martedì 30 settembre 2025

Shipbuilding - Elvis Costello (Columbia, 1983)

 


Una ballata struggente, una dura presa di posizione contro la guerra, una canzone di appassionata militanza politica.

Il testo di "Shipbuilding" fu scritto da Costello immedesimandosi nel punto di vista dei lavoratori dei porti marittimi britannici, che costruivano navi durante la preparazione della guerra dell'Inghilterra contro l'Argentina, per la disputa delle Isole Falkland, avvenuta nel 1982. Un evento che l'allora primo ministro Margaret Thatcher utilizzò per veicolare la cacofonia del fervore nazionalistico allo scopo di coprire le voci di protesta causate da un'economia fatiscente e disastrosa.

La canzone è ambientata in una regione economicamente depressa, dove è difficile trovare beni di prima necessità come "un nuovo cappotto invernale per la moglie". In quei luoghi depressi, però, circola la voce secondo cui il cantiere navale locale presto inizierà a lavorare per costruire navi per la guerra. Gli abitanti della città sono felici perché avranno presto un lavoro, anche se questo andrà a scapito dei propri giovani, che verranno arruolati per andare a combattere una guerra assurda.

Costello scrisse il testo ispirandosi alla tragedia del Belgrano, l'incrociatore della Marina argentina affondato dalle forze britanniche durante il conflitto, in circostanze controverse. Fu lo stesso musicista a raccontarlo, usando parole durissime, durante un’intervista alla rivista Q, nel marzo del 2008: “Sono stato a vedere il monumento alla memoria, mi sono fermato e ho letto i nomi di tutti gli uomini... beh, i ragazzi che sono morti. Qualunque cosa tu dica sul conflitto di guerra, solo quel crimine porterà la Thatcher all'inferno”.

La musica di "Shipbuilding" fu, però, scritta dal produttore Clive Langer per l'ex batterista e cantante dei Soft Machine, Robert Wyatt, ispirandosi al mood malinconico con cui Wyatt aveva interpretato "Strange Fruit" di Billie Holiday. La prima versione del brano fu, quindi, quella dell’ex Soft Machine, che venne pubblicata nel 1982 e che nel maggio del 1983, raggiunse la trentaseiesima piazza delle classifiche del Regno Unito. Langer, però, non era contento del testo della canzone, e, quindi, la propose a Elvis Costello, che ne riscrisse completamente le liriche e la pubblicò sul suo album, Punch the Clock.

Costello per distinguere la sua versione da quella di Wyatt, fece una mossa azzardata, chiedendo a Chet Baker di partecipare alla registrazione con la sua tromba. Sebbene fosse convinto che il grande trombettista si sarebbe rifiutato, con gran stupore si ritrovò Baker in studio. Di lì a qualche anno, nel 1988, dopo una lunga battaglia contro l’eroina, il trombettista morì, ad Amsterdam, cadendo dal balcone di un albergo in cui alloggiava. Quella su "Shipbuilding", si dice, sia l'ultima performance registrata di Baker in vita: due assoli malinconici e drammatici, un lascito memorabile che eleva la canzone a vette celestiali.

 


 

 Blackswan, martedì 30/09/2025

lunedì 29 settembre 2025

The Sweel Season - Forward (Masterkey, 2025)


 

La storia, forse, è un po’ lunga, ma vale la pena soffermarcisi un attimo. La musica degli Swell Season, in parte il fascino acustico e rude di Glen Hansard, in parte la fragilità e il senso della dimensione cinematografica di Markéta Irglová, è indissolubile dal rapporto fra i due componenti del progetto, tanto che potremmo parlare, a proposito del loro progetto, di meta-narrazione.

Il duo esordisce nel 2006, quando viene pubblicato il loro primo album omonimo. Ma nonostante quel disco contenesse l'avvincente ballata che avrebbe segnato la loro carriera, "Falling Slowly", Hansard e la Irglová non fecero notizia fino all’anno successivo, quando uscì il film Once.

I due interpretavano versioni appena velate di se stessi: il musicista di strada "Guy" e l'immigrata "Girl", due aspiranti cantautori che faticavano a sbarcare il lunario a Dublino. La coppia finì per innamorarsi sul set, e la fiamma nascosta, e poi resa pubblica, della loro storia d'amore fece subito scalpore. La vita imitava l'arte che imitava la vita. "Falling Slowly", che, nella pellicola, il duo esegue in un negozio di chitarre, in seguito vinse addirittura un Oscar.

L’amore non durò, e il secondo album del gruppo, l'attesissimo Strict Joy del 2009, documentò il tumulto della separazione. Poi, una lunga pausa, durante la quale. Hansard pubblicò una manciata di dischi da solista (oltre a continuare a collaborare con i vivaci rocker The Frames), e lo stesso fece la Irglová. La vita, insomma, andò avanti.

Nel 2025, dopo uno iato di ben sedici anni, gli Swell Season sono tornati con il loro terzo disco, Forward, un album fortemente "meta" (nell’accezione usata precedentemente) e, in qualche modo, autoreferenziale, visto che le canzoni ruotano spesso attorno alla loro relazione passata e a come la stessa appare guardando nel loro specchietto retrovisore.

