martedì 10 marzo 2020

PREVIEW




I Biffy Clyro hanno conquistato subito tutti con il nuovo singolo “Instant History”. Unendo rock esplosivo ad apocalittici synth e roboanti beat, il brano è stato presentato in anteprima da Annie Mac durante il programma Hottest Record in the World su BBC Radio 1 ed ha subito raggiunto la vetta delle classifiche radiofoniche in UK.
Ora i Biffy Clyro annunciano la pubblicazione del loro attesissimo nuovo album in studio dal titolo “A Celebration of Endings in uscita venerdì 15 maggio. “A Celebration of Endings arriva dopo Ellipsis (2016) ed Opposites (2013), che hanno debuttato entrambi #1 nella classifica di vendita degli album in UK.
L’approccio della band al loro ottavo album è stato semplice. Creare stupore e mantenere gli occhi ben fissi sull’obiettivo. Sorprendere se stessi e tutti gli altri. Spingere tutto all’estremo. Il primo passo verso questa nuova era è stato rivolgersi a un vecchio amico Rich Costey, produttore di “Ellipsis”.
“Questo è un album molto lungimirante da una prospettiva sia personale che sociale”, spiega il frontman Simon Neil. “Il titolo fa riferimento al vedere la gioia nel cambiamento, piuttosto che la tristezza. Cambiare significa progredire ed evolvere. Puoi conservare tutto ciò che hai amato ma dimentica tutte le cose brutte! Si tratta di riprendere il controllo”.
Questa idea si manifesta in diversi modi. A livello personale, come una relazione che ha raggiunto il punto in cui ambo le parti hanno interesse a separarsi. Ad un livello più ampio, con lo scopo di lottare per ciò in cui si crede.
Musicalmente i Biffy Clyro spingono all’estremo il livello raggiunto con il loro suono, spesso nello stesso brano. L’opening track “North of No South” colpisce duro prima di lasciare spazio alle armonie vocali in stile Queen dei fratelli Johnston. Mentre prima del pianoforte di “The Champ”, uno script cinematografico (realizzato da Rob Mathes , collaboratore di Bruce Springsteen, agli Abbey Road) e la jam ritmica dei Biffy si uniscono senza mai perdere la propria raffinatezza.
Altri brani sono più diretti. “Tiny Indoor Fireworks” è il miglior inno rock scritto dalla band. E’ un brano accattivante, melodico e leggero, talmente naturale da far pensare di essere stato concepito in pochi minuti. “Space” è il naturale successore delle hit “Many of Horror” e “Rearrange”, un sincero messaggio di riconciliazione per qualcuno che si ama,  uno dei momenti più teneri nella carriera dei Biffy Clyro.
Come concludere un album con così tali diversità? I Biffy si lanciano a testa bassa in “Cop Syrup”. C’è la frenesia di “The Vertigo of Bliss”, una breve deviazione nello stile grunge del Sub Pop e urla maniacali che non stonerebbero in un album dei Liturgy. Poi cambia di nuovo, prima in un’orchestrazione eterea e poi in una conclusiva esplosione di potenza. Un finale da celebrare.
In occasione dell’annuncio dell’album, i Biffy Clyro presentano anche il nuovo brano “End Of”. L’aggressività è quella dei vecchi Biffy ma l’improvvisa apertura di pianoforte e i conclusivi furiosi riff sottolineano l’attuale e affascinante imprevedibilità.





Blackswan, martedì 10/03/2020

lunedì 9 marzo 2020

THE SECRET SISTERS - SATURN RETURN (New West, 2020)

