martedì 31 dicembre 2019

I DISCHI: LA TOP TEN DEL 2019


1 THE SLOW SHOW - LUST & LEARN






2 NICK CAVE & THE BAD SEEDS - GHOSTEEN



3 BRUCE SPRINGSTEEN - WESTERN STARS



4 HEALTH & BEAUTY - SHAME ENGINE/BLOOD PRESSURE



5 MICHAEL KIWANUKA - KIWANUKA 



6 KATE DAVIS - TROPHY





7 BALTHAZAR - FEVER



8 BLACK MIDI - SCHLAGENHEIM



9 BLACK PUMAS - BLACK PUMAS



10 MISS VELVET & THE BLUE WOLF - FEED THE WOLF


CI SONO PIACIUTI ANCHE:

ALLISON MOORER - BLOOD
MIRANDA LAMBERT - WILDCARD
CHEAP WINE - FACES
CHRIS HORSES BAND - DEAD END AND A LITTLE LIGHT
BONNIE BISHOP - THE WALK
GOSPELBEACH - LET IT BURN
LANA DEL REY -NORMAN FUCKING ROCKWELL
LAUREN TATE - SONGS FOR SAD GIRLS
IGGY POP - FREE
RIVAL SONS - FERAL ROOTS


Blackswan, martedì 31/12/2019

lunedì 30 dicembre 2019

HOME - DEPECHE MODE (Mute Records, 1997)




Quando il 15 aprile del 1997 esce Ultra, nono disco della discografia dei Depeche Mode, la band è stata a un passo dallo scioglimento. Meglio: dall’implosione. Il tastierista Alan Wilder se ne va, sbattendo la porta, e il colpo mina non poco i già fragili equilibri tra i membri della band.
La situazione che preoccupa di più è quella di Dave Gahan, in preda a una tossicodipendenza feroce, che gli impedisce di partecipare stabilmente alle sessioni di registrazione e di suonare dal vivo (Ultra non avrà un tour promozionale). Non solo: Gahan rischia di finire all’altro mondo per un’overdose di speedball (un mix di cocaina ed eroina), che lo porta alla morte clinica per tre minuti, prima di venire miracolosamente rianimato.
Non è però l’unica ad avere problemi di dipendenza, perché la mente pensante del gruppo, Martin Gore, da anni intrattiene un rapporto strettissimo con la bottiglia per combattere ripetuti attacchi di panico, tanto da non poter fare a meno di bere prima di salire sul palco.
Alla luce di questa situazione estremamente delicata, Ultra rappresenta, pertanto, una vera e proprio ripartenza, una sorta di disco della rinascita, l’album che segna il passaggio a una seconda parte di carriera, che lascia alle spalle il peggio e che guarda al futuro, rielaborando un lungo periodo di sofferenze e incertezze e rinnovando il suono, che assume sfumature virate decisamente verso il trip hop. Non un disco ispiratissimo, forse, ma considerati tutti i problemi che hanno segnato gli ultimi anni della band, decisamente un buon lavoro, caratterizzato peraltro da alcune ottime canzoni.
Home fu il terzo singolo tratto dal disco, un brano che, nelle intenzioni del gruppo, simboleggiava lo sprone per un ritorno alla normalità e che, strano a dirsi, non ebbe un grande riscontro di vendite in patria (arrivò solo alla ventitreesima piazza delle charts britanniche), mentre, invece, raggiunse un inaspettato successo commerciale proprio in Italia, dove conquistò il primo posto delle classifiche nazionali.
Scritta e cantata da Martin Gore e attraversata da un profondo senso di inquietudine e malinconia, Home parla di salvezza e riabilitazione, è il ringraziamento di un uomo che ha vinto la disperazione e ha ritrovato la strada di casa, uscendo dall’incubo della dipendenza (“E ti ringrazio per avermi portato qui, per avermi mostrato casa, per aver cantato queste lacrime, alla fine ho capito…”). Una canzone che parla dell’esperienza di Gore con l’alcolismo, certo, ma che ben si adatta anche alla situazione di Gahan, che proprio in quel momento sta combattendo una battaglia durissima per disintossicarsi dalle droghe.





Blackswan, martedì 30/12/2019

sabato 28 dicembre 2019

GRACE POTTER - DAYLIGHT (Fantasy, 2019)

