Quando il 15 aprile del 1997 esce Ultra,
nono disco della discografia dei Depeche Mode, la band è stata a un
passo dallo scioglimento. Meglio: dall’implosione. Il tastierista Alan
Wilder se ne va, sbattendo la porta, e il colpo mina non poco i già
fragili equilibri tra i membri della band.
La
situazione che preoccupa di più è quella di Dave Gahan, in preda a una
tossicodipendenza feroce, che gli impedisce di partecipare stabilmente
alle sessioni di registrazione e di suonare dal vivo (Ultra non avrà un
tour promozionale). Non solo: Gahan rischia di finire all’altro mondo
per un’overdose di speedball (un mix di cocaina ed eroina), che lo porta
alla morte clinica per tre minuti, prima di venire miracolosamente
rianimato.
Non
è però l’unica ad avere problemi di dipendenza, perché la mente
pensante del gruppo, Martin Gore, da anni intrattiene un rapporto
strettissimo con la bottiglia per combattere ripetuti attacchi di
panico, tanto da non poter fare a meno di bere prima di salire sul
palco.
Alla luce di questa situazione estremamente delicata, Ultra
rappresenta, pertanto, una vera e proprio ripartenza, una sorta di
disco della rinascita, l’album che segna il passaggio a una seconda
parte di carriera, che lascia alle spalle il peggio e che guarda al
futuro, rielaborando un lungo periodo di sofferenze e incertezze e
rinnovando il suono, che assume sfumature virate decisamente verso il
trip hop. Non un disco ispiratissimo, forse, ma considerati tutti i
problemi che hanno segnato gli ultimi anni della band, decisamente un
buon lavoro, caratterizzato peraltro da alcune ottime canzoni.
Home
fu il terzo singolo tratto dal disco, un brano che, nelle intenzioni
del gruppo, simboleggiava lo sprone per un ritorno alla normalità e che,
strano a dirsi, non ebbe un grande riscontro di vendite in patria
(arrivò solo alla ventitreesima piazza delle charts britanniche),
mentre, invece, raggiunse un inaspettato successo commerciale proprio in
Italia, dove conquistò il primo posto delle classifiche nazionali.
Scritta e cantata da Martin Gore e attraversata da un profondo senso di inquietudine e malinconia, Home
parla di salvezza e riabilitazione, è il ringraziamento di un uomo che
ha vinto la disperazione e ha ritrovato la strada di casa, uscendo
dall’incubo della dipendenza (“E ti ringrazio per avermi portato qui, per avermi mostrato casa, per aver cantato queste lacrime, alla fine ho capito…”).
Una canzone che parla dell’esperienza di Gore con l’alcolismo, certo,
ma che ben si adatta anche alla situazione di Gahan, che proprio in quel
momento sta combattendo una battaglia durissima per disintossicarsi
dalle droghe.
Può
capitare, nonostante il successo e la fama, che qualcosa non torni, che
un ruolo o un’espressione artistica, ancorché consolidate, vadano
strette e non siano più soddisfacenti. Grace Potter a capo della band
dei Nocturnals, per un quinquennio almeno ha acquisito visibilità da
autentica star, ha venduto dischi e ha scalato le classifiche americane
con alcuni singoli, che hanno avuto un interessante riscontro anche
fuori dei confini nazionali.
Poi,
qualcosa si è rotto e quella dimensione, apparentemente appagante, ha
finito per essere solo un ingombro per una nuova avventura che,
evidentemente, la Potter sentiva più nelle sue corde. Così, gli ultimi
anni della trentaseienne cantante e polistrumentista originaria del
Vermont sono stati dedicati al cambiamento. Dopo aver sciolto la sua
band di lunga data, i Nocturnals, ha pubblicato, nel 2015, un disco
solista, Midnight, più pop-oriented. Poco dopo, ha divorziato
dal marito nonché batterista dei Nocturnals, Matt Burr, e ha iniziato
una nuova relazione con il produttore di Midnight (e di questo nuovo Daylight) Eric Valentine, con cui nel 2018 ha avuto un figlio.
Tutti
questi eventi fanno inevitabilmente da sfondo alle canzoni del nuovo
album, ne hanno in qualche modo suggerito i testi, in un ondivago
alternarsi fra la felicità per una nuova relazione e per la maternità, e
più serie meditazioni sul cambiamento e la fine del precedente
rapporto. Ne hanno soprattutto ispirato la musica. Una musica che, come
in tutti i riti di passaggio, non riesce a essere uniforme e coesa, ma
imbocca, per tentativi, diverse strade, sta in bilico fra un passato che
non può essere completamente cancellato e le pulsioni più smaccatamente
mainstream del precedente Midnight.