Nonostante il tempo trascorso, la musica non ha però perso il suo fascino. Hansard e la Irglová offrono entrambi ciò che ci si aspetta da loro. La chitarra acustica cuce con rinnovata tensione accordi semplici ma efficaci, in brani come la tenera apertura "Factory Street Bells" o "Stuck in Reverse", mentre la Irglová si prende la scena con la struggente "I Leave Everything to You", guidata da accurate note di pianoforte e dalla sua voce sussurrata, cristallina e vagamente gelida. Come una sorta di ritorno a casa, il disco tocca tutte le corde giuste del cuore e i nervi della nostalgia.

Certo, talvolta si ha la sensazione che la collaborazione fra i due sia meno naturale e completa di quanto ci si sarebbe potuto aspettare: la Irglová suona il piano (piuttosto basso nel mix) in "Factory Street Bells"; che è chiaramente una canzone di Hansard, e per converso "I Leave Everything to You" non presenta la chitarra acustica, né la voce di Hansard; è chiaramente una canzone di Irglová.

Manca, insomma, una più profonda interazione, come avviene, invece, nella ovvia, ma emozionante, "People We Used to Be", quando, durante il ritornello, le loro armonie si intrecciano con naturalezza, splendidamente supportate dal violino e dalla viola di Marja Gaynor e dal violoncello di Bertrand Galen. È uno dei momenti più luminosi del disco.

Il meglio arriva alla fine, con due canzoni che alzano il livello del disco. "Great Weight" è chiaramente un prodotto di Hansard, la cui voce tesa sembra immergersi in un sogno febbrile, in cui fiati alcolici sono l'accento perfetto per i ritmi sconclusionati della chitarra elettrica. È un pezzo inaspettato, persino rivoluzionario, per gli standard degli Swell Season.  

La chiusura è affidata a un altro gioiello, "A Hundred Words". Il testo abbraccia quelli che sembrano essere intenti politici: "Voglio che tu sappia che non ho paura, Ho solo tenuto la testa bassa, stanco del rumore intorno a me", canta il duo a un certo punto. Gli archi si librano, mentre Hansard e la Irglová sono accompagnati da un coro di bambini. E, qui più che in qualsiasi altro punto del disco, l'ampiezza del testo funziona alla grande, come se fosse un appello alla sinistra, agli umanisti e agli oppositori di una crescente ondata autoritaria nel mondo:” “Non arrenderti, non arrenderti", cantano, "Non smettere di credere, non smettere di credere". Per un duo che continua a scrivere canzoni su una storia d'amore avvenuta due decenni fa, questo genere di cose è una bizzarra (e, francamente, meravigliosamente gradita) chiamata alle armi.

Forward è un buon disco, che non presenta novità alcuna rispetto ai capitoli precedenti, se non fosse per i due brani finali. Ma anche quando il duo procede in base ai consueti standard, i brividi non mancano, e il cuore non può che tornare, attanagliato dalla nostalgia, al delicato amore raccontato in Once.

Voto: 7,5

Genere: Songwriter, Folk 




Blackswan, lunedì 29/09/2025

venerdì 26 settembre 2025

David Trueba - Quattro Amici (Feltrinelli, 2000,00)

 


Moderni moschettieri su uno scassato furgoncino, quattro amici in crisi da maturità si lanciano in un improbabile viaggio per strappare un po' di tempo all'esistenza e riaffermare la propria voglia di ribellione e divertimento. Solo, ventisettenne oppresso da genitori troppo perfetti e dal ricordo di una ex che sta per convolare a nozze; Blass, grasso e goffo, alla frustata ricerca di un amore; Claudio, tombeur de femmes che vive solo per l'amicizia, Raul, precipitato dalle fantasie sadomaso a un tranquillo menage familiare con due gemelli a carico. Su un furgoncino di seconda mano che olezza di formaggio, i quattro decidono di concedersi un agosto da leoni, illusorio risarcimento dalla quotidianità. Da Madrid a Valencia, da Saragozza ancora a Madrid, attraverso una scia di risse, ubriacature, cuori infranti e amplessi frettolosi, rinsalderanno la propria amicizia in una tardiva fine dell'adolescenza. Un caleidoscopio di avventure, un romanzo acido e melanconico che ha il ritmo del miglior cinema.

 

Ho sempre avuto il sospetto che l’amicizia venga sopravvalutata. Come gli studi universitari, la morte o avere il cazzo lungo. Noi esseri umani esaltiamo i luoghi comuni per sfuggire alla scarsa originalità della nostra vita. Ecco perché l’amicizia viene rappresentata con patti di sangue, lealtà eterne, e addirittura mitizzata come una variante dell’amore, più profonda del banale affetto di copia. Eppure, non dev’essere un vincolo tanto solido, se l’elenco degli amici perduti è sempre più lungo di quelli conservati”.

Inizia così Quattro Amici, il romanzo più famoso di David Trueba, scrittore, sceneggiatore e regista madrileno, noto anche per aver diretto quel gioiellino datato 2013 e intitolato La Vita è Facile Ad Occhi Chiusi (sei premi Goya vinti).

