e abbastanza accessibile anche per un pubblico non abituato a confrontarsi con il prog. Qualche incursione nel metal in più renderebbe, a parere di chi scrive, tutto più elettrizzante, ma è questione di gusti. Il disco è ottimo anche così.

Voto: 7,5

Genere: Progressive, Rock 




 

Blackswan, lunedì 16/06/2025

venerdì 13 giugno 2025

Ricky Warwick - Blood Ties (Earache, 2025)

 


Un rocker di razza, uno di quelli duri e puri, insensibili alle mode e coerenti fino all’integralismo, convinto che per scrivere una buona canzone non esiste altro modo se non azzeccare un riff graffiante, un assolo supersonico e un ritornello accattivante. Ricky Warwick è un musicista consumato, con trent’anni di carriera alle spalle, vissuti a capo degli Almighty, quartetto che ha messo a ferro e fuoco gli anni ’90 con un hard rock d’impronta classica (cercatevi almeno quella bomba a mano che porta il nome di Powertrippin’) e nella line up degli storici Thin Lizzy, trasformatisi nel 2013 in Black Star Riders.

Questo Blood Ties, ottavo disco solista che fin dal titolo sottolinea l’indissolubilità del chitarrista con la sua storia e con quell’hard rock di matrice britannica che da sempre è il piatto forte della casa, non tradisce di certo le attese dei tanti fan del musicista nord irlandese.

Descritto come uno degli album più personali che abbia mai realizzato, Blood Ties è un disco attraversato da ottimismo, le cui liriche, semplici ma dirette, parlano di come la propria forza interiore riesca a combattere i demoni personali, rifiutando di farsi risucchiare in un gorgo di tristezza e depressione. In tal senso, l’opener "Angels Of Desolation" apre un immediato spiraglio alla speranza, è un hard rock tirato e arioso, che vanta uno dei migliori ritornelli dell’album e che invita tutti a non mollare di fronte alle difficoltà della vita, ma a rimboccarsi le maniche e reagire con le proprie forze.  

Warwick non si è lasciato sfuggire l’occasione, poi, di avvalersi anche di qualche ospitata di rilievo, come avviene nel rock più cupo, ma non meno elettrizzante, di "Rise And Grind", in cui Charlie Starr dei Blackberry Smoke offre una gran prova alla sei corde, nella successiva "Don’t Leave Me In The Dark", che a dispetto del titolo vede la solare presenza di Lita Ford (Runaways) in un duetto dalla melodia irresistibile, e in "The Hell of Me and You", in cui l’iconico Billy Duffy dei Cult si unisce a Ricky Warwick per un brano che trova il giusto equilibrio tra orecchiabilità e pesantezza e che fa battere il piede dall’inizio alla fine.

In generale, la seconda metà di Blood Ties ha un'atmosfera rock più dinamica, che si ritrova in "Crocodile Tears" e nel ringhio di "Wishing Your Life Away", mentre l’asticella si alza ulteriormente nella conclusiva "The Town That Didn't Stare", un altro esempio di come costruire una buona canzone rock, tra melodia di facile presa e volute di polvere sollevate dalla strada.

Sebbene la produzione sia levigata e manchi un po’ di sporco sotto le unghie, Warwick allestisce una scaletta compatta che si nutre della consueta autenticità e di quella passione di fondo che fa da collante tra momenti più morbidi e sferzante rock’n’roll. E anche se manca la canzone che fa girar la testa, l’ascolto fila via liscio e divertito, rendendo omaggio a tutti quei rocker che sentono indissolubile il legame di sangue con il proprio background musicale.

Voto: 7

Genere: Rock 




Blackswan, venerdì 13/06/2025

giovedì 12 giugno 2025

Billy Idol - Dream Into It (Dark Horse Records, 2025)

 


Quella di Billy Idol è una storia lunga quasi cinquant’anni. Roba da boomer, da nostalgici degli anni ’80. Reclutato nel 1976 in quelli che in futuro si sarebbero chiamati Siouxie And The Banshees, frontman della band punk rock dei Generation X, Idol ha vissuto il movimento punk in prima persona, ma sempre defilato, preferendo all’urgenza e agli assalti iconoclasti del movimento un approccio meno violento, più classicamente legato al rock e al pop.