C’è
un po’ di confusione in queste undici canzoni, qualche momento debole,
poco centrato e non adeguatamente strutturato, ma anche il desiderio di
non accomodarsi nella comfort zone a cui per anni Grace si era abituata,
soprattutto nella seconda parte del disco, quella sicuramente più
ispirata e con i brani migliori.
Le tre canzoni che aprono Daylight, Love Is Love, On My Way e Back to Me,
sono ognuna completamente diversa l'una dall'altra, trasmettono, almeno
al primo ascolto, un senso di dispersione e non sono certo il fiore
all’occhiello del disco: il pop venato di soul della prima, il rock
grintoso della seconda e le sonorità blues gospel della terza, diluite
però dall’acqua zuccherina di archi disco dal sapore seventies, sono
episodi decisamente modesti, e suonano come se fossero delle bonus track
utili a far da riempitivo.
Le cose cambiano, però, a partire da Every Heartbeat,
canzone più legata al passato, in cui Grace dà prova della sua gran
voce su una melodia orecchiabilissima, ma non stucchevole. La vetta del
disco è la successiva Release, una ballata per pianoforte
lenta, ispirata, emozionata, attraversata da una delle migliori
performance vocali che la Potter abbia mai registrato. Un lirismo nudo e
scarno con cui Grace espone senza filtri la profondità della propria
anima, raccontando la storia della sua precedente relazione finita e
mettendo un punto alla fine di un capitolo in modo che il prossimo possa
iniziare.
Da questo momento in avanti il disco decolla, inanellando un filotto di brani tutti di buon livello, a partire da Shout It Out,
che echeggia alla Band e si sviluppa su un tappeto di organo
magistralmente intrecciato da Benmont Tench (ospite fisso in quasi tutte
le canzoni) e per finire con la splendida title track, in cui
la songwriter mostra i muscoli, sfoderando un grintosissimo cantato, che
giustifica gli azzardati paragoni letti in passato a proposito di una
somiglianza vocale con la grande Janis Joplin.
Una
canzone davvero notevole con cui la Potter sigilla un lavoro che non è
tutto della stessa caratura, ma che mostra un’artista vogliosa di
rimettersi in gioco e con tutte le carte in regola per fare bene. Basta
scegliere una strada e percorrerla con coraggio e ostinazione. Con una
voce così, tutto è possibile.
Dodici
canzoni, una per ogni mese, che hanno segnato il 2019 e di cui, magari,
ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto
personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe
mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato
durante l'anno.
Dodici
canzoni, una per ogni mese, che hanno segnato il 2019 e di cui, magari,
ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto
personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe
mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato
durante l'anno.
Dodici
canzoni, una per ogni mese, che hanno segnato il 2019 e di cui, magari,
ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto
personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe
mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato
durante l'anno.
Dodici canzoni, una per ogni mese, che hanno segnato il 2019 e di cui, magari, ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno.
Pur
avendo acquisito nel tempo una certa notorietà internazionale, Susanne
Sundfør resta comunque un’artista che vive ai margini del clamore
mediatico. La trentenne songwriter norvegese, infatti, se è vero che in
patria è considerata una sorta d’istituzione, resta comunque sconosciuta
ai più, la classica musicista di nicchia per pochi appassionati dal
palato fine.
Nipote
di Kjell Aartun, teologo e linguista di fama mondiale, laureata, atea,
politicamente militante a sinistra, Susanne ha iniziato da bambina a
studiare pianoforte e canto, concludendo il suo iter formativo e di
studi nel 2007, anno in cui ha visto la luce il suo primo e omonimo
album. Oggi, nel pieno della maturità artistica, vanta collaborazioni
importanti (Royskopp, M83, Madrugada, Mercury Rev, etc) e una
discografia composta già da otto album (tre dal vivo), compreso quello
che stiamo per raccontare.
Difficile
dare una connotazione di genere alla musica creata dalla songwriter
norvegese: i suoi dischi sono concettualmente colti, a tratti
sperimentali, sempre comunque figli di un eclettismo che rende Susanne
una delle artiste più interessanti in circolazione. In definitiva, si
può dire che questa musica sia un continuo rimescolare le carte: synth
pop, dream pop, electropop, jazz, art pop, drone music, ambient, soul e
country folk sono solo alcuni dei generi che potreste individuare
ascoltando uno dei suoi album. Se i primi due dischi avevano
connotazioni maggiormente cantautorali, il terzo, The Brothel, ha segnato un deciso scarto verso l’elettronica, confermato poi dal successivo, bellissimo, Ten Love Songs, un’opera segnata da sonorità clamorosamente synth pop.