Quanto Laura e Lydia Rogers fossero talentuose e dotate, l’avevamo capito da tempo. Eppure, come spesso accade nello show businness, scrivere grandi canzoni non sempre è sufficiente per uscire dall’anonimato. Infatti, perché la carriera delle Secret Sisters, duo originario di Muscle Shoals, avesse una svolta, è stata necessaria una “sponsorizzazione” di peso, avvenuta tre anni fa con l’uscita del terzo full lenght, You Don't Own Me Anymore.
Quel disco, infatti, fu santificato dalla produzione di Brandi Carlile, che prese sotto l’ala protettrice le due sorelle, facendole registrare nel suo studio casalingo, con il supporto degli Hanseroth Twins, da sempre sodali della songwriter di Seattle. Le belle canzoni contenute in quel disco e l’egida Carlile portarono per la prima le sorelle Rogers sotto i riflettori, dando alla loro musica un’esposizione prima sconosciuta. Non è un caso, quindi, che la collaborazione con la Carlile sia alla base anche di questo quarto, bellissimo, Saturn Return.
Un disco che si apre con le armonie vocali di Silver, brano di matrice folk, in cui le due sorelle sfoggiano subito la specialità della casa, e cioè il perfetto interplay delle due voci. Un brano molto legato alla tradizione, dall’andamento potente ma carezzevole nella melodia, una foto in bianco e nero che racconta con delicatezza la terza età (“Guarda tua madre e l'argento nei suoi capelli/Consideralo la corona più santa che tu possa indossare”) e che rende inevitabile il paragone con, mi si perdoni l’azzardo, gli Everly Brothers.
Con il secondo brano in scaletta, Late Bloomer, si cambia registro: il pianoforte, le delicate venature soul e la dolce melodia fanno pensare a una ballata di Carole King. Cabin è, invece, il brano più rock del lotto, cresce lentamente su un’armonia di pianoforte e chitarra acustica, e si gonfia sempre più in una seconda parte che vibra di sferragliante elettricità. La successiva Hand Over My Heart, mette al tappeto con una melodia che sembra rubata a una radio FM di metà anni '70: il groove languido e l’arrangiamento zuccherino evocano le estati di Laurel Canyon e il pop dei Mamas & Papas. Il folk in purezza di Fair, chiude in bellezza la prima parte di un disco che fosse tutto di questo livello sarebbe da beatificare.
Da qui in avanti, pur in un contesto di qualità, il linguaggio si fa più prevedibile e le canzoni, comunque buone, mancano del quid di originalità che aveva caratterizzato la prima metà (Hold You Dear è una ballata un pò troppo sentimentale per cogliere davvero nel segno e Tin Can Angel un country dall’elegante tessitura ma abbastanza scontato nello svolgimento).Chiude la melodia per grandi spazi di Healer In The Sky, brano meravigliosamente arrangiato, in cui le sorelle Rogers si cimentano in un’altra suntuosa prova vocale.
In definitiva, Saturn Return ripropone, nella forma e nella sostanza, la consueta miscela di americana, country e pop, declinata attraverso il suggestivo interplay di due voci splendide, che aveva informato anche i dischi precedenti. Mai come in questo caso, però, le due sorelle hanno trovato l'esatto punto di fusione fra roots e mainstream, mantenendo peraltro altissima la qualità del songwriting.

VOTO: 7,5





Blackswan, lunedì 09/03/2020

sabato 7 marzo 2020

GARY MOORE - LIVE FROM LONDON (Provogue, 2020)

Gary Moore se n’è andato troppo presto, a soli cinquantotto anni, lasciando un grande vuoto nel cuore di tutti quelli che amavano la sua scintillante chitarra. E’ passato quasi un decennio da quel triste 6 febbraio del 2011, ma il ricordo del chitarrista e bluesman nordirlandese resta vivido negli occhi e, soprattutto, nelle orecchie di tanti appassionati, non solo grazie alla corposa discografia costruita in vita, ma anche a una serie di uscite postume, tutte di ottimo livello.
Live At Montreaux 2010, pubblicato l’anno successivo, lo strepitoso Blues For Jimi, uscito nel 2012, Live At Bush Hall, rilasciato nel 2014, e da ultimo, questo nuovo Live From London: un filotto di dischi dal vivo, la cui pubblicazione, lontana da logiche meramente commerciali, ha contribuito a rinsaldare la memoria Moore, gettando nuova luce sulla potenza di tiro e la debordante energia sprigionata durante i suoi show.
Registrato la sera del 2 dicembre del 2009 alla The 02 Islington Academy, Live In London propone un set di tredici canzoni, in cui i grandi successi della carriera di Moore si alternano a svariate cover e a brani tratti da Bad For You Baby, ultimo album in studio del chitarrista irlandese, datato 2008.
Il live, diciamolo subito, è davvero notevole, sia per la registrazione delle tracce, pressoché perfetta, sia per la potenza esplosiva di una backing band rodatissima (Vic Martin alle tastiere, Peter Rees al basso e Steve Dixon alla batteria) sia per il repertorio presentato, che si concentra sul meglio della produzione del chitarrista irlandese, quella post 1990, quando Moore, abbandonate velleità folk e hard rock, tornò a dedicarsi completamente al blues.
In scaletta, come anticipato, si alternano canzoni tratte da Bad For You Baby (la title track e Down The Line, entrambe tirate e poste in apertura dopo la reinterpretazione di Oh, Pretty Woman di Albert King), un pugno di cover rilette con gusto e passione (All Your Love di Otish Rush, Have You Heard pescata dal repertorio di John Mayall) e i grandi immancabili classici con cui Moore si è consegnato alla leggenda: una calda e vibrante Still Got The Blues e la chiosa, come sempre, dedicata alla struggente e malinconica Parisienne Walkaway, scritta a quattro mani con l’amico Phil Lynott.
Un concerto intenso e appassionato, che trova il suo vertice in una cover impressionante di I Love You More Than You’ll Ever Know di Al Kooper, dodici minuti pazzeschi di lenta combustione blues, in cui Moore tira fuori dalla sua sei corde tutto lo scibile umano in termini di tecnica e ardore.
Disco imprescindibile per i fan del chitarrista, Live From London è consigliatissimo anche a coloro che volessero approfondire la conoscenza dell’artista irlandese o che, semplicemente, amano la chitarra elettrica.