Può capitare, nonostante il successo e la fama, che qualcosa non torni, che un ruolo o un’espressione artistica, ancorché consolidate, vadano strette e non siano più soddisfacenti. Grace Potter a capo della band dei Nocturnals, per un quinquennio almeno ha acquisito visibilità da autentica star, ha venduto dischi e ha scalato le classifiche americane con alcuni singoli, che hanno avuto un interessante riscontro anche fuori dei confini nazionali.
Poi, qualcosa si è rotto e quella dimensione, apparentemente appagante, ha finito per essere solo un ingombro per una nuova avventura che, evidentemente, la Potter sentiva più nelle sue corde. Così, gli ultimi anni della trentaseienne cantante e polistrumentista originaria del Vermont sono stati dedicati al cambiamento. Dopo aver sciolto la sua band di lunga data, i Nocturnals, ha pubblicato, nel 2015, un disco solista, Midnight, più pop-oriented. Poco dopo, ha divorziato dal marito nonché batterista dei Nocturnals, Matt Burr, e ha iniziato una nuova relazione con il produttore di Midnight (e di questo nuovo Daylight) Eric Valentine, con cui nel 2018 ha avuto un figlio.
Tutti questi eventi fanno inevitabilmente da sfondo alle canzoni del nuovo album, ne hanno in qualche modo suggerito i testi, in un ondivago alternarsi fra la felicità per una nuova relazione e per la maternità, e più serie meditazioni sul cambiamento e la fine del precedente rapporto. Ne hanno soprattutto ispirato la musica. Una musica che, come in tutti i riti di passaggio, non riesce a essere uniforme e coesa, ma imbocca, per tentativi, diverse strade, sta in bilico fra un passato che non può essere completamente cancellato e le pulsioni più smaccatamente mainstream del precedente Midnight.
C’è un po’ di confusione in queste undici canzoni, qualche momento debole, poco centrato e non adeguatamente strutturato, ma anche il desiderio di non accomodarsi nella comfort zone a cui per anni Grace si era abituata, soprattutto nella seconda parte del disco, quella sicuramente più ispirata e con i brani migliori.
Le tre canzoni che aprono Daylight, Love Is Love, On My Way e Back to Me, sono ognuna completamente diversa l'una dall'altra, trasmettono, almeno al primo ascolto, un senso di dispersione e non sono certo il fiore all’occhiello del disco: il pop venato di soul della prima, il rock grintoso della seconda e le sonorità blues gospel della terza, diluite però dall’acqua zuccherina di archi disco dal sapore seventies, sono episodi decisamente modesti, e suonano come se fossero delle bonus track utili a far da riempitivo.
Le cose cambiano, però, a partire da Every Heartbeat, canzone più legata al passato, in cui Grace dà prova della sua gran voce su una melodia orecchiabilissima, ma non stucchevole. La vetta del disco è la successiva Release, una ballata per pianoforte lenta, ispirata, emozionata, attraversata da una delle migliori performance vocali che la Potter abbia mai registrato. Un lirismo nudo e scarno con cui Grace espone senza filtri la profondità della propria anima, raccontando la storia della sua precedente relazione finita e mettendo un punto alla fine di un capitolo in modo che il prossimo possa iniziare.
Da questo momento in avanti il disco decolla, inanellando un filotto di brani tutti di buon livello, a partire da Shout It Out, che echeggia alla Band e si sviluppa su un tappeto di organo magistralmente intrecciato da Benmont Tench (ospite fisso in quasi tutte le canzoni) e per finire con la splendida title track, in cui la songwriter mostra i muscoli, sfoderando un grintosissimo cantato, che giustifica gli azzardati paragoni letti in passato a proposito di una somiglianza vocale con la grande Janis Joplin.
Una canzone davvero notevole con cui la Potter sigilla un lavoro che non è tutto della stessa caratura, ma che mostra un’artista vogliosa di rimettersi in gioco e con tutte le carte in regola per fare bene. Basta scegliere una strada e percorrerla con coraggio e ostinazione. Con una voce così, tutto è possibile. 

VOTO: 7





Blackswan, sabato 28/12/2019

venerdì 27 dicembre 2019

IL 2019 IN DODICI CANZONI (Parte 4°)

Dodici canzoni, una per ogni mese, che hanno segnato il 2019 e di cui, magari, ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno. 

NICK CAVE AND THE BAD SEEDS - BRIGHT HORSES





MICHAEL KIWANUKA - HERO





THE CLAYPOOL LENNON DELIRIUM - BLOOD AND ROCKETS





Blackswan, venerdì 27/12/2019

giovedì 26 dicembre 2019

IL 2019 IN DODICI CANZONI (Parte 3°)

Dodici canzoni, una per ogni mese, che hanno segnato il 2019 e di cui, magari, ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno. 


GRADE 2 - GRAVEYARD ISLAND





LANA DEL REY - VENICE BITCH





THE SLOW SHOW - EYE TO EYE





Blackswan, giovedì 26/12/2019

martedì 24 dicembre 2019

IL 2019 IN DODICI CANZONI (Parte 2°)

Dodici canzoni, una per ogni mese, che hanno segnato il 2019 e di cui, magari, ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno.

BILLIE EILISH - I LOVE YOU





THE CRANBERRIES - LOST





BRUCE SRPINGSTEEN - HITCH HIKIN'





Blackswan, martedì 24/12/2019

lunedì 23 dicembre 2019

IL 2019 IN DODICI CANZONI (PARTE 1°)

Dodici canzoni, una per ogni mese, che hanno segnato il 2019 e di cui, magari, ci ricorderemo anche negli anni a venire. Una sorta di playlist molto personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe mai esserlo?), ma che cerca di rappresentare al meglio quanto ascoltato durante l'anno.

BLACK PUMAS - COLORS 





JADE BIRD - UH HUH!