Con Music For People In Trouble
(2017), Susanne è tornata a una concezione canzone più scarna ed
essenziale, asciugando gli arrangiamenti dei brani, utilizzando talvolta
un solo strumento e mettendo in luce soprattutto la sua bellissima
voce, capace con eclettismo di spaziare fra diversi registri.
Music For People In Trouble: Live From The Barbican,
come si evince dal titolo, è la trasposizione live dell’intera scaletta
del precedente disco in studio. Nessuna novità sconvolgente, dunque, e
nessuna canzone, nuova o vecchia, che scompagini un filotto di canzoni
riproposte, peraltro, nello stesso ordine in cui comparivano nel disco
di appartenenza. C’è però la possibilità di ascoltare Susanne dal vivo,
dimensione nella quale la ragazza norvegese si sente molto a suo agio
(come dicevamo sono tre i dischi live nella sua discografia), e di
godere della splendida atmosfera sospesa di un live act che fotografa al
meglio un’artista talentuosa, appassionata ed eclettica.
Insomma, bello era Music For People In Trouble e bella è questa riproposizione che alterna la povertà francescana e la purezza intimista dell’iniziale Mantra, il country folk accarezzato dalla pedal steel di Reincarnation,
i languori pianistici di Good Luck, Bad Luck, il clarinetto e il
violoncello che avvolgono nell’ombra la melodia drammatica di Bedtime Story e il crescendo appassionato di Undercover (con quel finale che richiama alla memoria Kate Bush).
Dieci
canzoni decisamente emozionanti, legate dal fil rouge della voce
espressiva, avvolgente e versatile della Sundfør, una capace di centrare
il bersaglio grosso del cuore dopo solo due strofe.
Un
disco forse inutile per chi già conosce la songwriter norvegese, ma che
per tutti gli altri può rappresentare l’abbrivio per fare la conoscenza
di una delle artiste più genuinamente talentuose e originali oggi in
circolazione.
Una
premessa, mai come per questo disco, è indispensabile. Mettete il
vinile sul piatto o il cd del lettore, cercando di dimenticare chi erano
gli Who. Anzi, ancora meglio, fate uno sforzo ulteriore e immaginate
che questo sia il disco d’esordio di una band che ascoltate per la prima
volta. Così facendo, salverete la vostra libertà intellettuale e
l’obbiettività del giudizio. Dimenticate, quindi, che sono passati
cinquantaquattro anni da quando uscì My Generation, dimenticate l’epos di Quadrophenia, Tommy e Who’s Next,
dimenticate che questo è il primo album in studio dal 2006, dimenticate
soprattutto che queste due simpatiche canaglie si portano sulle spalle
centocinquant’anni in due, settantacinque a testa.
Perché
è quasi inevitabile essere prevenuti di fronte a un disco come questo,
frutto di una nuova collaborazione fra due, Roger Daltrey e Pete
Townshend, che hanno passato da un bel pezzo l’età della pensione, e che
nell’immaginario di molti detrattori sono considerati aprioristicamente
due balene spiaggiate, due dinosauri sopravvissuti stancamente al
logorio del tempo e che, ovviamente, non hanno più nulla da dire, se non
lucidare a fini economici un illustre marchio di fabbrica.
Invece, non è così, perché Who
è un buon disco, che si fa ascoltare con piacere e regala ancora
momenti degni di essere ricordati. Certo, il songwriting di Townshend
non è più scintillante come un tempo, e Daltrey, ma questo è
inevitabile, ha cambiato modo di cantare, e cerca molto di più la
sfumatura e la profondità che la potenza. Who, poi, è un disco molto più pop che rock, fa dispiego di archi e di synth e ammicca anche al mainstream.
Non
c’è però l’effetto nostalgia che molti si potevano immaginare: Daltrey e
Townshend non replicano se stessi, non posano come le stanche
controfigure degli eroi dei tempi gloriosi, ma cercano altre strade per
mettere in gioco le loro idee ed essere ancora credibili. Così Who
è un disco che riesce a tenere insieme un suono classico e aperture a
sonorità più moderne: senza forzature, con semplicità e, e lo dico senza
nostalgia, con una classe che nonostante gli anni resta ancora
cristallina.
Non
tutto è centrato (ma quanto sono rari i casi in cui un filotto di
canzoni siano tutte egualmente all’altezza?) e la prima parte del disco è
decisamente più ispirata rispetto alla seconda.
All This Music Must Fade
apre il disco con un tiro incredibile e per un attimo sembra che tutto
sia rimasto immutato, dal momento questa canzone è quella più
decisamente “Who” di tutto il lotto. Certo ci sono anche degli
episodi che fanno storcere il naso, come avviene nel folk pop alla Of
Monsters And Men di Break The News, che se da un lato
testimonia la volontà del duo di cercare un approccio alla modernità,
risulta, per quanto gradevole, lontanissima dalle attitudini della band.