Una formula che fu la sua fortuna, quando scioltisi i Generation X, iniziò una proficua carriera solista, sfornando, uno via l’altro, autentici tormentoni che hanno attraversato tutto il decennio, piazzandosi nelle parti alte delle classifiche di mezzo mondo: "Rebel Yell", "Flesh For Fantasy", "Eyes without A Face", "Mony, Mony", solo per citarne alcuni. Poi, la sua carriera ha alternato alti e bassi: un grave incidente stradale, il successo di Charmed Life (1990), la depressione, l’abuso di droghe, lo sperimentale e sottovalutato Cyberpunk (1993), collaborazioni importanti (The Who) e una serie di apparizioni sul grande schermo (The Doors di Oliver Stone). Il ritorno sulle scene nel 2005 con tre album di modesto successo, e poi un lungo iato (con l’eccezione di un paio di EP tra il 2021 e il 2022) conclusosi con questo Deam Into It, primo disco sulla lunga distanza da undici anni a questa parte.

Un lavoro, quest’ultimo, che non rinnega la formula vincente di un pop rock orecchiabile, in cui il punk, come quasi sempre nella carriera di Idol, è relegato negli atteggiamenti e nello sguardo da duro, più che nella sostanza. Dream Into It è un disco studiato a tavolino per cercare il punto esatto di fusione fra moderno e nostalgia anni '80, elemento preponderante in un artista che giunto alla soglia dei settanta, non può non guardarsi indietro e fare un bilancio di ciò che è stato.

In tal senso, la canzone più esplicita è la conclusiva "Still Dancing", che cita, quasi clonandola, la sua celebre "Dancing With My Self": un brano che riflette sul tempo che passa, senza tuttavia intaccare la voglia di sentirsi ancora vivo, senza rimpianti, orgoglioso del proprio cammino (“È stato un lungo viaggio, ma il viaggio è tutto ciò che conosco”).

C’è molto mestiere in Dream Into It, come emerge dagli arrangiamenti eleganti (ma a volte un pochino invasivi) e dall’abilità di andare alla ricerca del ritornello da mandare a memoria fin dal primo ascolto. Un giochino che riesce bene in "Gimme The Weight" (con quell’irresistibile riff di chitarra a la Smiths), nella ballata "I’m Your Hero" e nel retrogusto a la Simple Minds della title track, probabilmente il brano più riuscito del lotto.

Anche la più tirata "Too Much Fun" è un brano riuscito così come "People I Love" (splendido il suono di chitarra), due brani che racchiudono alla perfezione l’Idol pensiero, ma che hanno l’unico difetto di essere prevedibili come un piatto di pastina. In scaletta anche tre duetti con nomi importanti del rock al femminile. Il primo, "77", con Avril Lavigne, è un pop punk abbastanza banale, mentre "Wildside" insieme a Joan Jett è un midtempo in cui la melodia, anche se un po’ troppo telefonata, risulta comunque vincente. Il meglio arriva con "John Wayne", canzone che idol condivide con Alison Mosshart (conturbante leader dei Kills), trovando un equilibrio perfetto tra due voci che si fondono in un mix di malinconia e ruvido struggimento.

Un ultima citazione a Steve Stevens, storico chitarrista da sempre alla corte di Idol, che regala una prova capace di mettere le toppe a un disco non all’altezza della fama di Idol, ma abbastanza buono da tener lontano ancora per un po’ lo stauts di pensionato.

Voto: 6,5

Genere: Pop, Rock

 


 

 

Blackswan, giovedì 12/06/2025

mercoledì 11 giugno 2025

Changes - Black Sabbath (Vertigo, 1972)

 


Un suono decisamente soft, una melodia struggente, un testo nostalgico e malinconico. Strano a dirsi, ma questa splendida ballata che porta il nome di Changes è stata scritta dai Black Sabbath, band nota per aver tracciato la strada dell’heavy rock grazie a canzoni memorabili come Paranoid, War Pigs e Iron Man, solo per citare tre dei brani più famosi del loro repertorio.

Tuttavia, se è indubbio che i pezzi più pesanti sono quelli che li connettono alla loro fanbase e costituiscono la maggior parte dei loro singoli di successo, è altrettanto vero che la band, talvolta, amava anche sperimentare, esplorando territori lontanissimi dalla propria sensibilità musicale (un esempio per tutti, Air Dance, sesta traccia dal loro ottavo album, Never Say Die!, che si accosta a sonorità jazz).

