giovedì 30 aprile 2020

GUILLEMOTS - THROGH THE WINDOWPANE (Naive, 2006)

Se dovessi scegliere dieci dischi del nuovo millennio da portare sull’ipotetica isola deserta, Through The Windowpane esordio datato 2006 dei Guillemots sarebbe senz’altro tra le mie prime scelte. Una scaletta che non lascia scampo, attraente come una bella donna, il cui fascino non risiede solo nell’avvenenza, ma soprattutto nella sensibilità e nell’intelligenza, dodici canzoni perfette, per scrittura, arrangiamenti ed esecuzione.
E’ pop, certo, ma nella sua accezione più alta e nobile, che evita preconfezionamenti in involucri di plastica e aborrisce le soluzioni più ovvie scegliendo invece la strada di una rigogliosa complessità espressiva e strutturale. Non mancano riferimenti stilistici che emergono saltuariamente tra i solchi del disco (Divine Comedy, XTC, Beatles, etc.) ma sono solo inevitabili ed estemporanei deja vu, in un contesto che, per converso, brilla in originalità e freschezza.
Non è certo un caso che, quando il disco esce, la critica strabuzza gli occhi per lo stupore, fioccano recensioni entusiastiche, arriva la candidatura al Mercury Music Prize e il disco riesce a scalare le impervie charts britanniche, grazie anche all’endorsement di Sir Paul McCartney, che si innamora dell’inizia Little Bear, tanto da eseguirla dal vivo durante uno show radiofonico. Si inizia, quindi, a parlare, tanto e bene, dei Guillemots (nome di una specie di uccello marino), una sorta di melting pop multietnico (Inghilterra, Brasile, Scozia e Canada) composto da Fyfe Dangerfield, Aristazabal Hawkes, Greig Stewart e MC Lord Magrao, che, con qualche cambio di line up, continuerà a sfornare dischi con regolarità fino al 2012, anno di pubblicazione di Hello Land!, ultimo album di una discografia, fin qui, breve ma intensa.
D’altra parte, Through The Windowpane è un disco in grado di suggestionare fin dal primo ascolto, a causa di un intrigante andamento altalenante, in cui, all’interno di un’ aura melodica scintillante, si alternano brani fluttuanti a mezz’aria e impetuosi arrembaggi orchestrali, pieni e vuoti, ombre e luci, malinconia e irrefrenabile allegrezza. Un disco che procede per contrasti: da un lato, la precisa accuratezza dell’origami, il cesello del particolare, il taglio sartoriale dell’arrangiamento, dall’altro, la volubile struttura dei brani, capaci di mutare pelle nel corso di pochi minuti, e l’irrefrenabile baldanza di orchestrazioni piene, rigogliose, a volta, addirittura cacofoniche; da un lato, l’umbratile mood di ballate umorali e inquiete, dall’altro, la sfrontatezza di abbaglianti melodie e vibranti uptempo.
La citata Little Bear apre il disco in un languido albeggiare di morbidezze ipnagogiche: Dangerfield canta avvolto da una setosa coltre di archi classicheggianti, attraverso la quale si intravvedono tiepidi barbagli di sole; eppure, poco dopo, bastano due accordi in minore di piano, per spingere l’animo verso indicibili struggimenti. Nemmeno il tempo di sciogliere il nodo in gola, e le reminiscenze melodiche alla XCT di Made Up Love Song #43 aprono a scenari pimpanti e giocosi, ribaditi poi dal beat martellante e dai sfavillanti fiati di Trains To Brazil, primo singolo tratto dall’album.
Si sale e si scende, tra umori contrastanti, forsennati battiti del cuore ed estasi contemplative, tra ritmiche esasperate e soundscapes al rallenty. Il mood pastorale di Redwings, disturbata da un sottofondo di echi spettrali, approda a un crescendo lussureggiante di suoni e di umori, Come Away With Me cammina in bilico fra vapori eterei ed esasperata drammaticità, spazzata via, poi, dalla melodia caracollante e dal tiro convulso della superba title track, in cui Dangerfield dà prova delle sue incredibili doti vocali (come fa nei stupefacenti cinque minuti a cappella di Blue Would Still Be Blue).
C’è spazio anche per l’emozionante If The Words Ends, struggente ballata d’amore, che si gonfia a dismisura fino a lambire l’orizzonte del cielo, l’irresistibile progressione armonica di We’re Here, con la voce pazzesca di Dangerfield che plasma un ritornello di perfezione divina, e l’elettronica arruffata e giocosa di Annie, Let’s Not Wait.
La breve intro di And If All…apre al gran finale di Sao Paolo, forse il vertice compositivo di un disco che non ha un solo cedimento. Una suite di quasi dodici minuti, in cui gli sfarfallii malinconici della prima parte si incastrano con un’irrefrenabile coda orchestrale, in cui vibrano archi, fiati, ritmiche brasileire e ammiccamenti jazzy.
Si arriva alla fine del disco quasi ubriachi, vittime di uno spaesamento sonoro prossimo al deliquio, in una sorta di felice stato confusionale, dal quale si esce solo dopo ripetuti ascolti, quando è possibile, finalmente, rimettere nell’ordine giusto tutti i colori dell’arcobaleno sonoro e del caleidoscopio di emozioni appena provato.
Dopo Through The Windowpane, la storia dei Guillemots procederà con meno clamore mediatico e tre dischi, belli e convincenti, e di cui è impossibile parlar male, ma a cui mancherà, tuttavia, l’audacia e la fascinazione dello straniante vortice sonoro di queste inarrivabili dodici canzoni.





Blackswan, giovedì 30/04/2020

mercoledì 29 aprile 2020

PREVIEW



Dopo la pubblicazione di un EP omonimo e di Exit in Darkness un vinile 10" collaborativo con la band post-rock giapponese MONO, la cantautrice londinese A.A. Williams annuncia oggi l'album di debutto Forever Blue, in uscita il 03 luglio su Bella Union [PIAS].
Con l'annuncio Williams presenta anche lo spettrale video animato per "All I Asked For (Was To End It All)", diretto da Craig Murray. Riguardo al video Williams afferma: “Sono così contenta di aver avuto la possibilità di lavorare con Craig Murray. Prima di sentire le sue idee, mi sono innamorata dei suoi disegni a mano, quindi ero davvero felice quando mi propose di fare un video seguendo questo stile - le trame musicali del brano si sposano perfettamente con il suo approccio organico e con gli elementi naturali."
Mix estatico di post-rock e post-classical, Forever Blue è caratterizzato da melodie distese e atmosfere spettrali, passando da momenti di serenità a momenti tragici ed esplosivi, spesso all'interno dello stesso brano. Musicista e cantautrice fenomenale, Williams suona la chitarra, il violoncello e il piano. La sua voce ha il controllo di una chanteuse esperta ma allo stesso tempo è in grado di trasmettere i sentimenti più crudi.