VOTO: 7,5





Blackswan, sabato 07/03/2020

venerdì 6 marzo 2020

PREVIEW




I famigerati NO A.G.E. sono tornati! Un duo chitarra/batteria (Randall e il batterista/vocalist Dean Spunt) con un debole per i campionamenti, i No Age se ne fregano di cose come lo spazio e la pausa, e Goons Be Gone è meravigliosamente denso, una distesa nebbiosa e delirante che disorienta e al tempo stesso conforta.
Ascoltando Goons Be Gone è difficile capire come sia possibile che solo due persone possano fare tanto rumore rimanendo comunque controllate e misteriose – molto più facile immaginare Randall e Spunt che eruttano queste canzoni sott’acqua, esplodendo da una colossale cava della California piuttosto che da un minuscolo, soffocante spazio artistico a pochi isolati dai bassifondi di Los Angeles. Il primo singolo “Turned To String” oscilla tra netti riff ritmici impostando il cruise control su FAST; un tempo che Dean e Randy fanno di tutto per rallentare con ritmi interni e armonici di chitarra che si gonfiano come un’orchestra.
Goons Be Gone è così cacofonico, così fertile e così maturo nel suono che analizzare e distinguere i samples e i vari effetti e gli strati di chitarre è quasi impossibile; d’altro canto, proverete molta più soddisfazione se chiuderete semplicemente gli occhi, ascoltandolo e lasciandovi trasportare.
In fondo, fa parte del fascino dei No Age il fatto che questo nuovo album sia così difficile da capire, che riesca ad essere così grande pur provenendo da un luogo così piccolo: la sola certezza è che vorrete riascoltarlo ancora e ancora. Forse per sempre.
Goons Be Gone uscirà il 5 giugno; nel frattempo godetevi "Turned To String".





Blackswan, venerdì 06/03/2020

giovedì 5 marzo 2020

WE SELL THE DEAD - BLACK SLEEP (earMusic, 2020)

E’ inevitabile chiedersi, quando nasce un supergruppo, se ci si trova di fronte a un progetto solido, con vista sul futuro, o se invece, siamo al cospetto di un evento estemporaneo, una gita fuori porta fra amici, che hanno voglia di allontanarsi dalla casa madre e fare qualcosa di diverso, svincolati da obblighi di scuderia.
E’ quello che si erano domandati un po' tutti all’uscita di Heaven Doesn`t Want You and Hell Is Full, primo disco dei We Sell The Dead, band nata nel 2016 da un’idea di Niclas Engelin (In Flames/Engel) e Jonas Slättung (Drömriket), a cui si sono poi uniti Apollo Papathanasio, frontman dei Firewind e Spiritual Beggars, Gas Lipstick, il batterista presente nel primo album ed ex HIM (oggi, sostituito dal batterista degli Engel Oscar Nilsson), e Petter Olsson, alle tastiere. Dubbio legittimo che con l’uscita del sophomore Black Sleep, è stato definitivamente fugato.
Se il primo disco, per quanto positivo, palesava qualche incertezza sulla strada da prendere e qualche defaillance compositiva, il seguito è invece un lavoro solido e omogeneo, con un suono strutturato e idee chiarissime, che vanno nella direzione di un hard rock di derivazione seventies, rinvigorito dalla potenza di tiro di innesti di metal moderno e reso scintillante da un intrigante piglio melodico.
E’ inevitabile, poi, visto anche il nome della band e il titolo del disco (Black Sleep è con tutta evidenza una metafora che richiama la morte), che talvolta le atmosfere si facciano cupe e inquietanti, introducendo elementi di derivazione gotica; tuttavia, nel computo finale, emergono soprattutto l’energia debordante del suono e la capacità della band di creare ritornelli fulminanti.
L’apertura di Caravan, coi suoi inserti acustici classicheggianti, apre ad atmosfere ossianiche; tuttavia, a risaltare sono soprattutto la struttura progressive del brano, i cambi di tempo e il saliscendi fra riff tenebrosi e stasi meditativa. Decisamente più lineare e pompato il singolo Across The Water, con uno straordinario lavoro alle chitarre da parte di Engelin, ottimo brano per passaggi radiofonici. La title track è, invece, clamorosamente seventies, e ai più attenti non sfuggiranno molte assonanze con l’hard rock leggendario di band come Deep Purple o Rainbow.
Una tripletta iniziale davvero notevole, di quelle che invogliano a stare sul pezzo fino alla fine. Anche perché il disco non ha punti deboli: The Light, per dire, è una ballata che in molti farebbero carte false per avere nel proprio repertorio, Nightmare And Dream riesce a essere cupa e orecchiabile al contempo, con quel ritornello che è un attimo ritrovarsi a cantare a squarciagola, mentre il basso distortissimo di River In Your Blood introduce il brano più duro del lotto, con Engelin e la sua chitarra ancora sugli scudi.
Black Sleep è, dunque, un disco che vive in perfetto equilibrio fra modernità e citazioni classiche, e che trova la sua forza d’impatto in un mood ondivago di chiaro scuri, vista sull’abisso e melodie rilucenti. Un album, quindi, che possiede una precisa linea artistica, a dimostrazione che anche i supergruppi, con l’ispirazione giusta, sanno creare musica di altissimo livello.

VOTO: 7,5





Blackswan, giovedì 05/03/2020