Però, nel complesso il disco tiene, e bene, con canzoni come Detour, Rockin’ In Rage, Street Song e Ball And Chain che sono tutt’altro che da buttare, anzi.
So
che è impresa ardua convincere chi ritiene gli Who un gruppo finito già
alla fine degli anni ’70 e questa una musica buona per vecchi e
nostalgici rocker che non riescono a farsi una ragione del tempo che
passa. Tuttavia, bypassare il disco senza dargli una possibilità sarebbe
ingiusto. Daltrey e Townshend saranno anche due arzilli vecchietti, ma
il loro lo sanno ancora fare, e Who, che non è certo una delle uscite
più significative del 2019, si fa comunque voler bene. E non è la
nostalgia a decidere, ma un pugno di buone canzoni.
È quasi sera quando un giovane prete, Christopher Fairfax, giunge in un
remoto villaggio della regione di Exmoor in Inghilterra per celebrare
il funerale del parroco, padre Thomas Lacy, morto una settimana prima.
Tutto in quel luogo gli appare inquietante: la terra desolata è
disseminata di manufatti antichi, monete, frammenti di vetro, ossa
umane, che il vecchio parroco collezionava di nascosto in modo
meticoloso, quasi cercasse delle risposte alla sua esistenza e le prove
di una civiltà fatalmente scomparsa. Al piano superiore
dell’appartamento di padre Thomas il suo corpo senza vita è adagiato
nella bara, coperto di ferite e in parte sfigurato. La versione
ufficiale è che sia caduto, ma Christopher sospetta che ci sia
dell’altro: nella biblioteca ritrova infatti dei libri “proibiti” che
parlano di un mondo lontano che non esiste più. È forse questa
ossessione per il passato l’eresia che ha portato il parroco alla morte?
Cercando di vincere la reticenza e l’ambiguità degli abitanti di quel
luogo isolato, Christopher è determinato a scoprire la verità e
nell’arco di soli sei giorni tutto ciò in cui ha sempre creduto, la sua
fede e la storia del mondo, sarà messo alla prova fino a essere
distrutto.
L’idea di partenza che anima la trama de Il Sonno Del Mattino
è decisamente buona: immaginare un mondo futuro sopravvissuto a una
catastrofe (nucleare?), che ha però le sembianze del più oscuro e
oscurantista medioevo. Nell’Inghilterra creata dalla fantasia di Harris
il dominio della Chiesa è totale, la fede religiosa il comun
denominatore che lega tanti poveracci alle prese con un’esistenza tetra e
senza attesa, la superstizione e il timore di Dio usati come mordacchia
per tenere a freno ogni tipo di ribellione, e l’eresia di chi cerca di
studiare gli eventi del passato, considerata il più grave dei reati
penali e perseguita senza quartiere da tribunali religiosi tramite
violenti sistemi coercitivi (tra cui la marchiatura a fuoco).
Su
questo contesto distopico, si innesta poi una trama vagamente thriller,
che vede il giovane prete Christopher Fairfax indagare sulla morte,
all’apparenza accidentale, di un curato di campagna. Le premesse per un
romanzo palpitante e affascinante ci sono proprio tutte e le aspettative
fin dalle prime pagine sono davvero alte.
Peccato, invece, che il pur bravo Robert Harris, autore di romanzi eccezionali come Fatherland, Enigma, L’ufficiale e La Spia,
sia per l’occasione ai minimi termini in fatto d’ispirazione e
scrittura. Il romanzo, infatti, procede stancamente, con una prima parte
lenta e noiosa, ed accelera solo a metà, senza però quei colpi di scena
che farebbero de Il Sonno Del Mattino una lettura quanto meno piacevole.
Al
romanzo, infatti, mancano sia il corpo che l’anima, la scrittura è
insipida, prevedibile, a tratti puerile; i personaggi sono tagliati con
l’accetta e privi di ogni approfondimento psicologico che non sia di
grana grossa. E anche l’ambientazione, che poteva essere il fiore
all’occhiello del libro, è confusa, sfumata, imprecisa e totalmente
priva di fascino. Insomma, il romanzo, si legge per forza d’inerzia, e
non c’è veramente nulla che riesca a far trattenere il fiato o a
emozionare. E non è un caso che anche il finale, nel quale in teoria
tutti i nodi dovrebbero venire al pettine, sia invece frettoloso,
forzato e privo degli elementi necessari a giustificare la lettura delle
quasi trecento pagine che costituiscono il libro.