YOLA - RIDE OUT IN THE COUNTRY





Blackswan, lunedì 23/12/2019

domenica 22 dicembre 2019

SUSANNE SUNDFOR _ MUSIC FOR PEOPLE IN TROUBLE: LIVE FROM THE BARBICAN (Bella Union, 2019)

Pur avendo acquisito nel tempo una certa notorietà internazionale, Susanne Sundfør resta comunque un’artista che vive ai margini del clamore mediatico. La trentenne songwriter norvegese, infatti, se è vero che in patria è considerata una sorta d’istituzione, resta comunque sconosciuta ai più, la classica musicista di nicchia per pochi appassionati dal palato fine.
Nipote di Kjell Aartun, teologo e linguista di fama mondiale, laureata, atea, politicamente militante a sinistra, Susanne ha iniziato da bambina a studiare pianoforte e canto, concludendo il suo iter formativo e di studi nel 2007, anno in cui ha visto la luce il suo primo e omonimo album. Oggi, nel pieno della maturità artistica, vanta collaborazioni importanti (Royskopp, M83, Madrugada, Mercury Rev, etc) e una discografia composta già da otto album (tre dal vivo), compreso quello che stiamo per raccontare.
Difficile dare una connotazione di genere alla musica creata dalla songwriter norvegese: i suoi dischi sono concettualmente colti, a tratti sperimentali, sempre comunque figli di un eclettismo che rende Susanne una delle artiste più interessanti in circolazione. In definitiva, si può dire che questa musica sia un continuo rimescolare le carte: synth pop, dream pop, electropop, jazz, art pop, drone music, ambient, soul e country folk sono solo alcuni dei generi che potreste individuare ascoltando uno dei suoi album. Se i primi due dischi avevano connotazioni maggiormente cantautorali, il terzo, The Brothel, ha segnato un deciso scarto verso l’elettronica, confermato poi dal successivo, bellissimo, Ten Love Songs, un’opera segnata da sonorità clamorosamente synth pop.
Con Music For People In Trouble (2017), Susanne è tornata a una concezione canzone più scarna ed essenziale, asciugando gli arrangiamenti dei brani, utilizzando talvolta un solo strumento e mettendo in luce soprattutto la sua bellissima voce, capace con eclettismo di spaziare fra diversi registri.
Music For People In Trouble: Live From The Barbican, come si evince dal titolo, è la trasposizione live dell’intera scaletta del precedente disco in studio. Nessuna novità sconvolgente, dunque, e nessuna canzone, nuova o vecchia, che scompagini un filotto di canzoni riproposte, peraltro, nello stesso ordine in cui comparivano nel disco di appartenenza. C’è però la possibilità di ascoltare Susanne dal vivo, dimensione nella quale la ragazza norvegese si sente molto a suo agio (come dicevamo sono tre i dischi live nella sua discografia), e di godere della splendida atmosfera sospesa di un live act che fotografa al meglio un’artista talentuosa, appassionata ed eclettica.
Insomma, bello era Music For People In Trouble e bella è questa riproposizione che alterna la povertà francescana e la purezza intimista dell’iniziale Mantra, il country folk accarezzato dalla pedal steel di Reincarnation, i languori pianistici di Good Luck, Bad Luck, il clarinetto e il violoncello che avvolgono nell’ombra la melodia drammatica di Bedtime Story e il crescendo appassionato di Undercover (con quel finale che richiama alla memoria Kate Bush).
Dieci canzoni decisamente emozionanti, legate dal fil rouge della voce espressiva, avvolgente e versatile della Sundfør, una capace di centrare il bersaglio grosso del cuore dopo solo due strofe.
Un disco forse inutile per chi già conosce la songwriter norvegese, ma che per tutti gli altri può rappresentare l’abbrivio per fare la conoscenza di una delle artiste più genuinamente talentuose e originali oggi in circolazione.

VOTO: 7 





Blackswan, domenica 22/12/2019

venerdì 20 dicembre 2019

THE WHO - WHO (Polydor, 2019)