Quando incisero il brano, i Sabbath erano consapevoli di andare controcorrente e che il rischio fosse quello di scontentare i loro fan storici, ma il pezzo era talmente bello, che accantonarlo sarebbe stata una vera e propria eresia.

La canzone fu scritta dal bassista del gruppo, Geezer Butler, ispirandosi al momento difficile che stava vivendo l’amico e batterista Bill Ward, il quale era alle prese con un tormentato divorzio dalla moglie. Changes è, dunque, una canzone sull’amore che collassa, il cui testo basilare, ma efficacissimo, trabocca di dolore e di rimpianto.

 

Mi sento infelice

Mi sento così triste

Ho perso la migliore amica

Che io abbia mai avuto

Era la mia donna

L'amavo così tanto

Ma ormai è troppo tardi

 

Strano a dirsi, ma Bill Ward, il cui matrimonio in rovina ha ispirato la canzone, non l'ha suonata, perché il brano non prevedeva l’utilizzo della batteria. Lo strumento principale è il pianoforte, suonato dal chitarrista dei Sabbath Tony Iommi, mentre il drone in sottofondo che suona come una sezione d'archi è in realtà un Mellotron, che è essenzialmente un campionatore basato su nastro. In questo caso veniva utilizzato per riprodurre i suoni degli strumenti a corda, come già avevano fatto i Beatles per l’intro di Strawberry Fields Forever.

Changes fa parte del quarto album dei Black Sabbath, intitolato semplicemente Vol. 4. L'album fu pubblicato nel 1972, quando la band era all’apice del successo, grazie a un massacrante tour de force di concerti, che li portò ad avere un nutrito seguito sia nel regno Unito che negli Stati Uniti, dove, peraltro, l’album fu registrato (ai Record Plant di Los Angeles), durante sessioni in cui i quattro facevano uso smodato di cocaina, una dipendenza che finì per esacerbare gli animi dei componenti e aprire le porte alla parabola discendente della loro carriera. La canzone, una ventina di anni dopo (nel 2003), ha vissuto una seconda vita e ha ritrovato un inaspettato successo, quando Ozzy Osbourne e sua figlia Kelly l’hanno trasformata in un duetto in cui la bambina di papà, diventata ormai grande, abbandona la famiglia per percorrere la propria strada.

 

Kelly:

Ti amo papà

Ma ho trovato la mia strada

 

Ozzy:

La mia bambina è cresciuta adesso

Ha trovato la sua strada

 

Incredibile ma vero, questa versione balzò alla prima piazza delle classifiche del Regno Unito, una posizione mai registrata da nessuna canzone dei Black Sabbath o di Ozzy Osbourne solista.

Nel 2013, il compianto e straordinario cantante soul Charles Bradley realizzò una cover intensissima di Changes, che Geezer Butler definì la migliore interpretazione di una canzone dei Black Sabbath di sempre.  




Blackswan, mercoledì 11/06/2025

lunedì 9 giugno 2025

Skunk Anansie - The Painful Truth (FLG Records, 2025)

 


Chi ha buona memoria, se lo ricorda. C’è stato un tempo, era la seconda metà degli anni ’90, in cui il nome degli Skunk Anansie era sulla bocca di tutti, grazie a tre album strepitosi (Paranoid & Sunburnt, Stoosh e il leggendario Post Orgasmic Chill) e a una miscela ribollente di punk, rock, heavy, funk, blues e reggae, tenuti insieme da un rabbioso approccio politico e femminista.

Poi, lo scioglimento, i lavori solisti, la reunion, il declino commerciale, e un nuovo lungo iato durato la bellezza di nove anni, un tempo abbastanza lungo da ingenerare dubbi su questo nuovo The Painful Truth.

Cosa aspettarsi da una band con trent’anni di carriera alle spalle, i cui dischi migliori risalgono a ben cinque decenni fa? Operazione commerciale? Rimescolamento di vecchie idee privo di creatività? Oppure un album vitale, ispirato e fresco, a cui la lunga pausa ha donato nuova energia e vitalità? Perché, diciamocelo, quel suono vincente, quell’unicum, perchè di unicum si trattava, che aveva fatto scalare alla band le classifiche di mezzo mondo, non è proprio facile da rigenerare, soprattutto se decontestualizzato da un’epoca in cui tutti si abbeveravano alla fonte del crossover.