Grazie al talento di Williams e di suo marito, il bassista Thomas Williams, il sound maestoso di Forever Blue è stato per la maggior parte catturato nel trilocale della coppia a North London. La batteria di Geoff Holroyde è stata aggiunta nello studio di Adrian Hall a South London, con la partecipazione alla voce di Johannes Persson (Cult Of Luna), che ha aggiunto il suo growl profondo in ‘Fearless’ (“quando canta sembra che le placche tettoniche si stiano muovendo” afferma Williams), di Fredrik Kihlberg (Cult Of Luna) in ‘Glimmer’ e Tom Fleming (One True Pairing, ex-Wild Beasts) in ‘Dirt’.





Blackswan, mercoledì 29/04/2020

martedì 28 aprile 2020

LUCINDA WILLIAMS - GOOD SOULS BETTER ANGELS (Highway 20 Records, 2020)

Sono passati quattro anni dal cupo soliloquio interiore di Ghosts Of HIghWay 20. Quattro lunghi anni in cui la Williams ha rimasticato quel profondo dolore che l’aveva portata a raccontare i fantasmi della propria vita, quattro anni di rielaborazione, interrotti solo dalla collaborazione con Charles Lloyd e dalla rilettura di Sweet Old World, estemporanea resipiscenza per attualizzare e rendere ancora più bello uno dei suoi dischi più importanti.
Si è presa tutto il tempo che le serviva, Lucilla, per metabolizzare e trasformare quella sofferenza nella rabbia che pervade ogni singola nota di Good Souls Better Angels. Rabbia nera, rabbia vera, senza filtri, senza la mediazione della distanza. Non ci sono pose né intellettualismi, ma solo la presa di coscienza della inesorabile deriva etica dell’umanità, guardata dalle prime fila dell’America di Trump, bersaglio primario delle invettive della Williams.
Se Ghosts Of Highway 20 era un disco impegnativo e scorbutico, in modo diverso lo è anche Good Souls Better Angels, che suona differente da tutto quello che conoscevamo prima, che suona violento come un ringhio in faccia, rumoroso come uno scontro a fuoco, letale come una scomoda verità. Un disco che non conosce le mezze misure, che strattona le melodie con furibonda elettricità, che aggredisce i padiglioni auricolari con volumi saturi e la sfrontatezza selvaggia di chi ricorre al rock per colpire e affondare, senza fare prigionieri.
La Williams mostra i muscoli e dispiega un armamentario micidiale di distorsioni e chitarre urticanti, che sembrano prese in prestito dal Neil Young più rumoroso. Sono pochi i momenti in cui si tira il fiato, brevi parentesi fra un assalto frontale e l’altro: la malinconia sfilacciata di Big Black Train, l’incedere meditabondo di Shadows And Doubts, la pacata introspezione di When The Way Gets Dark, il blues strascicato della conclusiva Good Souls, che apre uno spiraglio alla speranza. Questi i pochi brani immediatamente riconducibili alla storia passata della Williams, canzoni che si riconnettono alla sua discografia precedente, che suonano come gli ultimi detriti di un passato spazzato via dallo tsunami elettrico che li circonda, ultime fotografie in bianco e nero della dolorosa HighWay 20.
Lucinda digrigna i denti in un ghigno di fiera rabbia nel blues scorticato dell’iniziale You Can’t Rule Me, affronta a muso duro il Presidente con l’apostrofe risoluta di Man Without a Soul, si immerge nella pece ribollente di Pray The Devil Back To Hell, facendo deragliare l’incipit acustico in un febbrile sconquasso noise, e azzarda anche una fucilata post punk con Wakin’Up, crocevia della morte tra un ruggito blues e le spettrali atmosfere gotiche, che rimestano nel torbido evocando Killing Joke e Bauhaus.
E’ la seconda parte del disco, però, quella che annovera gli episodi più estremi, una tripletta tutta sangue e sudore che lascia attoniti: le sferraglianti trame funky di Bone Of Contention, aperto con quel lick di chitarra rubato ai Queens Of Stone Age, il martellare bombardamento di Down Past The Bottom, primitivo e selvaggio come un pezzo dei Blue Cheer e l’ipnotica combustione hard blues di Big Rotator.
Stupisce, infine, la coesione sonora del disco, prodotto da Ray Kennedy, che aveva lavorato con la Williams nel capolavoro Car Wheels on a Gravel Road del 1998, e suonato in compagnia di una straordinaria backing band, composta da Butch Norton alla batteria, da David Sutton al basso e da Stuart Mathis alla chitarra, a cui bisogna riconoscere il merito di aver dato a queste dodici canzoni la verace immediatezza di un’esecuzione live.
Dalla sua, la Williams, oltre alle canzoni, ci mette quella voce unica, dal timbro graffiante e strascicato, evocativo di una vita intensa, vissuta senza riserve, con la schiena dritta e lo sguardo limpido di chi non si è mai tirata indietro, e ha saputo guardare negli occhi il dolore e la sconfitta.
Un album diverso, che sorprenderà soprattutto quelli che hanno sempre immaginato la Williams incapace di uscire dalla sua (presunta) comfort zone. Un disco che richiede lo stesso impegno che ci viene regalato nell’affrontare temi scomodi e indicarci, in qualche modo, una via di salvezza. Lucinda è tornata, agguerrita e sfrontata, mai banale. Anche se questa volta resta lontana dalle sue radici, alla fine, come sempre, ha avuto ragione lei. Come le anime buone, che ci provano, con tutte le forze, a essere angeli migliori per rendere migliore il mondo.