Trueba mette subito le cose in chiaro: questo è un romanzo che parla di amicizia, ma non aspettatevi la solita storia infarcita di retorica e ipocrisia, di slanci fraterni, di carezzevole e virile empatia. Questo è un romanzo cinico e crudo, che non fa sconti al buonismo, che racconta la verità di un legame tanto fragile quanto, in qualche modo, indispensabile.

Solo, Blas, Claudio e Raul partono per le vacanze, un’avventura on the road su un furgone scassato e maleodorante, definita dai quattro Ventimila Leghe Subnormali, ma anche Il Lungo Viaggio verso La Fica, Viaggio al Centro Delle Cosce o Il Giro Del Culo In Ottanta Giorni. Roba da far impallidire schiere di benpensanti, oggi come allora (il romanzo è datato 1999).

Nessuna meta, on the road duro e puro, il cui unico intento è quello di scassarsi e scopare. Soprattutto scopare. Niente di strano, verrebbe da dire, perché un viaggio così molti di noi lo hanno fatto o avrebbero voluto farlo. E lo farebbero anche oggi, se ne avessero i mezzi e la forza.

Inizia da Madrid, questo vagabondare sconclusionato attraverso una Spagna soggiogata dalla canicola estiva, spassosissimo e a tratti surreale, in cui los amigos si imbatteranno in personaggi bizzarri e divertenti peripezie, con lo scopo principale, lo abbiamo detto, di portarsi a letto il maggior numero possibile di donne (infrangendo, con scellerata noncuranza, quell’odierno, ostentato e ipocrita habitus etico introdotto dal movimento MeToo).

Tuttavia, solo una lettura superficiale del testo potrebbe far ritenere che questo divertimento giovanilistico, questa sferragliante ingordigia di vita, questo vagabondare senza senso sia tutto ciò che ha da dire Quattro Amici. Che, invece, soffermandosi con attenzione su queste pagine crude, sprezzanti, ma al contempo malinconiche e poetiche, ha da raccontare molto di più.

Perché questi quattro ragazzi non sono solo dei cazzoni in libera uscita, ma quattro anime tormentate.

Blas, indole docile e spirito conciliativo, è vessato dal padre, rudere militare e residuato di un franchismo che non muore mai, è brutto e grasso, ha un disperato bisogno d’affetto che compensa con il cibo.

Claudio, bello, angelico e guascone, fa un lavoro modesto, vive solo con un vecchio cane e passa da un letto all’altro per dare senso alla sua vita di piccolissimo cabotaggio.

Raul, a sua volta, è divorato da uno smisurato appetito sessuale, ma è sposato con Elena, prigioniero in un rapporto a cui non riesce a dare più un senso, soprattutto dopo la nascita di due gemelli, spada di Damocle del senso di colpa che lo accompagnerà per tutto il viaggio.

E infine, Solo, il protagonista, l’io narrante, un giovane attratto dall’infelicità e da impulsi autodistruttivi, che lo porteranno a perdere il lavoro, a chiudere immotivatamente la relazione con Barbara, la ragazza che ama, e a vivere un rapporto conflittuale coi suoi genitori, esponenti della sinistra colta e progressista che ha trovato terreno fertile dopo la caduta di Franco.

I quattro amici, tutti meravigliosamente caratterizzati da Trueba, non sono moralmente edificanti, non sono esempi da seguire, vivono di frustrazioni e angosce, e danno libero sfogo a una celata cattiveria vestendola sotto le mentite spoglie della sincerità. Quattro ragazzi che stazionano in quella terra di mezzo in cui il male di vivere si scontra con le aspettative del mondo che li circonda, in cui l’incertezza, la paura del fallimento, il bisogno di affermazione, e l’inconsapevolezza sentimentale offuscano la visone sul futuro, trasformandoli in burattini nelle mani del fato, ingranaggi mal oliati di un meccanismo più grande di loro.

Non sono belle persone, questi quattro amici, ma sono veri, autentici, ricordano noi da giovani, ma spogliati di ogni paludamento romantico, da ogni forzatura conformista. La loro amicizia sembra l’unica cosa che conti, ma in realtà è fragile, sfilacciata dal cinismo dell’egoismo, necessità di sopravvivenza e di condivisione, ma anche campo di battaglia in cui sfogare le reciproche frustrazioni.

Il personaggio di Solo è sfaccettato, contradittorio, fascinoso. Il suo rapporto col padre perfetto, così doloroso, così conflittuale, non solo richiama quello scontro generazionale oggetto di infinita letteratura (come non ricordare il celebre schiaffo del padre de La Coscienza Di Zeno, di Italo Svevo) ma anche, a voler guardare con più attenzione, il passaggio di testimone fra la vecchia Spagna e quella nuova: la prima orgogliosamente stolida nelle proprie ataviche convinzioni, la seconda, incerta, appassionata e confusa, come sempre avviene nel passaggio storico dalla dittatura alla democrazia.

E poi, c’è l’amore per Barbara, storia che attraversa tutto il libro fino a diventare protagonista della narrazione nell’ultima parte del romanzo, la più malinconica, la più dolorosa, la più sofferta. Due anime affini che la stupidità autodistruttiva di Solo ha allontano, e che tornano a desiderarsi nuovamente, a cercarsi con lo sguardo e con le mani, quando ormai le loro vite hanno imboccato strade che il buon senso e l’opportunità sociale non farà mai più incontrare. O forse, si.