Riuniti in una fattoria del Devonshire, luogo di riconnessione e di grande speranze, Skin e soci ce l’hanno fatta, hanno rimescolato l'attitudine punk, le melodie rock trascinanti e l'incredibile voce della frontwoman, arrangiando il tutto attraverso il filtro di una visione moderna, fresca ed elettrizzante. Elementi riconoscibili, quindi, ma un suono diversamente agghindato, a cui non manca la stessa urgenza emotiva dei giorni di gloria.

Fin dalle tensione ansiogena dell’opener "An Artist Is An Artist", le scintille volano in un miliardo di direzioni diverse contemporaneamente e il cuore batte a mille per quella che è una lectio magistrale su come costruire una perfetta canzone new wave innervata di punk, senza pasticciare come fanno decine di giovani band celebrate senza motivo dalle riviste che piacciono alla gente che piace. Un brano tanto respingente quanto accattivante, crudo e nevrotico, in cui Skin ringhia con aria di sfida “Non sono rimasta qui per essere la mia eco!”. Una canzone che non solo ti invita a entrare nel nuovo mondo Skunke Anansie, ma che letteralmente sfonda le porte e ghermisce l’ascoltatore spingendolo ad ascoltare senza sosta una scaletta di canzoni che non fa prigionieri.

Un’elettronica scorbutica accerchia l’incredibile ritornello di "This Is Not Your Life", melodia che rispecchia la genetica di una band che su queste meraviglie ha costruito le vette del proprio successo. Il gruppo è in palla, l’unità d’intenti è un caterpillar che asfalta il cammino per la voce di Skin, incredibilmente suggestiva nonostante eviti il virtuosismo, mettendosi semmai al servizio della musica, come parte del tutto e non solo come apice emotivo.

Non c’è un momento che non conquisti fin dal primo ascolto, si tratti di illanguidire l’anima con "Shame", ballata oscura e dal cuore vulnerabile, o di fondere con visionaria lucidità tensione new wave e alt rock di matrice ‘90 come accade nella travolgente "Cheers", una canzone che in un mondo più giusto congelerebbe nel loop ogni passaggio radiofonico del pianeta terra.

"Shoulda Been You" sfoggia un'atmosfera brixtoniana con la sua inebriante freschezza dub-reggae, roba da Police d’annata, e se in "Feel In Love" esplode la componente funky tanto cara alla band, preparando il tripudio di un ritornello che è un’impresa levarsi dalla testa, "My Greatest Moment", attraverso la sua elettronica roboante, crea un trompe l’oeil dietro quale si cela una delle melodie più contagiose del disco.

Chiude il sipario "Meltdown", ballata superlativa, a riprova del fatto che a Skin bastano solo un pianoforte elettrico e la sua straordinaria voce per spappolare il cuore di chi ascolta. Ancora una volta è la melodia a fare centro, qui con abiti francescani, altrove in un contesto strumentale più ambizioso e strutturato.

Ciò che resta di queste dieci canzoni è la sensazione di una band che ha saputo ritrovare il bandolo della matassa con la capacità che solo i grandi hanno di mantenere fede al proprio credo, aggiornandolo al tempo presente. Skin dice che The Painful Truth è il miglior disco degli Skunk Anansie di sempre, e se non fosse che la nostalgia tiene stretto vicino al cuore Post Orgasmic Chill, mi verrebbe voglia di darle ragione. Un esaltante ritorno.

Voto: 8.5

Genere: Rock

 


 

 

Blackswan, lunedì 09/06/2025

giovedì 5 giugno 2025

Ashley Elston - La Prima Bugia Vince (Bompiani, 2024)

 