Ren Harvieu annuncia l’atteso nuovo album Revel In The Drama,
che uscirà il 3 aprile su Bella Union. L’album è una versione brillante
e audace del suo pop senza tempo, un diario avvincente di lotta con la
propria autostima e una celebrazione di libertà e sopravvivenza, sette
anni dopo il suo album di debutto e dopo aver superato un incidente
quasi letale. Pensate a Revel In The Drama come al secondo album di debutto di Ren Harvieu: un nuovo inizio.
Come
assaggio, Ren condivide una nuova traccia dal titolo “Yes Please” che
descrive come “una lenta danza sensuale di desiderio. Volevo scrivere
sull’arte della seduzione.”
La
sfida di Harvieu contro tutte le previsioni e la sua volontà di aprirsi
per realizzare quello che sentiva dentro ribolle in ogni solco
dell’album, in ogni svolta stilistica: il pop vertiginoso di “Strange
Thing”, l’estasi gotica di “Cruel Disguise”, la seduzione di “Yes
Please” fino alla commovente torch song finale “My Body She Is Alive”.
Harvieu
ha fatto molta strada rispetto alla diciassettenne che firmò per la
Island Records e che non aveva nessuna intenzione di diventare una
cantautrice. Anche quando realizzò il suo album di debutto Through The Night,
non credeva molto in se stessa. “Diedi una mano a scrivere alcune
canzoni di quel disco, a cui sono ancora molto affezionata, ma mi sono
sentita più che altro la portavoce del talento di qualcun altro, il che
mi rodeva un po’ soprattutto perché avevo molte cose da dire ma non
avevo ancora imparato a farlo.”
Il
suo infortunio – una frattura alla spina dorsale in seguito a un
“bizzarro incidente” accaduto tra la registrazione e l’uscita del suo
album – ha minato ulteriormente l’artista. Non solo, la Island Records
decise di rescindere il contratto sei mesi dopo la pubblicazione,
nonostante il disco fosse nella Top 5, avesse partecipato a Sound Of
2012 della BBC e avesse ricevuto recensioni a cinque stelle. Seguirono
quelli che Harvieu definisci “anni piuttosto bui”, che affronta in
canzoni come “Spirit Me Away” e la ballata anni ’50 “You Don’t Know Me”.
A ciò si aggiunga la separazione dal suo compagno, dal suo manager e
dalla sua amata Salford. “In un batter d’occhio tutto era svanito.
Sapevo di dover scappare, ricominciare tutto, ricostruirmi.”
Nel
2015 incontra Romeo Stodart, frontman dei Magic Numbers, che le aveva
scritto dopo aver visto una sua esibizione dal vivo per proporle una
collaborazione. “Quando abbiamo cominciato a lavorare, ho immediatamente
sentito un’energia diversa, c’era questa folle connessione musicale
istantanea,” dice Ren.
La
coppia trascorre i successivi due anni a scrivere. “Non avevo molta
fretta, perché alla fine mi stavo divertendo. Stavamo svegli tutta la
notta a ballare, a bere e a suonare; mi sembrava di riscoprire la
ragazza che ero stata e che era rimasta nascosta.”
L’album
è stato coprodotto da Romeo Stodart e Dave Izumi Lynch, proprietario
dello studio Echo Zoo di Eastbourne, dove hanno avuto luogo le
registrazioni. “Lavorare con Romeo e Dave è stata un’esperienza davvero
magica, sono due maghi musicali.”
New Adventures in HI-FI
è l’ultimo disco dei R.E.M. in cui suona Bill Berry, che mollerà nel
1997, a causa di un aneurisma che lo ha colpito durante il tour di
promozione del precedente Monster (1994). Ed è anche l’album che ha
venduto meno nella storia della band di Athens, raggiungendo comunque il
disco di platino sul mercato europeo.
Eppure,
se si guarda la discografia dei R.E.M., New Adventures In Hi-FI ne è,
indiscutibilmente, uno dei vertici: quattordici canzoni scorbutiche,
declinate attraverso un suono solenne e al contempo frugale, prive di
ogni artificio in fase di produzione ma comunque figlie di una
consapevolezza stilistica a tutto tondo.
E-Bow The Letter
è il primo singolo tratto dal disco, ed è una scelta inusuale, vista la
durata della canzone, che supera i cinque minuti. Una scelta che non
guarda le classifiche ma punta tutto sul sentimento di dolore che
Michael Stipe ha provato per la morte dell’amico River Phoenix, lo
sfortunato attore di Stand By Me e My Own Private Idaho, deceduto tre anni prima, il 31 ottobre del 1993, per un’overdose.