VOTO: 9





Blackswan, martedì 28/04/2020

lunedì 27 aprile 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO



“Questa cosa sta assumendo un aspetto kafkiano. Lo dico fuori dai denti. Ho cercato di resistere ma sono stanco di tutta questa roba qui. Aprite tutto, aprite scuole, asili, fatelo con la prudenza del caso...Conteremo quanti morti sono successi l’anno scorso e quest’anno faremo anche ‘sti numeri perché speriamo non sia tutto un bluff”.
A siffatte esternazioni, peraltro sintatticamente poco riuscite, si è lasciato andare Luigi Brugnaro, sindaco della Serenissima Venezia. Se di bluff vogliamo parlare, l’unico, semmai, è quello consumato ai danni dei cittadini, costretti, oltre che a una resilienza psicologica rispetto alla reclusione forzata, anche alla dabbenaggine di una certa classe politica non proprio all’altezza della più elementare aspettativa. 
Non che l’episodio in se’ susciti particolare sconcerto visto quello che sta vivendo la Lombardia con il consesso di “soloni” alla Regione, ma se pensiamo che alle corbellerie nostrane si affiancano mirabili perle di saggezza oltreoceano, ci possiamo un po’ consolare e alleviare le nostre pene pensando che non siamo del tutto soli in questa pandemia delle assurdità. E così, tanto per tenersi in esercizio nelle sparate al limite del farsesco, The Donald, che l’ha fatta fuori dall’ennesimo vaso a disposizione, si improvvisa nientemeno che a virologo “suggerendo” di sconfiggere il Covid 19 con iniezioni di disinfettante e di raggi di calore, salvo poi archiviare frettolosamente la castroneria derubricandola a proposta sarcastica. 
Stiamo parlando dell’uomo più potente del mondo che sull’emergenza sanitaria in corso si è distinto più per idiozia che per avvedutezza. Purtroppo anche in Europa, pensiamo alla Gran Bretagna, o nel Brasile di Bolsonaro abbiamo toccato con mano la spavalda mediocrità’ di chi si trova nella stanza dei bottoni. Persino il fantasma Formaggino avrebbe fatto meglio. In questo bestiario ormai globalizzato, la pandemia non ha ancora insegnato a certuni il senso del proprio limite. E non illudiamoci che qualcosa cambierà.

Cleopatra, lunedì 27/04/2020

domenica 26 aprile 2020

THE SLEEP EAZYS - EASY TO BUY, HARD TO SELL (Mascot Label Group, 2020)

Dai, dite la verità: eravate preoccupati che Joe Bonamassa non avesse ancora pubblicato un disco nel 2020, lui, che solitamente, ne sforna con regolarità tre o quattro all'anno. E invece, proprio quando cominciavamo a temere un blocco creativo, ecco che il chitarrista di Utica ricompare con una band dal nome strambo e un progetto musicale nuovo di pacca.
Niente a che vedere con quanto pubblicato finora, anche se qualche affinità con i Rock Candy Funk Party volendo si può anche trovare: Easy To Buy, Hard To Sell si tiene lontano da territori rock blues e fusion a cui eravamo abituati, e si distanzia ancor di più dalle sonorità hard rock dei Black Country Communion.
Il disco, infatti, è interamente strumentale e nasce come un omaggio Danny Gatton, che è stato il mentore di Bonamassa e un chitarrista che molti considerano tra i migliori e, nonostante ciò, tra i più sottovalutati al mondo. Gatton aveva solo quarantanove anni quando, nel 1994, si suicidò, proprio nel momento in cui la sua musica stava iniziando a essere conosciuta da un pubblico più vasto, ed è fuor di dubbio che molta della sua arte sia stata assorbita dal giovane Bonamassa.
Come Gatton, che frequentava generi diversi, quali jazz, country, surf, rockabilly e, ovviamente, blues, anche Bonamassa non si è mai posto limiti, e ha esplorato svariati territori, militando nei citati Black Country Communion, lavorando con la cantante soul Beth Hart e rilasciando svariati dischi solisti sempre in bilico fra rock e blues. Evidentemente, l'esuberanza creativa di Bonamassa l'ha portato a fare un ulteriore passo di lato, a smarcarsi dalla sua storia, per provare a rendere omaggio al suo maestro con un disco che suona decisamente differente.
Per riuscire nell'intento, ha creato gli Sleep Eazys, band composta principalmente da vecchi compagni d'avventura, come il batterista Anton Fig, l'ex tastierista dei Double Trouble Reese Wynans e il bassista Michael Rhodes. Le nove canzoni in scaletta (per una durata di circa trentacinque minuti) sono tutte cover, la maggior parte delle quali sconosciute ai più.
Bonamassa e i suoi Sleep Eazys partono a mille con lo swing assassino dell'iniziale Fun House, proprio a firma Danny Gatton, si immergono negli anni '60 con il tema di James Bond Al Servizio di Sua Maestà (Bond) e con la sigla di Hawaiian Eye, serie Tv statunitense, qui riletta con piglio quasi surf garage, cavalcano gagliardi rock'n'roll con una cover tiratissima di Polk Salad Annie di Tony Joe White (il brano più noto in scaletta) e guardano in faccia a un mostro sacro come Frank Sinatra con la languida ballata conclusiva It Was A Very Good Year.
Bonamassa si prende i suoi spazi senza però prevaricare sulla band, e il lavoro di squadra prevale sull'indubbia tecnica di tuti i protagonisti. Il risultato finale è un disco che condensa vibrante energia e un palpabile e diffuso senso di leggero divertissement. Bravo Joe!

VOTO: 7





Blackswan, domenica 26/04/2020


 

sabato 25 aprile 2020

PREVIEW




Il quartetto canadese Dizzy annuncia il secondo album The Sun and Her Scorch in uscita il 31 luglio su Communion Records/Caroline International, distribuzione Universal e condivide oggi il nuovo singolo “The Magician”.
Registrato ai Mechanicland Studios di Quebec e nella cantina della mamma di Katie Munshaw, la frontwoman, The Sun and Her Scorch è stato prodotto dai Dizzy e mixato da Craig Silvey (Arcade Fire, Florence + The Machine.) L’album è una ricerca candida delle emozioni più incasinate e crude che i giovani stanno vivendo nel 2020, cariche di confessioni e insicurezze, rancore e paura di fallire. “[Il debutto dei Dizzy] Baby Teeth parlava della confusione e della tristezza dei miei ultimi anni da teenager, ma questo nuovo lavoro tratta maggiormente delle mie caratteristiche di cui non vado fiera,” afferma Katie. “Volevo essere completamente onesta riguardo alle cose che nessuno vuole ammettere, come essere geloso dei tuoi amici o allontanare le persone che ami. Quindi anziché parlare di un cuore infranto, l’album parla della rottura del proprio io.”
I testi profondamente personali dei Dizzy vengono ravvivati dalle melodie positive della band formata dai fratelli Alex (chitarra), Mackenzie (basso) e Charlie Spencer (batteria) capaci di creare un indie pop solare accompagnato dalla voce incantevole di Katie. La musica dei Dizzy suona fresca e giovanile, con una scrittura impeccabile e intramontabile che smentisce la giovane età della band.