Ci sono persone per cui mentire è facile, altre per cui è praticamente impossibile. Perché mentire è difficile, e una bugia non è mai isolata. Una ne richiama inevitabilmente un'altra, e poi un'altra ancora, e occorrono grande lucidità e freddezza per fare sì che lo scintillante ma fragile castello di carte che abbiamo eretto tra noi e gli altri non cada all'improvviso, rivelando una volta per tutte chi siamo. Poi ci sono persone per cui mentire è, semplicemente, un mestiere. E in questo Evie Porter è la migliore. Per questo Mr Smith, il suo misterioso datore di lavoro, fa ricorso alle sue doti quando la parte da recitare è quella di una ragazza dell'Alabama fidanzata di Ryan Sumner, il tipico ragazzo d'oro che chiunque vorrebbe sposare. Peccato che sia la solita bugia e che Evie, come al solito, stia mentendo per carpire informazioni da un tutto sommato forse non così limpido Ryan. Peccato, perché la sua vittima questa volta è davvero carina e la vita che le promette è proprio il genere di esistenza che Evie ha solo potuto brevemente sognare di tanto in tanto leggendo qualche romanzo d'amore. In fondo si trova lì per fare il suo lavoro, in cui è così brava, e poi sparire. Ma un giorno, durante una festa, le si avvicina la fidanzata di un amico di Ryan e sorridente le si presenta. Strano nome, il suo: Lucca. Lucca Marino. Molto strano. Anche perché è il vero nome di Evie. Qualcuno almeno bravo quanto lei a mentire, improvvisamente, è sul terreno di gioco. Ma il gioco, questa volta, qual è?

Lucca Marino è una ragazzina dalla vita difficile, vive in una roulotte con la madre malata, e per sbancare il lunario e prendersi cura del genitore, fa la commessa in un negozio di fiori, perfetta copertura per la sua vera attività di ladra. Quando sua madre muore, Lucca viene contattata dal fantomatico Mr. Smith (una sorta di Mr. White dei romanzi di Juan Gomez Jurado), che la trasforma in una ladra professionista, affidandole ogni volta incarichi più difficili e una nuova identità.

Quando il suo misterioso datore di lavoro le affida il compito di sedurre, sotto le mentite spoglie di Evie Porter, il fascinoso Ryan Sumner, un giovane dell’Alabama, apparentemente immacolato, ma forse invischiato in loschi affari, le certezze vacillano. Perché tra i due ragazzi sboccia imprevedibilmente l’amore, mentre Mr. Smith si fa sempre più pressante e minaccioso. Ripercorrendo a ritroso la sua carriera di ladra, in una narrazione che rimbalza fra presente e passato, Lucca cerca di comprendere il senso del tutto, di comprendere chi sia realmente Ryan e, soprattutto, l’identità di Mr. Smith, divenuto, giorno dopo giorno, più ostile.

Ashley Elston, laureata in arte all’Università della Louisiana, è una scrittrice americana di successo, che ha sfondato nel mondo dell’editoria grazie a romanzi young adult. Un’incognita, quindi, trovarla alle prese con il genere thriller, di cui, invece, sembra aver ben chiari tutti gli elementi principali.  

La Prima Bugia Vince, infatti, è un thriller costruito con sapienza, a tratti, forse, un filo cervellotico nel dipanarsi di alcuni nodi narrativi, eppure sempre capace di tenere alta l’attenzione del lettore e di piazzare con maestria il colpo di scena giusto al momento giusto. Non certo un capolavoro di genere, ma l’approfondimento psicologico della protagonista è di qualità e la scrittura, a dispetto dei timori che nutrivo inizialmente, è decisamente buona. Romanzo perfetto da leggere sotto l’ombrellone, per godersi qualche ora di leggero, ma non banale, divertimento.

 

Blackswan, 05/06/2025

martedì 3 giugno 2025

Tusk - Fleetwood Mac (Reprise, 1979)

 


C’è una storia divertente legata al titolo di questa canzone e, ovviamente, dell’omonimo album ove è contenuta. Tusk significa letteralmente “zanna” e il titolo fu scelto da Mike Fleetwood, indispettendo parecchio Stevie Nicks, la quale non comprendeva il senso di intitolare così il nuovo album. Trovava la parola poco elegante e, inoltre, Tusk le faceva venire in mente i cacciatori di frodo, che uccidevano gli elefanti per poi vendere l’avorio al mercato nero. Tuttavia, la bionda cantante era del tutto fuori strada, perché quella parola per il batterista assumeva ben altro significato: zanna era il termine gergale con cui Fleetwood chiamava il suo pene. Nessuna mattanza di elefanti, quindi, ma un esplicito ammiccamento sessuale. Gli altri componenti della band lo sapevano, ma alla Nicks non fu detto nulla fino a quando l’album non fu completato, cosa che la fece imbestialire ancor di più.