Una premessa, mai come per questo disco, è indispensabile. Mettete il vinile sul piatto o il cd del lettore, cercando di dimenticare chi erano gli Who. Anzi, ancora meglio, fate uno sforzo ulteriore e immaginate che questo sia il disco d’esordio di una band che ascoltate per la prima volta. Così facendo, salverete la vostra libertà intellettuale e l’obbiettività del giudizio. Dimenticate, quindi, che sono passati cinquantaquattro anni da quando uscì My Generation, dimenticate l’epos di Quadrophenia, Tommy e Who’s Next, dimenticate che questo è il primo album in studio dal 2006, dimenticate soprattutto che queste due simpatiche canaglie si portano sulle spalle centocinquant’anni in due, settantacinque a testa.
Perché è quasi inevitabile essere prevenuti di fronte a un disco come questo, frutto di una nuova collaborazione fra due, Roger Daltrey e Pete Townshend, che hanno passato da un bel pezzo l’età della pensione, e che nell’immaginario di molti detrattori sono considerati aprioristicamente due balene spiaggiate, due dinosauri sopravvissuti stancamente al logorio del tempo e che, ovviamente, non hanno più nulla da dire, se non lucidare a fini economici un illustre marchio di fabbrica.
Invece, non è così, perché Who è un buon disco, che si fa ascoltare con piacere e regala ancora momenti degni di essere ricordati. Certo, il songwriting di Townshend non è più scintillante come un tempo, e Daltrey, ma questo è inevitabile, ha cambiato modo di cantare, e cerca molto di più la sfumatura e la profondità che la potenza. Who, poi, è un disco molto più pop che rock, fa dispiego di archi e di synth e ammicca anche al mainstream.
Non c’è però l’effetto nostalgia che molti si potevano immaginare: Daltrey e Townshend non replicano se stessi, non posano come le stanche controfigure degli eroi dei tempi gloriosi, ma cercano altre strade per mettere in gioco le loro idee ed essere ancora credibili. Così Who è un disco che riesce a tenere insieme un suono classico e aperture a sonorità più moderne: senza forzature, con semplicità e, e lo dico senza nostalgia, con una classe che nonostante gli anni resta ancora cristallina.
Non tutto è centrato (ma quanto sono rari i casi in cui un filotto di canzoni siano tutte egualmente all’altezza?) e la prima parte del disco è decisamente più ispirata rispetto alla seconda.
All This Music Must Fade apre il disco con un tiro incredibile e per un attimo sembra che tutto sia rimasto immutato, dal momento questa canzone è quella più decisamente “Who” di tutto il lotto. Certo ci sono anche degli episodi che fanno storcere il naso, come avviene nel folk pop alla Of Monsters And Men di Break The News, che se da un lato testimonia la volontà del duo di cercare un approccio alla modernità, risulta, per quanto gradevole, lontanissima dalle attitudini della band. Però, nel complesso il disco tiene, e bene, con canzoni come Detour, Rockin’ In Rage, Street Song e Ball And Chain che sono tutt’altro che da buttare, anzi.
So che è impresa ardua convincere chi ritiene gli Who un gruppo finito già alla fine degli anni ’70 e questa una musica buona per vecchi e nostalgici rocker che non riescono a farsi una ragione del tempo che passa. Tuttavia, bypassare il disco senza dargli una possibilità sarebbe ingiusto. Daltrey e Townshend saranno anche due arzilli vecchietti, ma il loro lo sanno ancora fare, e Who, che non è certo una delle uscite più significative del 2019, si fa comunque voler bene. E non è la nostalgia a decidere, ma un pugno di buone canzoni.

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 20/12/2019


giovedì 19 dicembre 2019

ROBERT HARRIS - IL SONNO DEL MATTINO (Mondadori, 2019)

  1. È quasi sera quando un giovane prete, Christopher Fairfax, giunge in un remoto villaggio della regione di Exmoor in Inghilterra per celebrare il funerale del parroco, padre Thomas Lacy, morto una settimana prima. Tutto in quel luogo gli appare inquietante: la terra desolata è disseminata di manufatti antichi, monete, frammenti di vetro, ossa umane, che il vecchio parroco collezionava di nascosto in modo meticoloso, quasi cercasse delle risposte alla sua esistenza e le prove di una civiltà fatalmente scomparsa. Al piano superiore dell’appartamento di padre Thomas il suo corpo senza vita è adagiato nella bara, coperto di ferite e in parte sfigurato. La versione ufficiale è che sia caduto, ma Christopher sospetta che ci sia dell’altro: nella biblioteca ritrova infatti dei libri “proibiti” che parlano di un mondo lontano che non esiste più. È forse questa ossessione per il passato l’eresia che ha portato il parroco alla morte? Cercando di vincere la reticenza e l’ambiguità degli abitanti di quel luogo isolato, Christopher è determinato a scoprire la verità e nell’arco di soli sei giorni tutto ciò in cui ha sempre creduto, la sua fede e la storia del mondo, sarà messo alla prova fino a essere distrutto
    .
L’idea di partenza che anima la trama de Il Sonno Del Mattino è decisamente buona: immaginare un mondo futuro sopravvissuto a una catastrofe (nucleare?), che ha però le sembianze del più oscuro e oscurantista medioevo. Nell’Inghilterra creata dalla fantasia di Harris il dominio della Chiesa è totale, la fede religiosa il comun denominatore che lega tanti poveracci alle prese con un’esistenza tetra e senza attesa, la superstizione e il timore di Dio usati come mordacchia per tenere a freno ogni tipo di ribellione, e l’eresia di chi cerca di studiare gli eventi del passato, considerata il più grave dei reati penali e perseguita senza quartiere da tribunali religiosi tramite violenti sistemi coercitivi (tra cui la marchiatura a fuoco).
Su questo contesto distopico, si innesta poi una trama vagamente thriller, che vede il giovane prete Christopher Fairfax indagare sulla morte, all’apparenza accidentale, di un curato di campagna. Le premesse per un romanzo palpitante e affascinante ci sono proprio tutte e le aspettative fin dalle prime pagine sono davvero alte.
Peccato, invece, che il pur bravo Robert Harris, autore di romanzi eccezionali come Fatherland, Enigma, L’ufficiale e La Spia, sia per l’occasione ai minimi termini in fatto d’ispirazione e scrittura. Il romanzo, infatti, procede stancamente, con una prima parte lenta e noiosa, ed accelera solo a metà, senza però quei colpi di scena che farebbero de Il Sonno Del Mattino una lettura quanto meno piacevole.
Al romanzo, infatti, mancano sia il corpo che l’anima, la scrittura è insipida, prevedibile, a tratti puerile; i personaggi sono tagliati con l’accetta e privi di ogni approfondimento psicologico che non sia di grana grossa. E anche l’ambientazione, che poteva essere il fiore all’occhiello del libro, è confusa, sfumata, imprecisa e totalmente priva di fascino. Insomma, il romanzo, si legge per forza d’inerzia, e non c’è veramente nulla che riesca a far trattenere il fiato o a emozionare. E non è un caso che anche il finale, nel quale in teoria tutti i nodi dovrebbero venire al pettine, sia invece frettoloso, forzato e privo degli elementi necessari a giustificare la lettura delle quasi trecento pagine che costituiscono il libro.