Blackswan, sabato 25/04/2020

venerdì 24 aprile 2020

ALI HOLDER - UNCOMFORTABLE TRUTHS (Self Realesed, 2020)

Ali Holder è una ragazza texana dallo sguardo diretto e dalla lingua sciolta: non le manda a dire, insomma, soprattutto se sono scomode verità. Uncomfortable Truths non poteva essere, quindi, che un disco coraggioso, sia a livello testuale (le liriche sono un elemento fondamentale di questo lavoro) che dal punto di vista sonoro. La singer songwriter originaria di Austin, infatti, ha sempre posseduto una vena rock blues che ha trovato posto nella sua personale idea di musica, prevalentemente una miscela di country texano e americana elettrica, ma il suo secondo album la porta più lontano da quelle radici, aprendosi a spazi da riempire con chitarre fuzzy, mellotron, archi e arpe.
Un disco, dunque, più avventuroso, curato nei dettagli, meglio prodotto e più meditato del precedente, profondo nell’affrontare argomenti che vanno dalla disuguaglianza di genere alla povertà, dal dolore cronico alle difficoltà del rapporto di coppia, temi, questi, filtrati attraverso la sensibilità femminile e un pizzico di orgoglioso femminismo.
Ne esce, quindi, una scaletta niente affatto accomodante, umorale, umbratile, con pochi momenti musicalmente rilassati, in cui la Holder disimballa le aspettative che le donne hanno nei confronti del matrimonio (la cupa Take Me As I Am o la sarcastica Bad Wife) o affronta il tema della rinascita psicologica dopo una grave malattia (la rasserenata ballata Reborn). In Bruja e Singing Over Bones la songwriter texana incarna addirittura il personaggio de La Loba, una figura mitologica originaria di Pueblo, per esplorare la femminilità e la natura selvaggia, oltre a richiamare l'attenzione sulla difficile situazione delle donne assassinate dai cartelli della droga in Messico.
Uncomfortable Truths, dunque, affronta temi spinosi, e lo fa prevalentemente attraverso la forma della ballata elettroacustica (in cui vengono miscelati con sapienza blues, rock e americana), e arrangiamenti desueti per il genere, oltre che a una bizzarra quanto riuscita incursione rumoristica (la sciabolata noise rock di Speak One).
Dodici canzoni e quaranta minuti di musica ispirata e appassionata, per un talento per noi tutto da scoprire, ma che negli States inizia a ottenere meritati apprezzamenti da parte della stampa specializzata.

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 24/04/2020

mercoledì 22 aprile 2020

LOGAN LEDGER - LOGAN LEDGER (Rounder 2020)

A volte basta poco perché un sogno si trasformi in realtà. E’ quello che è successo a Logan Ledger, quando un suo demo è capitato fra le mani del grande produttore T-Bone Burnett. E’ lo stesso Burnett, come racconta in un comunicato stampa, a ricordare lo stupore provato la prima volta che ha ascoltato Let the Mermaids Flirt With Me, una canzone registrata a nome Logan Ledger e inviatagli da un caro amico: “lui aveva, e ha, una voce che trabocca storia, in cui potevo sentire l’eco di tanti grandi cantanti. Cantava senza artificio. Lavorando insieme negli ultimi due anni, ho iniziato a scoprire l'ampio territorio che è in grado di coprire e non vedo l'ora di esplorare con lui questi nuovi mondi musicali”.
Con a fianco un potente alleato come Burnett, Ledger ha raggiunto un accordo con Rounder Records per pubblicare il suo omonimo album di debutto, anticipato dai singoli Starlight e Imagining Raindrops, che mettono in evidenza un artista filologicamente consapevole della musica di Webb Pierce, Roy Orbison e il giovane Willie Nelson. Tuttavia, nonostante vi siano ovvi rimandi e altrettanto ovvie fonti di ispirazione, la prospettiva di Ledger è tutt’altro che passatista, e il disco è attraversato da un approccio ricco anche di contemporaneità, che rende questo debutto qualcosa di diverso da un mero tributo alla grande musica del passato.
Logan, che ha imparato a suonare la chitarra giovanissimo e che ha iniziato a suonare in band di bluegrass per poi passare al country dopo aver scoperto le canzoni di George Jones e Hank Williams, si è fatto accompagnare in studio da un parterre di musicisti di grande esperienza, che hanno contribuito, e non poco, alla realizzazione dei suoni del disco: oltre a Burnett, che suona la chitarra nella maggior parte dei brani, in studio si sono avvicendati il chitarrista Marc Ribot (Tom Waits, Elvis Costello), il batterista Jay Bellerose (Willie Nelson, Jackson Browne) e il bassista Dennis Crouch (Loretta Lynn, Dolly Parton).
Ciò che rende Ledger un talento speciale e ciò che rende il suo debutto un disco coi fiocchi è il modo in cui prende un genere antico e famigliare per tutti gli amanti del country, costruendo su queste solide fondamenta qualcosa di veramente nuovo. I Don't Dream Anymore mescola il roots rock con un'urgenza ritmica post-punk, mentre Electric Fantasy, ad esempio, produce lo straniante effetto di trasportare l’ascoltatore in una terra di mezzo fra America e Inghilterra, fra country e alternative rock.
E poi, quella voce da crooner, uno strano melange di sfumature fra Elvis, Roy Orbison e Morrissey (sic!), perfetta per affrontare quelle tracce che evocano Willie Nelson (Let the Mermaids Flirt With Me) o i Byrds ((I’m Gonna Get Over This) Some Day, Starlight), ma che possiede anche una certa versatilità con cui approcciarsi a sonorità che stanno agli antipodi. Un particolare non da poco, che testimonia come country e jangly folk-pop si siani infiltrati in generi musicali apparentemente diversi e abbiano ispirato la continua evoluzione della musica americana.
Su ogni canzone, soprattutto, si percepisce forte la sensazione di trovarsi di fronte a un artista tanto appassionato quanto sincero: quando ascolti una canzone come Tell Me A Lie, straziata da una pedal steel che letteralmente piange, esattamente come il protagonista dal cuore spezzato, capisci che Ledger crede ciecamente in quello che canta, come se non ci fosse più una distanza fra musicista e personaggio creato, fra arte e vita reale.

VOTO: 7





Blackswan, mercoledì 22/04/2020

martedì 21 aprile 2020

PREVIEW




Orlando Weeks ha recentemente lanciato la sua carriera solista con “Safe In Sound”, brano inserito nella A-list di BBC6 Music e ispirato ai The Blue Nile e ai Talk Talk. Ora annuncia i dettagli del suo album di debutto A Quickening, in uscita il 12 giugno su Play It Again Sam.
Mentre si avvicinava la nascita di suo figlio, Orlando Weeks voleva provare a dare un senso ad un'esperienza ordinaria e straordinaria allo stesso tempo. Il risultato è A Quickening, un album che racconta la storia dal punto di vista di un futuro padre, figura essenziale per la storia ma che può apparire anche un po’ secondaria rispetto a quello che vive la figura materna e la conseguente sensazione di impotenza.
Stavo cercando di trovare una rotta nel mezzo di qualcosa che succede abitualmente ma che sembra ancora eccezionale,” afferma Weeks.
Ogni minuto nascono bambini eppure l'esperienza di diventare un genitore, e il modo in cui promette di cambiarti la vita,  è senza precedenti.