La canzone si basava su un riff improvvisato che la band suonava dal vivo ogni volta che saliva sul palco per introdurre il proprio live act nel momento in cui si accendevano le luci. L’idea nasceva da un’intuizione di Mike Fleetwood, che a furia di suonare il brano durante il soundcheck dei concerti, pensò di utilizzare quel riff per costruirci attorno un intero brano. L’intento, però, era quello di sperimentare, di andare oltre la forma canzone, e così il batterista decise di coinvolgere la banda musicale dell'Università della California del Sud, per arrangiare il brano con un potente partitura di ottoni. 

Ciò che contava davvero, negli intenti del batterista, non era certo il senso di una canzone che, sotto il profilo dei contenuti, un senso non lo ha, ma quello semmai di creare un groove indimenticabile. Gli altri componenti del gruppo erano titubanti, anche perché Fleetwood voleva tirarne fuori un video che riprendesse la banda all’opera ed era intenzionato, per farlo, di affittare il Dodger Stadium, cosa che poi fece, nonostante il parere contrario degli altri, pagando di tasca propria. 

Fu così che, il 4 giugno del 1979, i Fleewood Mac (ad eccezione di John McVie, che aveva pesantemente litigato con Lindsey Buckingam) si ritrovarono allo stadio dei Los Angeles Dodgers, che erano in viaggio per andare a giocare una partita in trasferta, insieme alla USC Trojan Marching Band. Poiché tre giorni dopo ci sarebbero state le celebrazioni per il diploma, alcuni ragazzi non si presentarono, ma la maggior parte, che teneva una copia di Rumors nella propria stanza del dormitorio, fu entusiasta di poter affiancare i propri idoli musicali.

C’è un altro particolare curioso da menzionare. Il chitarrista Lindsey Buckingham all'epoca si era appassionato alla sperimentazione, e si era messo in testa di inserire nel disco dei suoni mai ascoltati prima. Quindi, per arricchire la struttura del brano, registrò alcune delle sue parti vocali in bagno, utilizzando un microfono posizionato sul pavimento e collegato da cavi al registratore del suo studio di casa. Inoltre, si divertì molto a suonare alcune percussioni su scatole di Kleenex vuote, anche queste posizionate sul pavimento del suo bagno.

Tusk, e intendo l’intero album, fu un riuscito tentativo da parte della band di uscire dalla gabbia dorata di Rumors, uno dei dischi più venduti della storia, ma anche una spada di Damocle che pendeva sulle loro teste in attesa dell’album successivo. Invece di ripetere quella formula vincente, la band si rimise in gioco pubblicando un lavoro molto più complesso e cerebrale, che finì, però, per vendere meno, piazzando solo due singoli, Tusk e Sara, rispettivamente all’ottava e settima posizione di Billboard. 

Meno soldi, forse, ma una maggiore rilevanza artistica. A tal proposito Mike Fleetwood disse, durante un’intervista rilasciata al momento della pubblicazione del disco: “Tusk è probabilmente il mio album preferito ed è il più importante dei Fleetwood Mac. Tusk significa la sopravvivenza di questa band: se non avessimo fatto quell'album, forse ci saremmo sciolti."

 


 

 

Blackswan, martedì 03/06/2025

lunedì 2 giugno 2025

Opia - I Welcome Thee, Eternal Sleep (Hammerheart, 2025)


 

Fulminato come San Paolo sulla via di Damasco. Per quanto il gothic doom non sia proprio la mia tazza di tè, un esordio come questo I Welcome Thee, Eternal Sleep, induce a una rapida e convinta conversione. Quello degli Opia, combo anglo spagnolo nato nel 2022, è un debutto che lascia il segno, che sbalordisce per intensità e ricchezza compositiva e che tocca il cuore, lasciando una ferita profonda, in tutti coloro che amano la malinconia e che indugiano al soliloquio esistenziale.

Un disco che, come esplicita il titolo, parla di morte, di sonno eterno, ma lo fa evitando clichè funerei e catacombali, cercando semmai di sondare l’animo umano di fronte al grande mistero che segna la nostra vita. Solo otto canzoni, ma tutte centratissime, in cui la pesantezza del passo doom e certe asperità mutuate dal black metal, trovano il contrappunto in seducenti atmosfere dal sapore cinematografico e in melodie eteree, dolcissime, quasi trasognate.

Nonostante un oscuro mantello forgiato nel metallo avvolga tutta la scaletta, il disco resta incredibilmente melodico, gli incisivi assoli di Phoenix Griffiths e Dan Tregenna sono mutuati dal classic rock, e le tastiere di Jorge Alonso, così esili e inquietanti, danno respiro a brani trainati dal metronomo e dalla furia di una sezione ritmica (Richard Rees al basso e Sam Heffernan alla batteria) che vive in una terra di mezzo fra post punk e black metal.

