La chiave del successo dei
Delta Saints si chiama crowdfunding, quella pratica di micro finanziamento dal
basso, che oggi va tanto di moda e che spesso dà risultati sorprendenti,
permettendo anche a gruppi emergenti di potersi affacciare nello star system e
provarci. E’ in questo modo, infatti, che il gruppo proveniente da Nashville ha
potuto produrre, nel 2013, Death Letter Jubilee, secondo album in studio (il
primo raccoglie due Ep usciti alla fine del decennio scorso), che ha convinto sia
pubblico che critica, ottenendo peraltro ottimi risultati di vendite. Bones,
uscito invece seguendo i canali più convenzionali, è pertanto il disco della maturità,
quello con cui il gruppo non solo si afferma come una delle realtà più
interessanti della scena (southern) rock, ma soprattutto consolida un songwriting
personale e ricco di idee. La base di partenza su cui il quintetto lavora è un
rock blues declinato con accenti sudisti, che guarda alla tradizione di
caposcuola come i Black Crowes e sugge linfa vitale da riff classici di
derivazione zeppeliniana. I Delta Saints, tuttavia, non si sono mai presentati
come meri epigoni di un suono altrui, ma, come si diceva poc’anzi, hanno
arricchito l’idea di partenza con una scrittura che, fin dal loro esordio, ha
acquisito sempre più specifiche peculiarità. Bones è, in tal senso, un disco in
cui la band sudista salta lo steccato del suono tradizionale, aggiungendo
modernità e idee a una formula che, diversamente, risulterebbe consunta. Così,
anche nei momenti più convenzionali della scaletta (l’incipit di Sometimes I
Worry) il gioco a incastro fra vibrato e slide e una cospicua dose di acidi
riescono a colorare una fotografia altrimenti sbiadita. Che si siano guardati
intorno, poi, alla ricerca di un suono più a la mode, è evidente quando parte
Heavy Hammer (ma anche Soft Spoken gira da quelle parti), una tirata
adrenalinica che aggiunge un tocco funky alle scorie garage di casa Jack White.
Il delta e il suono bayou non vengono certo rinnegati, e anzi emergono prepotentemente
nella title track e nella ballata Butte La Rose, che però hanno il merito di
suonare decisamente meno vintage che in passato. Così come convincono la
conclusiva Berlin, tutta arpeggi e punta di bacchette, e l’altalenante My Love,
sali e scendi elettro- acustico, che si candida a miglior brano del lotto. L’impressione,
dopo ripetuti e coinvolgenti ascolti, è che i Delta Saints con Bones abbiano
trovato il biglietto vincente della lotteria del rock e siano ora un gruppo di
cui ci si possa fidare completamente: solidi e originali, sono destinati a riaccendere
di entusiasmo le ormai stanche legioni del rock blues.
VOTO: 7,5
Blackswan, sabato 31/10/2015
2 commenti:
Molto meglio (anche se il genere è un po' diverso) dall'ultimo Dead Weather che a parte qualche sprazzo mi ha annoiato fin dal primo ascolto.
@ Lucien: L'ultimo dei Dead Weather a me non è dispiaciuto. Sarà la voce della Moshart o l'entusiasmo fanciullesco di White dietro ai tamburi. I DS vanno in quella direzione, ma solo in un paio di brani. In realtà c'è molto di più, e il disco non riesco ancora a toglierlo dallo stereo.
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