Blackswan, giovedì 19/12/2019

mercoledì 18 dicembre 2019

PREVIEW




Ren Harvieu annuncia l’atteso nuovo album Revel In The Drama, che uscirà il 3 aprile su Bella Union. L’album è una versione brillante e audace del suo pop senza tempo, un diario avvincente di lotta con la propria autostima e una celebrazione di libertà e sopravvivenza, sette anni dopo il suo album di debutto e dopo aver superato un incidente quasi letale. Pensate a Revel In The Drama come al secondo album di debutto di Ren Harvieu: un nuovo inizio.
Come assaggio, Ren condivide una nuova traccia dal titolo “Yes Please” che descrive come “una lenta danza sensuale di desiderio. Volevo scrivere sull’arte della seduzione.”
La sfida di Harvieu contro tutte le previsioni e la sua volontà di aprirsi per realizzare quello che sentiva dentro ribolle in ogni solco dell’album, in ogni svolta stilistica: il pop vertiginoso di “Strange Thing”, l’estasi gotica di “Cruel Disguise”, la seduzione di “Yes Please” fino alla commovente torch song finale “My Body She Is Alive”.
Harvieu ha fatto molta strada rispetto alla diciassettenne che firmò per la Island Records e che non aveva nessuna intenzione di diventare una cantautrice. Anche quando realizzò il suo album di debutto Through The Night, non credeva molto in se stessa. “Diedi una mano a scrivere alcune canzoni di quel disco, a cui sono ancora molto affezionata, ma mi sono sentita più che altro la portavoce del talento di qualcun altro, il che mi rodeva un po’ soprattutto perché avevo molte cose da dire ma non avevo ancora imparato a farlo.”
Il suo infortunio – una frattura alla spina dorsale in seguito a un “bizzarro incidente” accaduto tra la registrazione e l’uscita del suo album – ha minato ulteriormente l’artista. Non solo, la Island Records decise di rescindere il contratto sei mesi dopo la pubblicazione, nonostante il disco fosse nella Top 5, avesse partecipato a Sound Of 2012 della BBC e avesse ricevuto recensioni a cinque stelle. Seguirono quelli che Harvieu definisci “anni piuttosto bui”, che affronta in canzoni come “Spirit Me Away” e la ballata anni ’50 “You Don’t Know Me”. A ciò si aggiunga la separazione dal suo compagno, dal suo manager e dalla sua amata Salford. “In un batter d’occhio tutto era svanito. Sapevo di dover scappare, ricominciare tutto, ricostruirmi.”
Nel 2015 incontra Romeo Stodart, frontman dei Magic Numbers, che le aveva scritto dopo aver visto una sua esibizione dal vivo per proporle una collaborazione. “Quando abbiamo cominciato a lavorare, ho immediatamente sentito un’energia diversa, c’era questa folle connessione musicale istantanea,” dice Ren.
La coppia trascorre i successivi due anni a scrivere. “Non avevo molta fretta, perché alla fine mi stavo divertendo. Stavamo svegli tutta la notta a ballare, a bere e a suonare; mi sembrava di riscoprire la ragazza che ero stata e che era rimasta nascosta.”
L’album è stato coprodotto da Romeo Stodart e Dave Izumi Lynch, proprietario dello studio Echo Zoo di Eastbourne, dove hanno avuto luogo le registrazioni. “Lavorare con Romeo e Dave è stata un’esperienza davvero magica, sono due maghi musicali.”