Il
testo, infatti, rielabora il contenuto di una lettera, mai spedita, che
Stipe aveva scritto a Phoenix, preoccupato per gli abusi di sostanze
stupefacenti a cui era dedito l’amico. E’ anche, però, la fotografia di
un’epoca che sta finendo, il peana su una generazione di ribelli che si è
arresa e ha riposto le armi, o che è morta inutilmente sulle barricate,
pagando con la vita il prezzo di un successo effimero.
Il
magico duetto con Patti Smith e il disincanto di una melodia scabra e
arresa raccontano l’amara confessione di un fallimento personale e
generazionale (I wear my own crown of sadness and sorrow), e mettono a nudo Stipe, mai così sincero, sia come uomo che come autore.
Per la cronaca, l’E-Bow del
titolo è un archetto elettronico per chitarra che utilizza Peter Buck
nella canzone e che produce un suono simile a quello del violoncello o
del violino.
Correva
l’anno del signore 2012, quando Hannah Williams, dopo una rapida
ascesa, motivata da un cristallino talento e da un pizzico di fortuna,
venne indicata dai media, e da qualche collega più famoso (cito per
tutti, Sharon Jones e Charles Bradley) come la next big thing
della scena nu soul britannica. Londinese, figlia d'arte, Hannah inizia a
cantare fin da giovanissima, ma esce dal tunnel dell'anonimato solo
quando, casualmente, durante un concerto in un piccolo pub dei sobborghi
londinesi, incontra l’indimenticata Sharon Jones, che si innamora della
sua bellissima voce.
Hannah,
sotto il patrocinio della Jones, inizia a incidere singoli per una
piccola etichetta indipendente, guadagnandosi qualche passaggio radio,
grazie ai buoni offici di Craig Charles, conduttore di un programma alla
BBC. Poco tempo dopo, un altro incontro fortuito: la Williams viene
notata da Hillman Mondegreen, leader dei Tastemakers, affiatato gruppo
di soul e R&B con un discreto seguito in patria, che la vuole alla
voce solista. Hannah entra nella band, con la quale parte per un tour in
Inghilterra e partecipa a vari festival.
E
qui, si verifica il terzo colpo di fortuna, perchè Hannah Williams e i
suoi Tastemakers vengono contattati da un’etichetta milanese, la Record
Kicks, che propone loro un contratto per un disco. Di lì a breve, esce A Hill Of Feathers (trainato dal singolo Work It Out),
un debutto talmente brillante da produrre un immediato riscontro
commerciale e da portare la band al di fuori dei confini patri per un
lungo tour europeo, poi interrotto per la gravidanza della cantante.
A distanza di quattro anni da quell’entusiasmante esordio, Hannah torna sulle scene con un nuovo disco, Late Nights & Heartbreak e una band nuova di zecca. Registrato nei Quatermass Studio di Malcom Catto (già con Mulatu Astatke), Late Nights & Heartbreak
si è avvalso dello straordinario contributo degli Affirmations,
inesausti macinatori di chilometri di groove, capitanati da James
Graham, che è anche l’autore di quasi tutti i brani in scaletta di
questo nuovo 50 Foot Woman.
Un
disco, quest’ultimo, che arriva a suggellare un periodo in cui la
notorietà della Williams ha visto una decisa impennata, grazie a un
sample di una sua canzone inserito nel brano 4:44 di Jay-Z.
Registrato presso gli Ata Studios di Leeds e prodotto da Shawn Lee, 50 Foot Woman
ribadisce il ruolo di Hannah Williams come una delle musiciste più
elettrizzanti della scena soul britannica, plasmando definitivamente una
cifra stilistica, forse non molto originale, ma di sicuro connotata da
classe cristallina. Forte della collaborazione con gli Affirmations,
band collaudatissima, che crea un velluto sonoro perfetto per la voce
della Williams, capace di alternare graffi da pantera bianca a colate di
miele alla liquerizia, la singer britannica dispiega tutto il suo
armamentario vintage di canzoni che impastano con sapienza soul, r’n’b’,
funk e gospel.
Suoni
retrò (esaltati dalla registrazione in analogico), e molti riferimenti
che non passeranno inosservati, primo dei quali, ovviamente, Sharon
Jones (ma tra le pieghe troverete molto altro). Undici canzoni in
scaletta che vanno dal palpitante r’n’b’ della title track, che si srotola rapida su una potentissima linea di basso, a ballate a lenta combustione come Sinner, fino alle ritmiche sincopate della splendida What Can We Do?,
introdotta da suadenti intrecci vocali e avvolta dalle spire
psichedeliche di un inusuale arrangiamento d’archi o al groove funky
dell’eccitante How Long?.
