Se dovessi scegliere dieci dischi del nuovo millennio da portare sull’ipotetica isola deserta, Through The Windowpane esordio
datato 2006 dei Guillemots sarebbe senz’altro tra le mie prime scelte.
Una scaletta che non lascia scampo, attraente come una bella donna, il
cui fascino non risiede solo nell’avvenenza, ma soprattutto nella
sensibilità e nell’intelligenza, dodici canzoni perfette, per scrittura,
arrangiamenti ed esecuzione.
E’
pop, certo, ma nella sua accezione più alta e nobile, che evita
preconfezionamenti in involucri di plastica e aborrisce le soluzioni più
ovvie scegliendo invece la strada di una rigogliosa complessità
espressiva e strutturale. Non mancano riferimenti stilistici che
emergono saltuariamente tra i solchi del disco (Divine Comedy, XTC,
Beatles, etc.) ma sono solo inevitabili ed estemporanei deja vu, in un
contesto che, per converso, brilla in originalità e freschezza.
Non
è certo un caso che, quando il disco esce, la critica strabuzza gli
occhi per lo stupore, fioccano recensioni entusiastiche, arriva la
candidatura al Mercury Music Prize e il disco riesce a scalare
le impervie charts britanniche, grazie anche all’endorsement di Sir Paul
McCartney, che si innamora dell’inizia Little Bear, tanto da
eseguirla dal vivo durante uno show radiofonico. Si inizia, quindi, a
parlare, tanto e bene, dei Guillemots (nome di una specie di uccello
marino), una sorta di melting pop multietnico (Inghilterra, Brasile,
Scozia e Canada) composto da Fyfe Dangerfield, Aristazabal Hawkes, Greig
Stewart e MC Lord Magrao, che, con qualche cambio di line up,
continuerà a sfornare dischi con regolarità fino al 2012, anno di
pubblicazione di Hello Land!, ultimo album di una discografia, fin qui, breve ma intensa.
D’altra parte, Through The Windowpane
è un disco in grado di suggestionare fin dal primo ascolto, a causa di
un intrigante andamento altalenante, in cui, all’interno di un’ aura
melodica scintillante, si alternano brani fluttuanti a mezz’aria e
impetuosi arrembaggi orchestrali, pieni e vuoti, ombre e luci,
malinconia e irrefrenabile allegrezza. Un disco che procede per
contrasti: da un lato, la precisa accuratezza dell’origami, il cesello
del particolare, il taglio sartoriale dell’arrangiamento, dall’altro, la
volubile struttura dei brani, capaci di mutare pelle nel corso di pochi
minuti, e l’irrefrenabile baldanza di orchestrazioni piene, rigogliose,
a volta, addirittura cacofoniche; da un lato, l’umbratile mood di
ballate umorali e inquiete, dall’altro, la sfrontatezza di abbaglianti
melodie e vibranti uptempo.
La citata Little Bear
apre il disco in un languido albeggiare di morbidezze ipnagogiche:
Dangerfield canta avvolto da una setosa coltre di archi
classicheggianti, attraverso la quale si intravvedono tiepidi barbagli
di sole; eppure, poco dopo, bastano due accordi in minore di piano, per
spingere l’animo verso indicibili struggimenti. Nemmeno il tempo di
sciogliere il nodo in gola, e le reminiscenze melodiche alla XCT di Made Up Love Song #43 aprono a scenari pimpanti e giocosi, ribaditi poi dal beat martellante e dai sfavillanti fiati di Trains To Brazil, primo singolo tratto dall’album.
Si
sale e si scende, tra umori contrastanti, forsennati battiti del cuore
ed estasi contemplative, tra ritmiche esasperate e soundscapes al
rallenty. Il mood pastorale di Redwings, disturbata da un sottofondo di echi spettrali, approda a un crescendo lussureggiante di suoni e di umori, Come Away With Me
cammina in bilico fra vapori eterei ed esasperata drammaticità,
spazzata via, poi, dalla melodia caracollante e dal tiro convulso della
superba title track, in cui Dangerfield dà prova delle sue incredibili doti vocali (come fa nei stupefacenti cinque minuti a cappella di Blue Would Still Be Blue).
C’è spazio anche per l’emozionante If The Words Ends,
struggente ballata d’amore, che si gonfia a dismisura fino a lambire
l’orizzonte del cielo, l’irresistibile progressione armonica di We’re Here, con la voce pazzesca di Dangerfield che plasma un ritornello di perfezione divina, e l’elettronica arruffata e giocosa di Annie, Let’s Not Wait.
La breve intro di And If All…apre al gran finale di Sao Paolo,
forse il vertice compositivo di un disco che non ha un solo cedimento.
Una suite di quasi dodici minuti, in cui gli sfarfallii malinconici
della prima parte si incastrano con un’irrefrenabile coda orchestrale,
in cui vibrano archi, fiati, ritmiche brasileire e ammiccamenti jazzy.
Si
arriva alla fine del disco quasi ubriachi, vittime di uno spaesamento
sonoro prossimo al deliquio, in una sorta di felice stato confusionale,
dal quale si esce solo dopo ripetuti ascolti, quando è possibile,
finalmente, rimettere nell’ordine giusto tutti i colori dell’arcobaleno
sonoro e del caleidoscopio di emozioni appena provato.
Dopo Through The Windowpane,
la storia dei Guillemots procederà con meno clamore mediatico e tre
dischi, belli e convincenti, e di cui è impossibile parlar male, ma a
cui mancherà, tuttavia, l’audacia e la fascinazione dello straniante
vortice sonoro di queste inarrivabili dodici canzoni.
Blackswan, giovedì 30/04/2020
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