Tante delle cose più
interessanti uscite in questo 2016 sono colorate di rosa: Bonnie Bishop,
Lucinda Williams, The Savages, Jane Lee Hooker, solo per citarne qualcuna. A tanti
bei dischi si aggiunge anche Exodus Of Venus, il nuovo disco di Elisabeth Cook.
Un nome che dalle nostre parti dice poco o nulla, mentre in America, invece,
questa ragazza originaria della Florida vanta un cospicuo seguito di fans. La musica
della Cook si può inserire tranquillamente nel filone americana, anzi a voler
essere precisi nel filone Ameripolitan, classificazione creata di recente per
indicare una musica fortemente legata alle radici che fonde principalmente quattro
generi: honky tonk, western swing, rockabilly e soprattutto outlaw country. I
Music Awards di Ameripolitan sono nati nel 2014 e la Cook, alla prima edizione,
ha vinto un riconoscimento per la categoria Oulaw Female. Insomma, stiamo
parlando di un personaggio di tutto rispetto. Exodus Of Venus è il suo primo
full lenght dopo uno iato durato sei anni e nasce da due dolorose esperienze:
la morte del padre e la fine del matrimonio con Tim Carroll, suo collaboratore
e chitarrista storico. Due eventi che hanno necessariamente segnato la vita
della quarantreenne songwriter, ma hanno anche influenzato decisamente il suono
di queste canzoni. Il nuovo disco, infatti, si discosta nettamente dai lavori
precedenti, è più elettrico e più virato verso sonorità rock e blues, ma
soprattutto i brani che compongono la scaletta sono pervasi da un mood cupo e
depresso, che si riverbera pesantemente anche sui testi. La title track, con
cui si apre il disco, è una ballata elettrica dai toni swamp, sostenuta da una ritmica
quadrata e dalla chitarra ruvida di Dexter Green, che oltre a suonare nel disco
lo produce anche.
E’ subito chiaro che le sonorità rock predominano, che il
sound è irrorato da un’aspra malinconia e che durante l’ascolto sarà (prevalentemente)
la notte a prendersi cura di noi. I testi sono chiaramente autobiografici, e la
Cook mette a nudo le sofferenze di un amore che le ha causato un crollo fisico
ed emotivo (Broke Down In London On The M25). Nel consueto gioco dei rimandi è
soprattutto Lucinda Williams a venire in mente, come è palese nel solido groove
di Dyin’, un altro brano innervato da un rancore a stento trattenuto. Ma il
peso del dolore e i fantasmi del passato emergono prepotentemente soprattutto nel
rock astioso di Evacuation e nel rallenti blues di Slow Pain, una lenta e lunga
discesa nei più inaccessibili romiti del dolore, segnata dalle rasoiate di lap
steel di Jesse Aycock e dalle distorsioni noise di Green. Da segnalare anche
Dharma Gate, ballata avvolta di una trasognata nostalgia, che depurata dagli
accenti americani, potrebbe funzionare benissimo in un disco di Lana Del Rey,
Straightjacked Love, una sorta di vademecum del genere Ameripolitan, e il
battito funky soul di Methadone Blues, uno dei momenti più leggeri in scaletta.
In verità, non c’è una sola canzone di Exodus Of Venus (titolo programmatico
come pochi) che non meriti di essere citata (oltre che, ovviamente, ascoltata
con estremo interesse). La Cook, infatti, mette a segno il suo personale
capolavoro e uno dei dischi di americana più belli dell’anno: aspro, ruvido, depresso,
ben poco accondiscendente e lontano dai consueti lidi contigui a sonorità
country. Come spesso succede in ambito musicale, da un grande dolore nasce una
grande arte: qui c’è rabbia, c’è rancore, c’è un grumo di fiele che rende amara
la bocca. E’ sincerità, è sofferenza, è la vita, è musica vera.
VOTO: 9
Blackswan, domenica 26/06/2016
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