Blackswan, martedì 21/04/2020

lunedì 20 aprile 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO



“Abbiamo lanciato la via lombarda per la libertà, un programma per riaprire le attività dal 4 maggio. Si tratta di adeguarsi alla nuova normalità che passa dalle quattro “D”: distanza, dispositivi, digitalizzazione, diagnosi”. La domanda a questo punto nasce spontanea: “Fontana, ma che stai a di’?”.
Non è per fare la solita polemica, ma ci siamo dimenticati che mentre il governo disponeva la riapertura delle librerie e dei negozi di abbigliamento per bambini, il Gran Governatore, al contrario, invocava per il proprio “feudo”misure ancora più restrittive? Poi qualcosa è miracolosamente cambiato e nel giro di un paio di giorni. Che sia stato lo Spirito Santo, la Risurrezione di nostro Signore o del Verbo del Capitano Apri e Chiudi, come per incanto, la Lombardia si rialza. 
Fino a qualche giorno fa sembravamo monadi spacciate, costrette a guardare il cielo dalla finestra con la minaccia di un drone che ci seguiva persino mentre andavamo a buttare la spazzatura. Ora, in controtendenza rispetto alle misure del governo centrale, si ripartirebbe a spron battuto. E per andare dove, di grazia? Diciamola tutta. Non è che forse qualcuno alla Regione comincia a sentire aria pesante, vuoi per una gestione confusa e impacciata della sanità lombarda, vuoi per lo scandalo del Pio Albergo Trivulzio e di altre rsa e pensa con queste sparate nel mucchio di distogliere l’attenzione dalla gravità del problema? 
C’è poco da essere trionfalisti, cari governanti. La verità è che presto scoppierà una bomba tra le mani di chi in queste ore sta tentando il solito patetico scaricabarile. E’ fin troppo chiara, e non certo per loro colpa, l’improvvisazione con cui sono stati costretti a fare i conti gli operatori sanitari, buttati in trincea senza precisi protocolli e dispositivi di protezione. Del pari lo è la scellerata leggerezza con cui ora si invoca una riapertura in una regione che conta oltre i 12.000 morti. Il Capitano di questa scombiccherata Armata (Salvini), il 16 aprile ha annunciato che chiedere la riapertura della Lombardia è un gran segnale di concretezza e di speranza. Ognuno tragga le proprie conclusioni. Per quanto mi riguarda a persone di tal fatta non affiderei neppure la gestione di un piccolo condominio.

Cleopatra, lunedì 20/04/2020

domenica 19 aprile 2020

SAM PHILLIPS - MARTINIS & BIKINIS (Virgin, 1994)

Nei suoi quasi sessant’anni di vita, Sam Phillips, al secolo Leslie Ann Phillips, non è stata certo con le mani in mano: ha rilasciato una quindicina di dischi, ha intrattenuto svariate collaborazioni (Rodney Crowell, Bruce Cockburn, The Wallflowers, etc.), ha scalato con parecchi singoli le Christian Charts americane, ha composto musica per serie tv (Bunheads), ha recitato al fianco di Bruce Willis in Die Hard (1995) e ha anche trovato il tempo di sposare il grande produttore T-Bone Burnett, dal quale ha divorziato nel 2004, dopo quindi anni di matrimonio.
Sebbene la Phillips non abbia mai smesso di comporre canzoni e pubblicare album, è indubitabile che il picco di notorietà e le cose migliori in carriera siano collocate proprio nel periodo creativo che ha condiviso con l'allora marito T Bone Burnett, a partire dalla fine degli anni '80 e proseguendo nel decennio successivo.
Il suo terzo album a nome Sam Phillips (ce ne sono altri cinque, precedenti, come Leslie Phillips), Martinis & Bikinis del 1994, è probabilmente il suo lavoro più riuscito e quello che le ha dato maggior riscontri in termini di fama, tanto da essere rimasterizzato nel 2012 e ripubblicato via Omnivore Recordings.
Se da un lato, Martinis & Bikinis mette in risalto un songwriting spumeggiante e consapevole, reso armonioso dalla produzione di Burnett, da una backing band coi fiocchi e da ospiti di lusso (Marc Ribot, Van Dyke Parks, Benmont Tench, Peter Buck, etc), dall’altro, evidenzia l’attrazione fatale della Phillips per sonorità di fine anni ’60, con particolare ed evidente riferimento alla musica dei Beatles.
Eppure la Phillips, nonostante siano evidenti le fonti di ispirazione di alcune di queste tredici canzoni, evita pasticci o meri copia incolla, riuscendo a mantenere originale la propria scrittura, anche se è fuori di dubbio che la scaletta dell’album paghi un debito alla produzione dei Fab Four, da Revolver in avanti (e ancor più specificamente, anche se non esclusivamente, alle canzoni di John Lennon). Certo, le melodie della Phillips non sono così immediate come potevano esserle negli anni ’60, le sue liriche non sono così dirette, anzi talvolta risultano criptiche, e nel disco ci sono anche brani che si scostano dalla narrazione principale; tuttavia, in gran parte, e con tutte le differenze dovute all’evoluzione di un trentennio di musica, certe atmosfere sono state catturate perfettamente.
Nell’anno di Dokie dei Green Day, di Grace di Jeff Buckley, delle ultime propaggini grunge e della morte di Kurt Cobain, Sam Philipps e T-Bone Burnett creano un mondo sonoro di echi, riverberi, harpischords e suoni esoticici (sitar) che potrebbe sembrare anacronistico e, invece, grazie alla visione moderna di Burnett, non lo è affatto.
La breve introduzione di Love And Kisses, sono probabilmente i cinquantasette secondi più beatlesiani del decennio, una perfezione melodica che lascia senza parole e che, diciamocelo francamente, sarebbe piaciuta moltissimo a John Lennon. Forti riferimenti al quartetto di Liverpool si trovano anche nella psichedelia di Same Rain, nell’emozionante Strawberry Road (evocativi sono il titolo e la strumentazione clamorosamente anni ’60), nel sitar della radiofonica Baby, I Can’t Please You, o nella chitarra harrisoniana che scuote la malinconica melodia di Same Changes.
Beatles o no, Martinis & Bikinis è un disco di cristallina bellezza pop-rock, con ganci melodici che arrivano a velocità della luce, nemmeno il tempo di imparare le parole e stai già canticchiando: il jangle pop di I Need Love, la cupa elettricità di Circle of Fire (traccia che giustamente è valsa alla Phillips una nomination ai Grammy come Best Rock Vocal), il rockabilly attualizzato dell’intensa e vibrante Wheel Of The Broken Voice. Chiude il disco l’unica cover in scaletta che, guarda caso, è la psichedelica, bellissima Gimme Some Truth di John Lennon.
Come già accennato, ad aiutare la Phillips e Burnett, un cast stellare tra cui Peter Buck dei R.E.M., l’Heartbreaker Benmont Tench, Colin Moulding degli XTC, Marc Ribot (Tom Waits, John Zorn) e Jerry Scheff (TCB Band di Elvis Presley): tutti fanno sentire la loro distinta presenza, eppure la scaletta suona omogenea come se fosse il parto di una band affiatata.
La ristampa uscita per la Omnivore, prodotta dalla stessa Phillips con Cheryl Pawelski e Tom DeSavia, prevede quattro tracce in più. Un remix di Fighting with Fire, che era già stata pubblicata per la prima volta nel best Zero Zero Zero (1998) e tre nuove versioni di brani in scaletta: I Need Love, in cui la voce della Phillips è più roca e più vissuta, modificata con un inedito arrangiamento per quartetto d'archi, Black Sky e Strawberry Road, che suona decisamente diversa, grazie a un arrangiamento più asciutto per solo chitarra, basso, piano, batteria e quartetto d'archi.