Più curato in fase di produzione rispetto ai precedenti lavori, 50 Foot Woman
è l’ennesima ottima prova di una cantante, capace di abbinare
un’emozionante verve interpretativa (grinta e pathos non mancano mai) a
un’eleganza formale che, nonostante la giovane età, è da veterana del
genere.
Jonathan Wilson annuncia oggi il nuovo album Dixie Blur
in uscita il 06 marzo su Bella Union [PIAS]. L’acclamato artista,
produttore e polistrumentista (Father John Misty, Laura Marling, Dawes)
ha trascorso il 2018 in viaggio con Roger Waters per il tour US + THEM,
in qualità di direttore musicale, chitarrista e voce, cantando le parti
di David Gilmour. Dopo il tour, decise di lasciare temporaneamente la
sua casa e il suo studio di Los Angeles per trasferirsi a Nashville.
Qui, insieme ad una serie di musicisti e al co-produttore Pat Sansone
dei Wilco, creò Dixie Blur, il suo album più personale e accessibile di sempre.
Per comprendere a fondo il sound di Dixie Blur, ascoltate “So Alive” e “Korean Tea”. Il video per il recente singolo “69 Corvette”,
mostra dei filmati tratti dalle sessioni di registrazione in studio, ma
anche delle scene personali della sua infanzia che aiutano ad
illustrare la storia di Dixie Blur. Nato nel
North Carolina, Jonathan si trasferì a Los Angeles 15 anni fa, dove
divenne presto un artista e produttore di tutto rispetto e parte
integrante della comunità. A Los Angeles registrò i suoi acclamati album
Gentle Spirit (2011), Fanfare (2013) e Rare Birds (2018).
Sia per la scrittura che per le registrazioni di Dixie Blur,
Wilson ha adottato un metodo completamente diverso. I brani si rifanno
alle sue radici southern, sia dal punto di vista musicale che da quello
personale. A Nashville Wilson ha registrato al Sound Emporium Studio di
Cowboy Jack Clement in compagnia di una serie di turnisti tra i più
leggendari in circolazione: Mark O’Connor (violino), Kenny Vaughan
(chitarra) Dennis Crouch (basso), Russ Pahl (pedal steel) and Jim Hoke
(armonica, legni), Jon Radford (batteria), and Drew Erickson (tastiere).
Insieme hanno registrato in presa diretta con pochissime
sovraincisioni. Infine Jonathan ha mixato l’album al Groovemasters
Studio di Jackson Browne. Il risultato è un album sorprendente, ricco di
brani caldi, ponderati e melodiosi che hanno un impatto immediato, ma
che crescono mano a mano che li si ascolta.
Con Dixie Blur
Jonathan Wilson trova magistralmente un compromesso unendo la musica
con il quale è cresciuto ad un approccio ricco di trame moderne e
paesaggi sonori estetici.
Tra marzo e aprile Wilson partirà per un tour europeo che include una data allla nuova venue londinese Lafayette.
Più
di quarant’anni di carriera, ottanta milioni di dischi venduti e un
filotto di hit che hanno scalato i piani alti delle classifiche di mezzo
mondo (si pensi a un singolo come I Want To Know What Love Is)
fanno dei Foreigner una sorta d’istituzione del rock. Formatisi nel
1976 dall’incontro fra il chitarrista Mick Jones, il sassofonista Ian
McDonald (ex King Crimson), dall’ex batterista di Ian Hunter, Dennis
Elliot e da i newyorkesi Al Greenwood (tastiere), Lou Gramm (voce) e Ed
Gagliardi (basso), la band anglo americana ha vissuto a cavallo fra la
fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80 un decennio di gloria,
diluendo un hard rock coriaceo (almeno agli inizi di carriera) con
melodie mainstream di facilissima presa. Dopo di che, è stato solo un
proliferare di raccolte e dischi dal vivo (fatti salvi tre album in
studio, tra il 1991 e il 2009, francamente prescindibili), che non hanno
aggiunto o tolto niente al glorioso passato e che non hanno offuscato
la fama di un gruppo che, ancora oggi, vanta una nutrita schiera di fan.
Per
celebrare degnamente i quarant’anni di carriera (o meglio, visto il
titolo del live che rievoca quello del loro disco più famoso e premiato,
Double Vision, appunto), la earMusic pubblica questo disco dal vivo,
disponibile su CD, vinile, DVD e Blu-ray, che vede riuniti per la prima
volta tutti i membri della band, sia quelli attuali che quelli storici.