In questo marasma di sentimenti, tra risate e lacrime, tra avventure e intime riflessioni, tra nostalgia e cialtronesche smargiassate, tra bevute epocali, risse ed esilaranti deiezioni, resta un’unica certezza, quel sentimento fragile, contraddittorio, ma indispensabile, che chiamiamo amicizia.

Guardai Blas e Claudio seduti vicino a me, e compresi, in un certo senso, che cos’è l’amicizia. E’ una presenza che non ti evita di sentirti solo, ma rende il viaggio più leggero”.

 

Blackswan, venerdì 26/09/2025

mercoledì 24 settembre 2025

Suede - Antidepressants (BMG, 2025)

 


Quando nel 2022 gli Suede pubblicavano Autofiction, interrompendo uno iato lungo quattro anni, non avrei mai immaginato che quel disco risuonasse ancora con continuità dalla casse del mio stereo. Perché, oggi come allora, è un album che ha molte cose da dire e che continua a emozionarmi, tanto che, nella mia classifica personale dei dischi della band britannica, si piazza nelle prime posizioni a fianco di riconosciuti capolavori come Dog Man Star (1994), per citarne uno.

Non è da meno questo nuovo Antidepressants, decimo full length degli Suede e il secondo della loro trilogia di "album in bianco e nero", iniziata proprio con il citato predecessore.

Descritto all'inizio di quest'anno dal frontman Brett Anderson come il disco post-punk della band, Antidepressants trae certamente spunto da svariati artisti associati a quel genere, visto che molte delle undici canzoni in scaletta presentano tratti musicali non dissimili da gruppi iconici come, tra gli altri, Sound, Siouxsie & The Banshees, The Sisters of Mercy.

Ciò nonostante, quantunque posa essere forte il richiamo agli anni d’oro del movimento, il disco è inconfondibilmente Suede nel feeling e nella struttura, tanto che, a un orecchio allenato, suona immediatamente famigliare il timbro vocale di Anderson e l’abilità tecnica dei suoi quattro compagni (Richard Oakes alla chitarra, Mat Osman al basso, Simon Gilbert alla batteria e Neil Codling alle tastiere) nel replicare, con altri mezzi, quei toni e quelle melodie divenute nel tempo un marchio di fabbrica.

Se Autofiction era il sound degli Suede che approfondivano le proprie radici punk, Antidepressants è la band che compie il passo logico successivo. Umbratile e malinconico, ruvido e spigoloso, crudo e incisivo.

Dal momento in cui "Disintegrate" apre l'album con il mantra "disconnesso, connesso", e con quella voce “fuori campo” presa in prestito dall’eredità di Ian Curtis, Antidepressants si presenta subito come un viaggio coraggioso e inebriante in territori completamente nuovi. Il beat ansiogeno e lo strappo di una chitarra rabbiosa spingono l’ascoltatore in quei cupi passaggi sonori che andavano per la maggiore nei primi anni ’80, fino a quando, almeno, non entra la melodia cristallina del ritornello, la cui genetica è inequivocabilmente Suede. Che restano loro, cercando di non esserlo.

Ognuno degli undici brani di Antidepressants, magnificamente prodotto dal sodale di lunga data, Ed Buller, scorre con un'immediatezza che lascia senza fiato, aggiungendo man mano nuovi elementi a una narrazione che, però, più coesa non potrebbe essere.

La title track sferra contro la bella melodia e il word spoken di Anderson esiziali sportellate elettriche, come avrebbero fatto i Sound dell’indimenticato Adrian Borland, mentre l’altrettanto incisiva "Dancing With the Europeans" accende le polveri con un riff cadenzato che sembra pescato dal (breve, ma suntuoso) songbook dei La’s, prima di esplodere in uno dei momenti più innodici del disco. E se cercate un’altra perla, dedicatevi all’ascolto compulsivo di "Trance State" che, evocando i Cure, riaccende la tensione che aveva attraversato la palpitante "The Only Way I Can Love You" da Autofiction.

Come ogni disco degli Suede, anche questo contiene alcuni brani che potrebbero essere descritti come "ballate", sebbene nel senso più gotico del termine. "Somewhere Between An Atom And A Star" è sospesa in un involucro lattiginoso, che piano piano si dischiude per librarsi in cielo, fremendo di estasi cosmica, mentre la conclusiva "Life Is Endless, Life Is a Moment" ammanta un pensiero positivo in una strana sacralità presbiteriana, che passo dopo passo affonda in una malevola e catacombale oscurità, appena scalfita dal baluginare di una chitarra tagliente (qualcuno ha detto Cure?). Due brani stellari, a cui si aggiunge la caligine affranta e il gocciolio malinconico di "June Rain", probabilmente il brano più struggente dell’anno, grazie soprattutto all’interpretazione vocale di Anderson, che risuona come la ferita sanguinante di un cuore andato irrimediabilmente in frantumi.