Blackswan, domenica 19/04/2020

venerdì 17 aprile 2020

PREVIEW




I Muzz, nuovo progetto di Paul Banks (cantante degli Interpol), Josh Kaufman (produttore/polistrumentista e membro dei Bonny Light Horseman) e Matt Barrick (batterista dei Jonathan Fire*Eater, The Walkmen, e della touring band dei Fleet Foxes), annunciano oggi l’omonimo album di debutto in uscita il 05 giugno su Matador. La band condivide anche il nuovo singolo “Red Western Sky” accompagnato da un video diretto da loro stessi. Si tratta del primo video girato all’American Treasure Tour Museum, location scelta dopo una visita della famiglia Barrick.
“Red Western Sky” segue due brani pubblicati nelle scorse settimane, la grezza “Broken Tambourine” e “Bad Feeling” che, con le sue introspezioni melodiche, è stata pubblicata in maniera anonima su Soundcloud.
Muzz nascono da un’amicizia e una collaborazione di lunga data. Banks e Kaufman sono amici sin dall’adolescenza, avendo frequentato il liceo insieme prima di essersi trasferiti separatamente a New York City per studiare. Lì, in maniera indipendente, incontrarono Barrick negli stessi circoli musicali che frequentavano. Dopo qualche anno, rimasero in contatto: Barrick suonò la batteria nel progetto di Banks con The RZA, Banks + Steelz, e in alcune sessioni di Kaufman; Kaufman aiutò Banks con il suo primo progetto solista Julian Plenti; collaborarono a vari demo; comprarono insieme uno studio a Philadelphia.
Le prime registrazioni dei Muzz risalgono al 2015. Durante le sessioni Banks o Kaufman portavano dei demo da arrangiare o creavano i brani in presa diretta nel bel mezzo di una jam. Tutti e tre hanno contribuito ai testi e hanno aiutato a dare forma alla voce (si tratta della prima volta per Banks che normalmente scrive i testi da solo). “Josh ha una formazione teorica, mentre Paul ha una prospettiva diversa,” afferma Barrick. “Non sai mai come Paul affronterà un brano, sia dal punto di visita lirico che melodico, quindi è sempre tutto molto inaspettato e sorprendente. Siamo tutti aperti alle idee degli altri. Penso che tre sia il numero perfetto per i membri di una band. Ognuno fa la sua parte.”
Dal punto di vista sonoro, Kaufman afferma, “la musica ha questa strana carica emotiva, distante ma allo stesso tempo personale. Se qualcosa suona naturale e semplice, lo lasciamo. Non ho mai sentito la voce di Paul strutturata in quel modo – una sezione di archi, fiati e chitarre – sappiamo che nulla di tutto ciò è visionario ma sembrava classico ed elegante.” Proprio per questo il nome della band ha un siginficato che richiama proprio quella sensazione, Kaufman usava il termine “muzz” per descrivere la qualità e le trame analogiche e discrete della musica.  
Magnifico, ampio e profondo, l’omonimo album di debutto è stato scritto, arrangiato ed eseguito da tutti e tre i membri. Non importa la direzione sonora, Muzz ci arriva senza sforzo e con una carica emotiva senza eguali.
Alla fine la musica parla da sé,” afferma Banks. “Abbiamo una chimica artistica genuina e organica. Si tratta in parte dei gusti musicali che io e Josh abbiamo condiviso durante la giovinezza, ma sono anche le anime dei miei amici che risuonano con me attraverso la musica. Penso sia cosmico.”





Blackswan, venerdì 17/04/2020

giovedì 16 aprile 2020

KENT HARUF - VINCOLI (NNEditori, 2020)

Con Vincoli si torna a Holt, anzi si va alle origini di Holt, a cavallo tra Ottocento e Novecento nel primo romanzo che ha imposto Haruf all’attenzione del pubblico americano. Un viaggio nella storia di una famiglia delle pianure americane, narrata dalla voce della loro vicina, Sanders Roscoe. Un romanzo corale e travolgente, intenso e poetico, con cui Haruf inizia il suo viaggio nell’America rurale, teatro delle sofferenze e metafora della tenacia dello spirito umano, anticipando tutti gli elementi che rendono unica la sua poetica.