I membri originali Lou Gramm, Al Greenwood, Dennis Elliott, Ian
McDonald e Rick Wills salgono, quindi, sul palco con Mick Jones e gli
attuali Foreigner (Kelly Hansen, Tom Gimbel, Jeff Pilson, Michael
Bluestein, Bruce Watson e Chris Frazier) per dare lustro ad alcune delle
canzoni di maggior successo, che riportano alla memoria ricordi
indelebili per i fan di lunga data e grandi emozioni per i nuovi.
L’aspetto più interessante di questo evento celebrativo resta senz’altro
il film che accompagna l’uscita del disco: girato in 4K Ultra HD
utilizzando più di 24 videocamere, il film concerto presenta uno
straordinario design multimediale, con animazione CGI, laser, nebbia ed
effetti elaborati che rendono la performance della band visivamente
impressionante.
Per
quanto riguarda il live act, i singoli di grande successo, quelli
grazie quali i Foreigner hanno alimentato la propria fama, ci sono quasi
tutti: da Double Vision a Hot Blooded, da Dirty White Boy a Urgent, da Long Long Way From Home a, ovviamente, I Want To Know What LoveIs,
le grandi hit si sprecano. Piaccia o meno il genere, poi, l’impatto
sonoro e l’esecuzione tecnica è da veri fuoriclasse, come testimonia il
tiro incredibile di canzoni come Juke Box Hero, Head Knocker o la citata Dirty White Boy. E quando nel finale esplode il sing along di I Want To Know What Love Is, cantata dal pubblico con un trasporto quasi commovente, è inevitabile che un brivido di emozione attraversi la schiena.
Double Vision: Then And Now
è un bel regalo fatto ai fan di lunga data e un ottimo viatico, per gli
altri, per conoscere una band, che da tempo ormai ha sparato le
cartucce migliori, ma che dal vivo è ancora in grado di fare centro, con
impeccabile professionismo e immutata passione.
M. Ward annuncia il nuovo album Migration Stories in uscita il 03 aprile su Anti Records. Scrittore, produttore e musicista, M. Ward
si è affermato come una delle voci più versatili e uniche nel panorama
moderno della musica americana. Per il suo decimo album è stato
nel Quebec, Canada, per lavorare con Tim Kingsbury e Richard Reed Parry, membri degli Arcade Fire, il produttore/fonico Craig Silvey (Arcade Fire, Arctic Monkeys, Florence and the Machine) e Teddy Impakt.
Insieme, negli studi di Montreal degli Arcade Fire, hanno registrato
una collezione di brani ispirati alle storie di migrazione umana. I
racconti quasi onirici di questi 11 brani sono nati dalle immagini
tratte dai servizi sui giornali e dai notiziari televisivi, dalle storie
raccontate dagli amici e dai racconti tratti dalla storia famigliare di
Ward.
The Head On The Door
è quello che potremmo definire un disco di passaggio, un’opera che
traghetta definitivamente i Cure dal post punk crepuscolare della prima
parte di carriera (Pornography risale a solo tre anni prima, ma
sembra lontanissimo nel tempo) verso un suono che si farà sempre più
variegato e contiguo al pop (una mutazione già iniziata, peraltro, coi
precedenti Japanese Whispers e The Top).
Un
album che, nonostante segni un’importante transizione dalle atmosfere
gotiche degli album dei primi anni ’80 verso contesti più mainstream,
convince per l’impianto sonoro coeso (è il primo disco in cui i Cure
funzionano come band e non solo come proiezione dell’estetica decadente
di Robert Smith) e al contempo risulta imprevedibile, accostando hit
clamorose (il pop dagli echi smithsiani di InBetween Days e la filastrocca maliziosa Close To Me), a rock chitarristico (Push), riusciti esperimenti di post punk spagnoleggiante (The Blood) e ballate malinconiche in salsa (vagamente) orientale (Kyoto Song).
In
questo coacervo di idee tanto disparate e sperimentali quanto vincenti
(il disco darà alla band un inaspettato successo commerciale), spunta A Night Like This,
piccolo gioiello di struggimenti definitivi, attraversato da un senso
di tragedia imminente che incombe nel sax disperato di Ron Howe. E’ la
storia di un amore che sta collassando, di un relazione sull’orlo del
baratro (“Dì arrivederci in una notte come questa/se è l’ultima cosa
che mai faremo/Non sei mai sembrata persa come ora/Per favore rimani/
Ma ti guardo come se fossi fatta di pietra/mentre cammini via”) in cui la scrittura di Robert Smith torna a vestirsi dell’enfasi pessimistica che aveva caratterizzato i lavori precedenti.
Perfetta
colonna sonora per terremoti sentimentali e vertice di un disco, a cui
manca il fascino dei Cure più gotici e presbiteriani, ma che resta la
prova convincente di una band consapevole e ispirata.