A fare da collante della line up è la conturbante Tereza Rohelova, che veste alternativamente le sembianze di signora della notte, grazie a un growl aspro e disperato, e di angelo del Paradiso, quando rasserena la gola e le corde vocali si sciolgono in un timbro dolce, evocativo, ambrosia seducente che si perde nell’immenso respiro dell’eternità (cosa che avviene con strabiliante fluidità anche all’interno dello stesso brano). 

"These Pristine Memories" è una breve intro strumentale dal sapore cinematografico, ma dà davvero il senso del tutto, soprattutto grazie alla batteria che suona come un battito cardiaco. Un cuore che cessa di battere di fronte allo sconquasso di "On Death's Door Part I". Qui, l'estensione vocale di Tereza Rohelova è davvero impressionante e, mentre la sua formazione classica garantisce che tutte le parti pulite siano assolutamente celestiali, i growl lasciano a bocca aperta per la potenza e la disperazione che riesce a trasmettere (“My greatest fear is this deathly state becomes your memory of me”). I passaggi fluidi tra i due stili vocali sono eseguiti in modo impeccabile e questo a sua volta contribuisce a mantenere coesa l’atmosfera fra le due chitarre che scartavetrano la melodia arresa di un tappeto di synth ossianico.

"Man Proposes, God Disposes" si sviluppa in bilico fra sprofondo disperato e melodia malinconica, un arpeggio morbido, una splendida linea di basso sottostante, la voce eterea che punta all’immensità del cielo e poi il growl che trascina nel profondo dell’oscurità. Un alternarsi di sensazioni confliggenti, il dolore straziante, il buio dell’eterno risposo, ma anche la speranza di resurrezione, l’intuizione di un’accogliente volta celeste.  

I temi trattati in questo album sono tutti profondamente emotivi, e l’alternarsi degli stati d’animo lascia spossati: il groppo in gola e le lacrime svaniscono in un ondata di angoscia, rabbia e disperazione, e ancora, quando torna forte la malinconia, il dolore viene sublimato da una strana estasi spirituale (le trame post rock della struggente "Fade").

Di questo saliscendi emotivo, sia "Silence" che "The Eye" ne sono un perfetto esempio. I momenti di dolce e tenera bellezza, uniti al dolore e alle grida d'angoscia, funzionano così bene insieme e contribuiscono davvero a raccontare la storia che gli Opia hanno in testa.

Il lavoro di chitarra è sublime in tutto il disco, ma una menzione speciale va all’arpeggio morbido e al successivo riff graffiante intrecciati in "Days Gone By", un gioco di prestigio che resta in testa per lungo tempo. Anche le tastiere sono usate benissimo nel corso della scaletta, restano in retroguardia senza mai sovrastare un solo momento, esaltando tutte le atmosfere e aggiungendo piccoli tocchi di emozione all’interno di ogni singolo brano.

Chiude il disco "On Death's Door Part II", vertice di un album tutto magnifico: la carezza di una chitarra dolcissima, la voce eterea della Rohelova, e poi, la pesantezza che travolge l'anima e le melodie angosciate, che si fondono in un modo che ti lascia completamente distrutto, ma con la voglia continuare l’ascolto. Le reiterate esplosioni black metal sono un colpo di scena grandioso, prima che l'assolo di chitarra (quello straordinario gusto retrò che evoca i Pink Floyd e poi accelera il passo) faccia del suo meglio per prosciugare la poca energia rimasta. Inferno e Paradiso, morte e resurrezione, fragilità umana e mistero divino. Una chiosa da fuoriclasse.

I Welcome Thee, Eternal Sleep non è un disco facile, soprattutto per tutti coloro a cui tremano le gambe ogni volta che sentono pronunciare le parole metal e growl. Chi, invece, è curioso e se ne fotte delle etichette, troverà la poetica musicale degli Opia un dono inaspettato. Si affaccerà all’orlo dell’abisso, proverà un dolore palpabile che afferra la gola, ma guarderà anche le stelle del cielo e l’infinito universo, scosso da un inspiegabile afflato trascendente. 

Voto: 9

Genere: Gothic Doom, Rock, Black Metal




Blackswan, lunedì 02/06/2025