Blackswan, mercoledì 18/12/2019

martedì 17 dicembre 2019

R.E.M. - E-BOW THE LETTER (Warner Bros., 2019)




New Adventures in HI-FI è l’ultimo disco dei R.E.M. in cui suona Bill Berry, che mollerà nel 1997, a causa di un aneurisma che lo ha colpito durante il tour di promozione del precedente Monster (1994). Ed è anche l’album che ha venduto meno nella storia della band di Athens, raggiungendo comunque il disco di platino sul mercato europeo.
Eppure, se si guarda la discografia dei R.E.M., New Adventures In Hi-FI ne è, indiscutibilmente, uno dei vertici: quattordici canzoni scorbutiche, declinate attraverso un suono solenne e al contempo frugale, prive di ogni artificio in fase di produzione ma comunque figlie di una consapevolezza stilistica a tutto tondo.
E-Bow The Letter è il primo singolo tratto dal disco, ed è una scelta inusuale, vista la durata della canzone, che supera i cinque minuti. Una scelta che non guarda le classifiche ma punta tutto sul sentimento di dolore che Michael Stipe ha provato per la morte dell’amico River Phoenix, lo sfortunato attore di Stand By Me e My Own Private Idaho, deceduto tre anni prima, il 31 ottobre del 1993, per un’overdose.
Il testo, infatti, rielabora il contenuto di una lettera, mai spedita, che Stipe aveva scritto a Phoenix, preoccupato per gli abusi di sostanze stupefacenti a cui era dedito l’amico. E’ anche, però, la fotografia di un’epoca che sta finendo, il peana su una generazione di ribelli che si è arresa e ha riposto le armi, o che è morta inutilmente sulle barricate, pagando con la vita il prezzo di un successo effimero.
Il magico duetto con Patti Smith e il disincanto di una melodia scabra e arresa raccontano l’amara confessione di un fallimento personale e generazionale (I wear my own crown of sadness and sorrow), e mettono a nudo Stipe, mai così sincero, sia come uomo che come autore.
Per la cronaca, l’E-Bow del titolo è un archetto elettronico per chitarra che utilizza Peter Buck nella canzone e che produce un suono simile a quello del violoncello o del violino.





Blackswan, martedì 17/12/2019

lunedì 16 dicembre 2019

HANNAH WILLIAMS & THE AFFIRMATIONS - 50 FOOT WOMAN (Record Kicks, 2019)

Correva l’anno del signore 2012, quando Hannah Williams, dopo una rapida ascesa, motivata da un cristallino talento e da un pizzico di fortuna, venne indicata dai media, e da qualche collega più famoso (cito per tutti, Sharon Jones e Charles Bradley) come la next big thing della scena nu soul britannica. Londinese, figlia d'arte, Hannah inizia a cantare fin da giovanissima, ma esce dal tunnel dell'anonimato solo quando, casualmente, durante un concerto in un piccolo pub dei sobborghi londinesi, incontra l’indimenticata Sharon Jones, che si innamora della sua bellissima voce.
Hannah, sotto il patrocinio della Jones, inizia a incidere singoli per una piccola etichetta indipendente, guadagnandosi qualche passaggio radio, grazie ai buoni offici di Craig Charles, conduttore di un programma alla BBC. Poco tempo dopo, un altro incontro fortuito: la Williams viene notata da Hillman Mondegreen, leader dei Tastemakers, affiatato gruppo di soul e R&B con un discreto seguito in patria, che la vuole alla voce solista. Hannah entra nella band, con la quale parte per un tour in Inghilterra e partecipa a vari festival.
E qui, si verifica il terzo colpo di fortuna, perchè Hannah Williams e i suoi Tastemakers vengono contattati da un’etichetta milanese, la Record Kicks, che propone loro un contratto per un disco. Di lì a breve, esce A Hill Of Feathers (trainato dal singolo Work It Out), un debutto talmente brillante da produrre un immediato riscontro commerciale e da portare la band al di fuori dei confini patri per un lungo tour europeo, poi interrotto per la gravidanza della cantante.
A distanza di quattro anni da quell’entusiasmante esordio, Hannah torna sulle scene con un nuovo disco, Late Nights & Heartbreak e una band nuova di zecca. Registrato nei Quatermass Studio di Malcom Catto (già con Mulatu Astatke), Late Nights & Heartbreak si è avvalso dello straordinario contributo degli Affirmations, inesausti macinatori di chilometri di groove, capitanati da James Graham, che è anche l’autore di quasi tutti i brani in scaletta di questo nuovo 50 Foot Woman.
Un disco, quest’ultimo, che arriva a suggellare un periodo in cui la notorietà della Williams ha visto una decisa impennata, grazie a un sample di una sua canzone inserito nel brano 4:44 di Jay-Z.
Registrato presso gli Ata Studios di Leeds e prodotto da Shawn Lee, 50 Foot Woman ribadisce il ruolo di Hannah Williams come una delle musiciste più elettrizzanti della scena soul britannica, plasmando definitivamente una cifra stilistica, forse non molto originale, ma di sicuro connotata da classe cristallina. Forte della collaborazione con gli Affirmations, band collaudatissima, che crea un velluto sonoro perfetto per la voce della Williams, capace di alternare graffi da pantera bianca a colate di miele alla liquerizia, la singer britannica dispiega tutto il suo armamentario vintage di canzoni che impastano con sapienza soul, r’n’b’, funk e gospel.
Suoni retrò (esaltati dalla registrazione in analogico), e molti riferimenti che non passeranno inosservati, primo dei quali, ovviamente, Sharon Jones (ma tra le pieghe troverete molto altro). Undici canzoni in scaletta che vanno dal palpitante r’n’b’ della title track, che si srotola rapida su una potentissima linea di basso, a ballate a lenta combustione come Sinner, fino alle ritmiche sincopate della splendida What Can We Do?, introdotta da suadenti intrecci vocali e avvolta dalle spire psichedeliche di un inusuale arrangiamento d’archi o al groove funky dell’eccitante How Long?.
Più curato in fase di produzione rispetto ai precedenti lavori, 50 Foot Woman è l’ennesima ottima prova di una cantante, capace di abbinare un’emozionante verve interpretativa (grinta e pathos non mancano mai) a un’eleganza formale che, nonostante la giovane età, è da veterana del genere.