È la musica spezzata e sono le persone spezzate che salveranno il mondo!" canta Brett Anderson nella tirata fremente di pathos di "Broken Music for Broken People". E’ questo forse il senso finale di un’amara riflessione sul disagio di vivere nel ventunesimo secolo, in questa società di morte e dolore, di ansia e frenesia, di solitudine e incomunicabilità, che finisce per incrinare le certezze delle nostre povere e tremanti anime: un musica cupa e sofferente, ma ancora scalciante e vitale, carburante nobile di chi non si rassegna a essere ostaggio, di chi, nonostante tutto, non si arrende, e guarda in faccia all’esistenza con ostinato ardore.

"Life Is Endless, Life Is a Moment (but oh what a moment!)".  

Voto: 8,5

Genere: Post Punk





Blackswan, mercoledì 24/09/2025

martedì 23 settembre 2025

Peggy Sue - Buddy Holly (Coral, 1957)

 


Morto a soli ventidue anni, in un grave incidente aereo, il 3 febbraio del 1959 (giorno che gli americani definiscono “the day the music died”) Buddy Holly è stato un precursore e un innovatore del genere rock’n’roll. Fu uno tra i primi, infatti, a scrivere, produrre ed eseguire i suoi brani, e definì attraverso i suoi Crickets quelle che saranno le linee guida della  formazione standard del rock, composta da due chitarre, basso e batteria.

Texano di Lubbock, dove nacque il 7 settembre del 1936, Holly pubblicò solo tre album e alcuni singoli di grande successo, che nel tempo sono diventati imprescindibili punti di riferimento stilistico e immortali evergreen. Tra i più noti, "That’ll Be The Day", "Maybe Baby", "Everyday" e, soprattutto, "Peggy Sue", uscita nel 1957 e, ad oggi, uno dei brani più coverizzati di sempre (John Lennon, Don McLean, John Denver, The Hollies, Waylon Jennings, etc.).

Originariamente Buddy Holly aveva scritto la canzone intitolandola "Cindy Lou" e il celebre incipit suonava così:

"Se conoscessi Cindy Lou

Allora sapresti perché mi sento triste senza Cindy"

Quando il suo batterista, Jerry Allison, ascoltò il brano, chiese a Buddy se era possibile cambiare il nome della ragazza in "Peggy Sue", in onore della sua fidanzata dell’epoca, Peggy Sue Gerron. Holly decise che, tutto sommato, non era poi un cambiamento che toglieva sostanza alla canzone, e la possibilità di far felice un amico valeva quella piccola modifica, e così acconsentì. Per la cronaca, Allison con questa mossa riuscì a conquistare definitivamente il cuore della donna, con cui convolò a nozze nel 1958, salvo poi divorziare nove anni dopo.

"Peggy Sue" fu il primo successo accreditato a Holly senza la sua band di supporto, i Crickets, i quali seppur suonarono sul brano, non vennero accreditati, perchè il singolo venne pubblicato dalla Coral Records (che produceva Holly come artista solista) e non dalla Brunswick, che era l’etichetta di riferimento per i brani suonati con i Crickets (per completezza, entrambe le etichette erano di proprietà della Decca Records).

Strano a dirsi, ma Jerry Allison diventò involontario protagonista anche durante la registrazione della canzone. Il batterista, infatti, aveva difficoltà a mantenere il tempo di Peggy Sue, che era stata scritta come un cha-cha. Ogni volta che ci provava, andava fuori tempo e bisognava ricominciare da capo. L'ingegnere del suono, alquanto spazientito, si avvicinò al microfono e, scherzando, disse a Jerry: "Se non la suoni bene nel prossimo take, cambieremo di nuovo il nome in Cindy Lou". Jerry, convinto che il tecnico facesse sul serio, chiese qualche minuto per fare degli esercizi da solo. Mentre stava effettuando questa specie di “riscaldamento”, suonò un ritmo che piacque subito a Holly, il quale mise da parte il cha-cha, e cambiò il riff di chitarra per adeguarlo al tempo tenuto dal batterista.

L’8 dicembre del 1958, Holly scrisse il seguito di "Peggy Sue", intitolandolo "Peggy Sue Got Married", brano che è stato, poi, pubblicato in una compilation dopo la sua morte. Holly registrò la voce, accompagnandosi con la chitarra, nell'appartamento 4H di "The Brevoort" sulla Fifth Avenue di New York City. Il produttore discografico, Jack Hansen, registro quella versione scarna e, successivamente, la portò in studio di registrazione, dove sovra incise le voci dei Ray Charles Singers, e successivamente, il 30 giugno del 1959, un gruppo di turnisti completò l’arrangiamento strumentale del brano, presso lo Studio A della Coral Records a New York.

Quella canzone fu ispirazione per il film del 1986 Peggy Sue Si è Sposata, divertente commedia fantastica diretta da Francis Ford Coppola e interpretata da Kathleen Turner e Nicolas Cage.

 


 

 

Blackswan, martedì 23/09/2025

lunedì 22 settembre 2025

King Witch - III (Listenable Records, 2025)

 


Se amate il genere, un incandescente magma di stoner, doom, metal e hard rock anni ’70, dovrete farvi violenza per togliere dal lettore il terzo album in studio degli scozzesi King Witch, intitolato semplicemente III.