Vincoli è ambientato nella cittadina di Holt, che però non è ancora la Holt che abbiamo conosciuto negli altri romanzi dello scrittore americano. E’ una terra aspra e di conquista, metà di pionieri in cerca di fortuna, disposti a qualsiasi sacrificio per colonizzare un pezzo di terra polveroso e arido, per guardare al futuro con un briciolo di speranza negli occhi.
E’ questa, dunque, la cornice in cui si inserisce la saga famigliare narrata da Haruf: l’epos della colonizzazione del west, l’America rurale selvaggia e refrattaria al progresso, la lotta per la sopravvivenza, il duro lavoro dei campi che spezza la schiena, l’alcool come lenimento a giornate interminabili, faticose e tutte uguali. Un mondo crudele e spietato, in cui la perseveranza umana e la forza fisica sono le uniche risorse per sopravvivere a una natura aspra e ostile.
In questo quadro d’insieme, si inseriscono anche elementi noir, che sono poi lo spunto iniziale e l’abbrivio del corpus della narrazione: un’anziana donna si trova in un letto di ospedale piantonata da un agente di polizia. Quale sia il motivo, ovviamente, sarà svelato solo alla fine del racconto, che ha inizio alla fine dell’800 e si sviluppa fino ad arrivare alla primavera del 1977 (pochi anni prima della stesura del romanzo, che è del 1984).
Le vicende narrate da Haruf sono quelle della famiglia Goodnough e parallelamente della famiglia Roscoe, di cui fa parte Sanders, che è la voce narrante e uno dei protagonisti principali del libro. Centrale, però, è la figura di Edith Goodnough, giovane, esuberante e intelligente, di cui si innamora il padre di Sanders. L’amore, però, dovrà fare i conti con i “vincoli” di sangue, quelli che legano Edith al padre despota e violento, e al fratello Lyman, inetto e psicologicamente fragile.
La storia, dunque, di un’ostinata solitudine, di una vita di privazioni in nome di un senso del dovere a cui è impossibile non obbedire, di occasioni perdute e di felicità rimandate a oltranza, in cui le continue privazioni e i costanti dinieghi non lasciano mai a Edith spazio per “qualcosa che assomigli a un infinito si”.
Un romanzo epico, violento e struggente, in cui Haruf riesce a esprimere concetti universali e sentimenti profondissimi in sole due righe, grazie alla distanza dalla materia e a quella prosa asciutta, semplice e lineare propria di quei grandi scrittori che, come suggeriva Hemingway, evitano di usare parole da un dollaro e scelgono invece quelle che valgono appena un centesimo. Una scrittura scarna e al contempo potente, e un romanzo che vi spappolerà il cuore.

Blackswan, giovedì 16/04/2020

mercoledì 15 aprile 2020

PREVIEW




Suzanne Vallie annuncia l’album di debutto LOVE LIVES WHERE RULES DIE, in uscita il 3 luglio per Night Bloom Records. Guarda il video di "Ocean Cliff".
Suzanne Vallie vive in una sorta di reclusione nella zona rurale di Big Sur, California, ed è nota per le sue performance d’improvvisazione fatte di testi freestyle e storie mitiche e turbolente. Ha scritto la maggior parte del suo album di debutto Love Lives Where Rues Die durante un’estate estenuante dopo una rottura, mentre guidava su e giù per la Highway 1 cercando di far saltare gli altoparlanti della sua Honda.
Con Will Oldham, Vashti Bunyan e Karen Dalton nelle orecchie e nel cuore, Vallie ha riunito una troupe di musicisti e amici locali per dar vita alle sue visione. “Volevo che l’album suonasse un oceano lontano dalla solitudine, quindi avevo bisogno di compagnia,” dice Suzanne. Coadiuvata da membri di Kacey Johansing's band,  Brijean, Meernaa, & Mountain Man, Suzanne Vallie e la sua band di collaboratori californiani sono volati nello stato di New York durante gli ultimi giorni del settembre 2019 dove hanno buttato giù le tracce dell’album in cinque giorni.
L’album e il processo di registrazione devono molto all’anthemica prima canzone “High With You”.
“Ho improvvisato i testi e poi tutti insieme abbiamo cantato i chorus. Ci siamo seduti davanti al fuoco e abbiamo continuato così.”
Due dei principali collaboratori dell’album, il produttore Rob Shelton e il chitarrista/cantante Carly Bond erano in quel gruppo. Avevano ascoltato la canzone dall’altra parte del campeggio e si erano accostati, mettendo così le basi per la creazione del disco.
Vallie e Shelton hanno scelto di registrare ai Dreamland Recording a Hurley, New York, per molte ragioni. Il flusso del segnale analogico sembrava avvolgente. Lo studio, un chiesa sconsacrata, aveva spazio abbastanza per registrare live la band al completo. Alcuni dicevano che ci fossero fantasmi.
Disco frizzante, ricco di empatia, amore e dedicato alla magia dei bei tempi, Love Lives Where Rules Die si muove tra gli archi erranti dell’iniziale “Ocean Cliff Drive” e la epica “Sundowner” attraverso la scoppiettante “Morro Bay” e l’alt-folk corale di “High With You”.
Con una tale gamma di collaboratori, sembra appropriato che il disco vedrà la luce per Night Bloom Records, il cui fondatore e collega coautore Kacey Johansing fu il primo musicista che Vallie incontrò quando si trasferì in California. “Ricordo il momento, a una festa da cui stavo per andarmene. Mi ha dato il benvenuto, si è presa del tempo per parlare e mi ha presentato a molte persone. Da quel momento sono successe molte cose…”.





Blackswan, mercoledì 15/04/2020

martedì 14 aprile 2020

REN HARVIEU - REVEL IN THE DRAMA (Bella Union, 2020)