VOTO: 7





Blackswan, lunedì 16/12/2019

domenica 15 dicembre 2019

PREVIEW



Jonathan Wilson annuncia oggi il nuovo album Dixie Blur in uscita il 06 marzo su Bella Union [PIAS]. L’acclamato artista, produttore e polistrumentista (Father John Misty, Laura Marling, Dawes) ha trascorso il 2018 in viaggio con Roger Waters per il tour US + THEM, in qualità di direttore musicale, chitarrista e voce, cantando le parti di David Gilmour. Dopo il tour, decise di lasciare temporaneamente la sua casa e il suo studio di Los Angeles per trasferirsi a Nashville. Qui, insieme ad una serie di musicisti e al co-produttore Pat Sansone dei Wilco, creò Dixie Blur, il suo album più personale e accessibile di sempre.
Per comprendere a fondo il sound di Dixie Blur, ascoltate “So Alive” e “Korean Tea”. Il video per il recente singolo “69 Corvette”, mostra dei filmati tratti dalle sessioni di registrazione in studio, ma anche delle scene personali della sua infanzia che aiutano ad illustrare la storia di Dixie Blur. Nato nel North Carolina, Jonathan si trasferì a Los Angeles 15 anni fa, dove divenne presto un artista e produttore di tutto rispetto e parte integrante della comunità. A Los Angeles registrò i suoi acclamati album Gentle Spirit (2011), Fanfare (2013) e Rare Birds (2018).
Sia per la scrittura che per le registrazioni di Dixie Blur, Wilson ha adottato un metodo completamente diverso. I brani si rifanno alle sue radici southern, sia dal punto di vista musicale che da quello personale. A Nashville Wilson ha registrato al Sound Emporium Studio di Cowboy Jack Clement in compagnia di una serie di turnisti tra i più leggendari in circolazione: Mark O’Connor (violino), Kenny Vaughan (chitarra) Dennis Crouch (basso), Russ Pahl (pedal steel) and Jim Hoke (armonica, legni), Jon Radford (batteria), and Drew Erickson (tastiere). Insieme hanno registrato in presa diretta con pochissime sovraincisioni. Infine Jonathan ha mixato l’album al Groovemasters Studio di Jackson Browne. Il risultato è un album sorprendente, ricco di brani caldi, ponderati e melodiosi che hanno un impatto immediato, ma che crescono mano a mano che li si ascolta.
Con Dixie Blur Jonathan Wilson trova magistralmente un compromesso unendo la musica con il quale è cresciuto ad un approccio ricco di trame moderne e paesaggi sonori estetici. 
Tra marzo e aprile Wilson partirà per un tour europeo che include una data allla nuova venue londinese Lafayette.





Blackswan, domenica 15/12/2019

venerdì 13 dicembre 2019

FOREIGNER - DOUBLE VISION: THEN AND NOW (earMusic, 2019)