In primo luogo, e partiamo dall’elemento più evidente, avere nella line up quella che a tutt’oggi è quasi certamente la miglior cantante di genere in circolazione, aiuta. E non poco. Laura Donnelly è una forza della natura, per potenza ed estensione la sua voce travolge con la furia di un uragano, è acciaio temperato, incudine e martello, fuoco e fiamme e, al contempo, è capace di adagiarsi sul velluto con inaspettata sensualità. Certo, anche il più grande cantante al mondo ha bisogno di una band che lo assecondi, lo sostenga, ne metta in risalto le straordinarie doti. E qui, entrano in scena gli altri due membri del gruppo: il chitarrista/produttore Jamie Gilchrist e il bassista Rory Lee, i cui riff rivoluzionari, radicati nel doom, nel rock anni '70 e nel grunge, esaltano il talento incendiario della Donnelly.

Da quando sono apparsi sulla scena nel 2015, i King Witch hanno evoluto la loro direzione artistica attraverso due album e due EP. Il loro debutto del 2018, Under the Mountain, aveva impressionato grazie a una scrittura solida e a performance potenti, mentre il successivo, Body of Light (2021), ha aggiunto un ulteriore tassello al carisma della band, enfatizzando le dinamiche attraverso cambi di tempo e una scrittura più umorale.

Con III, i King Witch mirano a combinare gli aspetti migliori dei loro lavori precedenti e a elevare il loro sound a un livello superiore, riuscendoci e superando di gran lunga le aspettative.

III presenta, infatti, una scaletta di canzoni di prim'ordine, che mettono in risalto, accentuandoli, i punti di forza dei King Witch. Il primo dei quali, come detto, è la voce della Donnelly che domina incontrastata, forgiando inni rock grintosi ("Digging in the Dirt", "Suffer in Life"), abbracciando inaspettate atmosfere acustiche ("Little Witch") e disegnando segmenti introspettivi ("Behind the Veil", "Last Great Wilderness") con il suo impressionante vibrato e la sua vasta gamma espressiva.

La versatilità di Gilchrist traspare da una sequenza di riff memorabili, che plasmano senza sforzo una miscela di doom, stoner, grunge e classic rock in un insieme coeso. Dai pesanti passi di "Sea of Lies" ai ritornelli intrisi di blues di "Deal with the Devil", Gilchrist assembla un retroterra ispirato e magnetico di influenze, attraverso le quali accosta i generi con una naturalezza che non ti aspetti. Alla batteria, il sessionista Andrew Scott (Paul Gilbert) sviluppa ritmi dalle profondità sabbathiane, che insieme al basso incalzante di Lee, producono un tiro alzo zero che rafforza il potente attacco messo in scena dal quartetto.

Grazie alla brillante produzione di Gilchrist, poi, tutto su III trabocca di energia e grinta, esaltando un sound geneticamente affine a quello dei Candlemass e dei Black Sabbath.

Dal punto di vista del songwriting la band utilizza strutture convenzionali con una inaspettata concisione e navigata maturità. L'abilità del quartetto nel variare sottilmente ì brani, anche quelli più lunghi, per catturare l'attenzione dell'ascoltatore, rende l’incedere del disco oltremodo suggestivo. Ritornelli ripetuti spinti al parossismo dalla voce della Connelly ("Sea of Lies"), bridge delicati e cupi che offrono un contrasto dinamico a improvvise ripartenze ("Last Great Wilderness") e spettacolari variazioni acustiche/elettriche che mettono a fuoco le performance di Scott e Lee ("Behind the Veil"), aggiungono nuove dimensioni all'interno di strutture strofa-ritornello altrimenti prevedibili.

Allo stesso tempo, queste variabili, a volta solo sfumate, garantiscono alle performance di base la libertà creativa e lo spazio per mostrare coraggio, mentre la durata succinta di III impedisce che le emozioni ristagnino.

In questo contesto, gli assoli di Gilchrist impressionano costantemente, fondendo virtuosismo e fraseggi blues con un feeling umorale straordinario, senza mai eccedere in lunghezza o equilibrismi fini a se stessi.

Tuttavia, come già accennato, la voce di Laura Donnelly rimane la forza dominante nella musica dei King Witch, e la sua interpretazione incredibilmente emozionante e potente rende III un'esperienza davvero esplosiva. Portabandiera della band, la sua voce è un capolavoro di drammaticità, potenza e controllo dinamico. La sua estensione vocale è fuori scala, guida i ritornelli e le melodie accattivanti con un’irruenza selvaggia ("Swarming Flies"), si abbandona a momenti traboccanti sensualità e sentimento ("Deal with the Devil", "Last Great Wilderness") e si cimenta anche in falsetto ("Sea of Lies").

E quando, come bonus track, parte l’assalto all’arma bianca di "Jesus Christ Pose" dei Soundgarden, in una versione tanto oscura quanto brutale, è chiaro che, probabilmente, nessuno al mondo può confrontarsi con l’immenso Cornell, pareggiando la sfida, come questa straordinaria cantante, figlia prediletta del dio metallo.

Difficile trovare un difetto a questo III, un disco che fonde magistralmente tutti i punti di forza della band e si propone come uno dei migliori album metal dell’anno.