Ren Harvieu ha impiegato “solo” otto anni per pubblicare il seguito dell’acclamato Through The Night, esordio del 2012 uscito via Island Records. Un tempo lunghissimo per il music business, uno iato così consistente che quasi ci eravamo dimenticati dell’esistenza della cantante e songwriter britannica.
Una lunga pausa meditativa, iniziata dopo l’uscita del suo esordio, nonostante il disco fosse arrivato nella Top 5 delle charts inglesi, avesse partecipato a Sound Of 2012 della BBC e avesse ricevuto recensioni a cinque stelle.Anni bui e tormentati, in cui la Harvieu ha dovuto superare la separazione dal suo compagno, dal suo manager e dalla sua amata Salford, la cittadina in cui è nata e cresciuta, e ha dovuto fare i conti con la rescissione del contratto con la Island, che evidentemente, nonostante i buoni risultati, non ha creduto nel talento della giovane artista; la quale, piove sempre sul bagnato, ha anche subito un grave incidente alla spina dorsale, che ha minato ulteriormente la propria stabilità emotiva.
Ren, però, non si è data per vinta, ha creduto nelle proprie capacità e ha aspettato, fino a quando nel 2015 ha incontrato Romeo Stodart, frontman dei Magic Numbers, che le aveva scritto dopo aver visto una sua esibizione dal vivo, per proporle una collaborazione. Da questo momento è iniziato un pigmalione artistico che ha portato al concepimento e alla realizzazione di questo bellissimo sophomore (l’album è stato coprodotto dallo stesso Stodart e da Dave Izumi Lynch, proprietario dello studio Echo Zoo di Eastbourne, dove hanno avuto luogo le registrazioni).
Revel In The Drama (titolo che evoca la forza d’animo della ragazza, capace di superare momenti davvero drammatici) è, dunque, una ripartenza, o meglio, un nuovo inizio, l’abbrivio per dimostrare al mondo che un talento cristallino resta tale nonostante tutte le difficoltà che incontra per esprimersi. In due anni, con calma e certosina attenzione, la Harvieu e Stodard hanno scritto le dodici canzoni che compongono la scaletta, plasmando le tante idee coltivate nel tempo attraverso sonorità pop retrò ricche di citazioni, che vanno dal suono anni ’80 (Kate Bush, Sade, The Smiths) fino ad artisti del calibro Phil Spector, Dusty Springfield, Shirley Bassey, Duffy, Angel Olsen, Sarah Blasko, Nicole Atkins e Lana Del Rey.
Dodici canzoni che sfiorano appena il rock e che possiedono un’anima decisamente pop, ma tutt’altro che banale e prevedibile; dodici canzoni in bilico tra melò e stravaganza, rivestite di arrangiamenti avventurosi, avvincenti, rigogliosi e opulenti, ma mai ridondanti, sovraccarichi o eccessivi; dodici canzoni che mettono sul piatto sentimenti e sensazioni contrastanti, tra esplosioni di cangiante allegrezza e sprofondi di inesorabile malinconia. Il tutto declinato da una voce ricca di sfumature, che sa essere alternativamente potente, innocente, sensuale, e che è capace di sfiorare l’anima come una carezza o sorprendere con sfumature quasi operistiche.
Aprono il disco gli echi sixties di Strange Thing, leggera, spensierata e ballabile, e la melodia sfavillante di Teenage Mascara, con quella lap steel in sottofondo che evoca il fantasma di Roy Orbison. Due brani che, pur nella loro veste cangiante, suonano immediati e carezzevoli, il momento più leggero dell’intero album. La successiva This Is How You Make Me Feel introduce, invece, a morbide atmosfere jazzy, un brano elegantissimo che chiama in causa Sade e il suo raffinato smooth jazz.
Il tempo per le svenevoli delicatezze blues, avvolte in uno splendido arrangiamento di fiati, di Curves And Swerves, e il disco ha una vera e propria impennata, sia dal punto di vista del pathos che del songwriting. Non che quello che abbiamo ascoltato fino ad ora non sia ottimo, ma da questo momento in poi il livello qualitativo si alza considerevolmente, tanto che sembra di stare su un altro pianeta.
Il deliquio gotico di Cruel Disguise è da capogiro: il graffio delle chitarre che aprono il brano, evapora in un refrain per pianoforte e voce capace di indurre alla malinconia anche un quadrello di acciaio inossidabile. E siamo solo all’inizio di un filotto di canzoni memorabili: le sistole cardiache e la sensualità sussurrata a fil d’orecchio di Yes Please (“Possiamo provare tutte le tue confessioni più oscure, ma devi metterti in ginocchio... Sei sicuro di voler giocare col fuoco?”), le ombre al crepuscolo di Spirit Me Away, ballata per pianoforte, avvolta da archi e tastiere, l’alternarsi tensione/languore dell’ondivaga This Is Our Love, due torch song come You don’t Know Me e la conclusiva My Body She Is Live, che tolgono il fiato per la perfezione melodica, e gli echi smithsiani di Tomorrow’s Girl Today (ascoltate in cuffia il pattern di chitarra, la progressione melodica del brano e il cantato melodrammatico della Harvieu nel convulso finale) sono numeri da autentica fuoriclasse.
Revel In The Drama è un disco che spiazza per la sua complessità, per il dedalo di rimandi, per la sua lussureggiante mise en place e per il susseguirsi di emozioni che suscita. Un disco da ascoltare più e più volte, per cogliere tutte quelle sfumature che potrebbero sfuggire, qualora ci si ponesse di fronte a questa meraviglia senza la giusta attenzione. La speranza, ovviamente, è quella di non dover aspettare altri otto anni per vedere Ren Harvieu di nuovo all’opera. Nel frattempo, innamoratevi: questo è uno degli album più intensi e appaganti del primo scorcio del 2020.

VOTO: 9





Blackswan, martedì 14/04/2020

sabato 11 aprile 2020

THE GRAHAMS - KIDS LIKE US (3Sirens, 2020)

Un disco per scrollarsi di dosso le etichette, per spiazzare il pubblico, per provare a uscire dalle consuetudini e tentare di raccontare qualcos’altro, con gioia, leggerezza e rinnovata convinzione. E’ questo il prius logico che sta alla base di Kids Like Us, terzo disco in studio dei The Grahams, al secolo Alyssa e Doug Graham, coppia di coniugi e musicisti newyorkesi, oggi di stanza a Nashville.
Un disco progettato e composto durante un viaggio in motocicletta attraverso l’America, macinando chilometri sulla Route 66, che tanto ha affascinato e ispirato la storia della musica a stelle e strisce. Pensato insieme al noto produttore Richard Swift (Foxygen, Shins, Nathaniel Rateliff, Lucius, etc.), poi morto prematuramente a luglio del 2018, Kids Like Us è un’appassionata lettera d’amore a quegli album pop senza tempo con cui i coniugi sono cresciuti. Un omaggio divertito ai leggendari anni ’60 e ad artisti come Brian Wilson, Nancy Sinatra, Dusty Springfield, The Ronettes e Diana Ross & The Supremes, che in quel decennio erano i “padroni” indiscussi delle onde radio.
Il risultato è un disco piacevolissimo, leggero e brioso, in cui pop e soul vanno a braccetto, in un equilibrio perfetto fra musica bianca e musica nera, fra sonorità vintage e intuizione moderne. Un songwriting limpido, che tratteggia melodie accattivanti, e quegli arrangiamenti ricchi e piacevolmente zuccherini, che restituiscono fin dal primo ascolto l’approccio un po' ingenuo e spensierato, tipico di quegli anni d’oro, sono il canone estetico che informa le dodici canzoni che compongono la scaletta.
Un lotto di brani incredibilmente coeso, in cui si alternano ballate mozzafiato (One More Heartbreak), lentoni da ballare guancia a guancia (Love Letter), uptempo sbarazzini (Bite My Tongue), armonie evocative e dolcemente malinconiche (la superba Painted Desert) e varchi spazio temporali clamorosamente veraci (Running Out Of Time non si limita a evocare gli anni ’60, ma letteralmente teletrasporta l’ascoltatore in quel decennio).
Sono solo due le canzoni che spostano leggermente il baricentro della narrazione: l’iniziale title track, punto di fusione tra beat r’n’b, tensione indie rock e graffiante elettricità (le sferraglianti chitarre nel finale del brano) e la splendida Just What You Deserve che, con tutte le differenze del caso, gira dalle parti dello Springsteen più pop, quello di My Love Will Not Let You Down, per intenderci.
Usciti dalla loro comfort zone (una miscela di folk, rock e pop di matrice fortemente americana), nella quale peraltro già scrivevano bellissime canzoni, i coniugi Graham hanno aggiunto un capitolo importante al loro aggraziato songbook, rischiando qualcosa (pasticciare con la retromania è sempre rischioso) ma centrando con inaspettata precisione il bersaglio grosso.

VOTO: 7,5





Blackswan, sabato 11/04/2020