Più di quarant’anni di carriera, ottanta milioni di dischi venduti e un filotto di hit che hanno scalato i piani alti delle classifiche di mezzo mondo (si pensi a un singolo come I Want To Know What Love Is) fanno dei Foreigner una sorta d’istituzione del rock. Formatisi nel 1976 dall’incontro fra il chitarrista Mick Jones, il sassofonista Ian McDonald (ex King Crimson), dall’ex batterista di Ian Hunter, Dennis Elliot e da i newyorkesi Al Greenwood (tastiere), Lou Gramm (voce) e Ed Gagliardi (basso), la band anglo americana ha vissuto a cavallo fra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80 un decennio di gloria, diluendo un hard rock coriaceo (almeno agli inizi di carriera) con melodie mainstream di facilissima presa. Dopo di che, è stato solo un proliferare di raccolte e dischi dal vivo (fatti salvi tre album in studio, tra il 1991 e il 2009, francamente prescindibili), che non hanno aggiunto o tolto niente al glorioso passato e che non hanno offuscato la fama di un gruppo che, ancora oggi, vanta una nutrita schiera di fan.
Per celebrare degnamente i quarant’anni di carriera (o meglio, visto il titolo del live che rievoca quello del loro disco più famoso e premiato, Double Vision, appunto), la earMusic pubblica questo disco dal vivo, disponibile su CD, vinile, DVD e Blu-ray, che vede riuniti per la prima volta tutti i membri della band, sia quelli attuali che quelli storici.  I membri originali Lou Gramm, Al Greenwood, Dennis Elliott, Ian McDonald e Rick Wills salgono, quindi, sul palco con Mick Jones e gli attuali Foreigner (Kelly Hansen, Tom Gimbel, Jeff Pilson, Michael Bluestein, Bruce Watson e Chris Frazier) per dare lustro ad alcune delle canzoni di maggior successo, che riportano alla memoria ricordi indelebili per i fan di lunga data e grandi emozioni per i nuovi. L’aspetto più interessante di questo evento celebrativo resta senz’altro il film che accompagna l’uscita del disco: girato in 4K Ultra HD utilizzando più di 24 videocamere, il film concerto presenta uno straordinario design multimediale, con animazione CGI, laser, nebbia ed effetti elaborati che rendono la performance della band visivamente impressionante.
Per quanto riguarda il live act, i singoli di grande successo, quelli grazie quali i Foreigner hanno alimentato la propria fama, ci sono quasi tutti: da Double Vision a Hot Blooded, da Dirty White Boy a Urgent, da Long Long Way From Home a, ovviamente, I Want To Know What Love Is, le grandi hit si sprecano. Piaccia o meno il genere, poi, l’impatto sonoro e l’esecuzione tecnica è da veri fuoriclasse, come testimonia il tiro incredibile di canzoni come Juke Box Hero, Head Knocker o la citata Dirty White Boy. E quando nel finale esplode il sing along di I Want To Know What Love Is, cantata dal pubblico con un trasporto quasi commovente, è inevitabile che un brivido di emozione attraversi la schiena.
Double Vision: Then And Now è un bel regalo fatto ai fan di lunga data e un ottimo viatico, per gli altri, per conoscere una band, che da tempo ormai ha sparato le cartucce migliori, ma che dal vivo è ancora in grado di fare centro, con impeccabile professionismo e immutata passione.

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 13/12/2019

giovedì 12 dicembre 2019

PREVIEW




M. Ward annuncia il nuovo album Migration Stories in uscita il 03 aprile su Anti Records. Scrittore, produttore e musicista, M. Ward si è affermato come una delle voci più versatili e uniche nel panorama moderno della musica americana. Per il suo decimo album è stato nel Quebec, Canada, per lavorare con Tim Kingsbury e Richard Reed Parry, membri degli Arcade Fire, il produttore/fonico Craig Silvey (Arcade Fire, Arctic Monkeys, Florence and the Machine) e Teddy Impakt. Insieme, negli studi di Montreal degli Arcade Fire, hanno registrato una collezione di brani ispirati alle storie di migrazione umana. I racconti quasi onirici di questi 11 brani sono nati dalle immagini tratte dai servizi sui giornali e dai notiziari televisivi, dalle storie raccontate dagli amici e dai racconti tratti dalla storia famigliare di Ward.





Blackswan, giovedì 12/12/2019

mercoledì 11 dicembre 2019

THE CURE - A NIGHT LIKE THIS (Fiction, 1985)




The Head On The Door è quello che potremmo definire un disco di passaggio, un’opera che traghetta definitivamente i Cure dal post punk crepuscolare della prima parte di carriera (Pornography risale a solo tre anni prima, ma sembra lontanissimo nel tempo) verso un suono che si farà sempre più variegato e contiguo al pop (una mutazione già iniziata, peraltro, coi precedenti Japanese Whispers e The Top).
Un album che, nonostante segni un’importante transizione dalle atmosfere gotiche degli album dei primi anni ’80 verso contesti più mainstream, convince per l’impianto sonoro coeso (è il primo disco in cui i Cure funzionano come band e non solo come proiezione dell’estetica decadente di Robert Smith) e al contempo risulta imprevedibile, accostando hit clamorose (il pop dagli echi smithsiani di In Between Days e la filastrocca maliziosa Close To Me), a rock chitarristico (Push), riusciti esperimenti di post punk spagnoleggiante (The Blood) e ballate malinconiche in salsa (vagamente) orientale (Kyoto Song).
In questo coacervo di idee tanto disparate e sperimentali quanto vincenti (il disco darà alla band un inaspettato successo commerciale), spunta A Night Like This, piccolo gioiello di struggimenti definitivi, attraversato da un senso di tragedia imminente che incombe nel sax disperato di Ron Howe. E’ la storia di un amore che sta collassando, di un relazione sull’orlo del baratro (“Dì arrivederci in una notte come questa/se è l’ultima cosa che mai faremo/Non sei mai sembrata persa come ora/Per favore rimani/ Ma ti guardo come se fossi fatta di pietra/mentre cammini via”) in cui la scrittura di Robert Smith torna a vestirsi dell’enfasi pessimistica che aveva caratterizzato i lavori precedenti.
Perfetta colonna sonora per terremoti sentimentali e vertice di un disco, a cui manca il fascino dei Cure più gotici e presbiteriani, ma che resta la prova convincente di una band consapevole e ispirata.





Blackswan, mercoledì 11/12/2019