Voto: 9

Genere: Doom, Stoner, Hard Rock, Metal

 


 


Blackswan, lunedì 22/09/2025

venerdì 19 settembre 2025

Pain Of Salvation - Scarsick (InsideOut, 2007)

 


Attivi fin dal 1991, gli svedesi Pain Of Salvation hanno sempre scritto musica densa sia sotto il profilo compositivo che lirico. Una complessità, quella della band capitanata da Daniel Gildenlow, che è cresciuta nel tempo, grazie a un approccio sempre più sperimentale alla composizione. Dal debutto intitolato Entropia (1997) e dall'eccellente seguito, One Hour By The Concrete Lake (1998) fino all'eccezionale Remedy Lane (2002), il loro sound era relativamente convenzionale, ma da Be (2004), un album fortemente filosofico caratterizzato da uno scarto selvaggio dalle convenzioni verso una varietà di suoni incredibilmente diversificata, la band ha fatto un incredibile salto di qualità, tanto anche da deludere i fan della prima ora, ma, per contro, riuscendo a sedurre una diversa fetta di pubblico.

Ebbene, Scarsick procede spedito per la strada tracciata dal suo predecessore, allontanandosi per fattura (e qualità) dal vecchio catalogo della band e rendendo ancora più difficile ogni generica catalogazione, per quanto il genere prog metal riesca a spiegare meglio di altri le due anime che convivono nel progetto Pain Of Salvation.

Scarsick, seconda parte di un concept che parte da The Perfect Element, part I (altro ottimo album datato 2000), è un disco militante, politicamente e socialmente impegnato, che affronta, senza mezzi termini, i temi del capitalismo, dell’imperialismo americano, della cultura del consumo, del declino etico dell’umanità e delle disfunzioni del materialismo. Ed è un disco arrabbiato, che non fa prigionieri. Nelle liriche si percepiscono tutto l’amaro cinismo e il profondo coinvolgimento emotivo di Gildenlow, uno che non le manda certo a dire. Ed è divisivo, lo amerete o lo odierete. Perché bisogna essere schierati, ad esempio, per apprezzare una canzone, "America", in cui il cantante recita versi come “Sick Of America... You could have been good America / Could have been great, America”. E invece…

Fatte queste premesse, Scarsick è un disco che spiazza, che mischia le carte a ogni brano, che non si lascia afferrare immediatamente, pur in un contesto di suoni e produzione estremamente coeso. Generi diversi, compattati in una scaletta che alterna accelerazioni e rallentamenti, melodia e furia, riflessione e aggressione all’arma bianca.

Il basso liquido e i continui cambi di ritmo che punteggiano l’iniziale title track evocano la vena pazzoide dei Faith No More, aleggianti in quel continuo alternarsi di groove pesi, melodie accattivanti condite con vaghe spezie mediorientali. Sette minuti di delirio che sfociano nell’altrettanto lunga "Spitfall", in cui il cantato rap si accende di rabbia su chitarre distorte e fremiti elettronici (Rage Against The Machine), prima che tra le fiamme spunti un ritornello pop irresistibile. Pura follia.

Tutto appare schizoide nello svolgimento di una scaletta che non dà riferimenti, tanto che non stupisce affatto che il terzo brano, "Cribcaged", bellissimo peraltro, giochi con sonorità rock più americane e un’atmosfera cinematografica malinconica da groppo in gola, mentre Gildenlow manda bellamente a fanculo il sistema. La citata "America" parte con un riff metal che potrebbe essere rubato a uno dei pezzi più rabbiosi dei System Of A Down, ma è uno specchietto per le allodole, perché il brano, tra sali e scendi, si sviluppa attraverso un melodicissimo gusto progressive, carezzevole e solare (mentre l’invettiva è inesorabile).

"Disco Queen" è probabilmente il brano più eccentrico del lotto. In apparenza è un brano puramente disco, o meglio una parodia o una caricatura di tutto ciò che c'era di orribile nella disco music. Ma se lo si riascolta, si percepisce un secondo, più potente filo conduttore di puro prog-metal classico in stile Pain Of Salvation che si insinua nella trama e contribuisce a trasmetterne il messaggio. Geniale.

La seconda metà del disco si apre con "Kingdom Of Loss", una ballata spettacolare, in cui è possibile cogliere richiami al prog più classico (Pink Floyd, Marillion, etc.), mentre "Mrs Modern Mother Way", scivola via su un groove funky non indimenticabile e su una ritmica in leggero controtempo. Idiocracy si addentra nel territorio prog, mostrando la caratura tecnica di una band che gioca consapevolmente con il bizzarro, abbinando riff grunge, elettronica, ritmi dispari, falsetti stranianti, cori dal sapore chiesastico e un senso malevolo di tragedia incombente.

Chiudono la tensione parossistica di "Flame to The Mooth", serpeggiante e inquietante, decisamente il brano più furente del lotto, e i dieci minuti di "Enter Rain", brano che scivola mesto su una melodia malinconicissima, prima di accendere la miccia a un ritornello aggressivo, ma non memorabile come il resto della canzone.

Scarsick rappresenta l’ennesimo capitolo di una band che definire avventurosa è dir poco: un viaggio di un’ora in un tracciato fascinoso, in cui le curve, spesso a gomito, sono molto più numerose dei rettilinei. Una volta alla guida, però, è davvero difficile smettere di spingere l’auto verso l’orizzonte. Indefinito, ma ricco di suggestioni. 




Blackswan, venerdì 19/09/2025

mercoledì 17 settembre 2025

The Hives - The Hives Forever Forever The Hives (Play It Again, Sam, 2025)

 


Dopo Les Hives del 2012, la band svedese è sparita per ben undici anni, facendo pensare a tutti i fan che la loro straordinaria avventura fosse giunta al termine. Poi, all’improvviso Howlin’ Pelle Almquist e soci sono ricomparsi a sorpresa nel 2023 con The Death of Randy Fitzsimmons, album dedicato a quell’oscura figura che la band ha sempre presentato come fondatore e sesto membro occulto della line up.

Tumulato il caro estinto, i cinque ragazzacci originari di Fagersta, tornano con un nuovo album che, in contrapposizione alle celebrate esequie del lavoro precedente, s’intitola The Hives Forever Forever The Hives, come a voler esorcizzare la morte e ad augurare a se stessi vita eterna. Long Live Rock ‘n’ Roll, avrebbe cantato qualcuno. E che per gli Hives l’eternità artistica sia qualcosa in più di una semplice chimera, è dimostrato da questo nuovo, esplosivo lavoro, che vede la band più in forma che mai: un'esperienza di trentatre minuti straordinariamente fresca, divertente ed energica. Brevi, taglienti pezzi garage punk, che ci fanno (s)ballare dall'inizio alla fine.

Durata massima delle canzoni: tre minuti. Cioè, l’essenza di una musica che vive d’urgenza e spontaneità, in cui sangue e sudore si mischiano in una esiziale miscela che arroventa gli strumenti e percuote i nostri padiglioni auricolari. E’ lo spirito puro e selvaggio del rock‘n’roll, quello che un tempo pensavamo potesse cambiare il mondo con una mitragliata di riff e di cui oggi, i veterani Hives (sono in giro dal 1993) restano ancora gli interpreti più credibili.

Registrate a Stoccolma con il produttore di lunga data Pelle Gunnerfeldt, queste tredici canzoni sfrecciano con la consueta furia adrenalinica, con la stessa velocità vertiginosa e la consueta ironica eccentricità a cui i cinque cazzoni ci hanno sempre abituati. E come sempre, Howlin' Pelle Almqvist è in ottima forma. L'esuberante frontman è scatenato e incazzato, e canta con la bava alla bocca versi dai quali sembra dipenda la sua stessa esistenza.

Dopo una breve e ironica intro, che cita la quinta di Beethoven, la prima canzone vera e propria colpisce l’ascoltatore come un pugno in faccia. In "Enough Is Enough", il testo rabbioso di Almqvist (“Everyone’s a little fuckin’ bitch, and I am getting sick and tired of it”) si sposa con l'energia furiosa del brano e con un ritornello incalzante. "Hooray Hooray Hooray" sprinta rapidissimo su un groove irresistibile, è un altro tormentone esplosivo che raggiunge l'effetto di farci battere il piede e spingerci in un furioso headbanging.

Quella di The Hives Forever… è una musica che si vive fisicamente, orecchie attizzate, petto orgogliosamente in fuori e gambe e culo che non smettono di muoversi a ritmo. Così, consapevoli dello sforzo a cui sottopongono l’ascoltatore, la band piazza a metà disco un breve interludio, una sosta inaspettata necessaria a reintegrare i liquidi e controllare lo stato delle giunture.

D’altra parte, si è rischiato l’osso del collo a saltare come scimmie infoiate quando parte il ritornello di Bad Call, o a scapicollarsi con il bubblegum punk alla Ramones di Paint a Pictures o con l’hardcore spaccatutto della roca O.C.D.O.D.

A parte il citato intermezzo strumentale, il livello di adrenalina non cala mai, così mentre impazzano le sirene della polizia, il riff di Legalize Living (rubacchiato a Let’s Go To Bed dei Cure) introduce uno dei momenti più innodici dell’album, di quelli da pogare duro sotto il palco. E occhio agli effluvi surf di Born A Rebel, puro divertimento che vi spingerà a cavalcare un’onda fantasma nel salotto di casa.

Arriva così il magnifico trittico finale: They Can’t Hear The Music è una corsa a perdifiato gomito a gomito coi connazionali Hellacopters, Path of Most Resistance invita tutti sul dancefloor a far quattro salti, prima della bisboccia finale della title track, che chiude il disco con un’allegria alticcia e contagiosa.

Incredibile ma vero (è ironico, ovviamente), anche nel 2025 si può pubblicare un grande disco rock con le chitarre. Un disco che pesca dal passato, gli anni ’60 del garage e gli anni ’70 del punk, e fa sembrare quella musica antica attualissima. Roba da giovani, insomma. Almeno per quelli che sanno distinguere la grande musica dalle scorreggette fatte passare per capolavori. The Hives Forever Forever The Hives.

Voto: 9

Genere: Garage, Punk'n'Roll 




Blackswan, mercoledì 17/09/2025