Venticinque anni di carriera (l’esordio, Ledbetter Heights,
risale al 1995), nove dischi in studio e un solo album dal vivo.
Questo, in sunto, il bilancio della carriera di Kenny Wayne Shepherd,
chitarrista originario della Louisiana che, prima di questo Straight To You Live, aveva pubblicato un solo disco dal vivo, il bellissimo Live! In Chicago,
pubblicato ben dieci anni fa. Circostanza curiosa, questa, se si pensa
che KWS, dal vivo è una vera forza della natura, capace di dar sfogo non
solo alla sua tecnica sopraffina, ma soprattutto a un estro e una
fantasia che in studio vengono, necessariamente, sacrificate.
Dopo un filotto di dischi buoni ma non eccellenti (l’unico veramente imperdibile è Goin’ Home
del 2014, appassionato omaggio ai grandi del blues), Shepherd ci regala
finalmente il disco live atteso ormai da un decennio. Un disco talmente
buono da farci domandare quale sia il motivo per cui, come nel caso di
Joe Bonamassa (il collega con cui condivide il trono del miglior
chitarrista della sua generazione), non senta più spesso il desiderio di
esprimere il proprio talento attraverso dischi che lo colgono nella sua
dimensione migliore.
Straight To You,
pubblicato dalla Provogue in formato cd e dvd, e registrato a
Leverkusen la sera del 7 novembre del 2019, fotografa una band in uno
stato di forma straordinario. Oltre a KWS, sul palco sono saliti anche
il fido Noah Blunt, il cantante a cui da sempre Shepherd affida le parti
vocali delle sue canzoni, Chris Layton, leggendario batterista della
Double Trouble, band di Stevie Ray Vaughan (e gli apparentamenti con il
leggendario chitarrista di Dallas non si esauriscono certo qui), Scott
Nelson al basso, Joe Brown alle tastiere e una piccola sezione fiati
composta da Mark Pender alla tromba e Joe Sublett al sassofono.
In scaletta, compaiono molte canzoni tratte dall’ultimo Traveller (2019), comprese le cover di Mr. Soul di Neil Young (presente però solo in dvd), e di Turn To Stone di Joe Walsh, alcuni successi firmati dallo stesso KWS (Blue On Black, Shame, Shame, Shame) e la conclusiva, arrembante e torrenziale reinterpretazione della leggendaria Voodoo Child di Jimi Hendrix.
Sempre
in bilico fra tradizione blues e muscolare approccio rockista, Shepherd
allestisce uno show potente, sferragliante, tiratissimo, che evoca il
celebre Live Alive! di Stevie Ray Vaughan e che si fa ascoltare
a tutto volume, fino a quando le casse dello stereo non fumano,
esattamente come le dita di KWS durante i suoi veloci e funambolici
assoli. Per amanti della sei corde.
HEY, KING! annunciano l'omonimo album di debutto in uscita il 2 aprile su Anti-. Guarda il video del singolo "Beautiful".
“HEY,
KING!”, l’omonimo album di debutto del duo californiano prodotto da BEN
HARPER, raccoglie 11 brani pezzi che ben rappresentano la grande
intensità delle loro esibizioni live, un’esperienza definita potente
dal Vancouver Weekly “uno dei segreti meglio custoditi dal mondo della musica.
Quando
i Fab Four entrarono in studio per registrare Revolver, la loro
apertura agli stimoli esterni era massimale: l'amore e gli studi di
George per la cultura indiana, la voracità con cui Paul studiava la
poesia, la letteratura e l'arte, la sperimentazione di nuove droghe da
parte di John, e il suo onnivoro interesse per la politica e la
filosofia nietzchiana, lo studio di nuove modalità di drumming da parte
di Ringo.
Per
Paul fu anche un periodo di approccio alla musica classica e in
particolar modo ad Antonio Vivaldi, che iniziò ad ascoltare su
suggerimento di Jane Asher, la bella attrice con cui McCartney si
fidanzò ufficialmente l’anno successivo e la cui casa era diventata un
punto di ritrovo per le serate dei quattro Beatles. E fu proprio a
Vivaldi che Paul e George Martin si ispirarono per l’arrangiamento di Eleanor Rigby, portando in sala di registrazione un'orchestra di otto elementi, formata da quattro violini, due viole e due violoncelli.
Se
la veste formale del brano era assolutamente inusuale per i tempi, ma
anche rispetto al mood generale dell’album, maggiormente virato verso il
rock, lo era ancor di più il testo, che, in contro tendenza rispetto al
glamour rutilante della Swinging London, aveva, più o meno, l’effetto
di una coltellata al ventre morbido del perbenismo e della
superficialità dell'epoca.
Vado a memoria, ma non ricordo nel repertorio di McCartney una canzone più triste di questa: in Eleanor Rigby
tutto è disperazione, miseria e solitudine, e non c’è la ben che minima
concessione alla speranza, visto che il brano si conclude con la morte
della protagonista.
Eleanor
è una donna sola, che non ha famiglia o amori e che vive ai margini di
una società che l’ha privata anche della dignità. L’incipit, in tal
senso, è folgorante: "Eleonor Rigby picks up the rice in the church where a wedding was been", cioè raccoglie il riso in una chiesa dove c’è stato un matrimonio e "lives in a dream, waits at the windows"
(vive in un sogno, aspettando alla finestra). C’è, dunque, un evidente
disagio sociale ed economico, che spinge Eleanor a raccogliere il riso
per potersi così sfamare; e c’è anche una disperata solitudine, quella
di “una vita tetra e senza più attese” di maupassiana memoria.
In quella stessa chiesa, vive Father McKenzie, un prete che “writing the words of a sermon that no one will hear” (scrive le parole di sermoni che nessuno ascolterà) e che “darning his socks in the night when there’s nobody there” (rammenda
i suoi calzini di notte, quando non c’è nessuno). E’ la storia di
un’altra vita ai margini, che si affianca e poi si sovrappone a quella
di Eleanor.
Due
solitudini feroci, dunque, che il destino (o forse le convenzioni della
società) tengono lontane e che si incontreranno solo una volta, quando
Eleanor muore e viene seppellita proprio da Father McKenzie, che celebra
un funerale a cui nessuno partecipa ("Eleanor Rigby died in the
church, and was buried along with her name, nobody came, Father McKenzie
wiping the dirt, from his hands as he walks from the grave").
Il funerale di Eleanor si svolge, quindi, in vuoto fisico ed emotivo (nobody come), e la donna viene sepolta insieme al suo nome, perché così nessuno si ricorderà mai che è esistita (she was buried along with her name).
L’immagine che, però, lascia pietrificati e che trasmette un senso di
livida desolazione difficile da scordare è quella contenuta nel verso
successivo: padre McKenzie pulisce la sporcizia dalle sue mani, mentre
cammina via dalla tomba. E ancora: “No one was saved”, recitano
le ultime parole della canzone, nessuno fu salvato: non c’è salvezza
per gli ultimi, né in terra né nel regno dei cieli.
McCartney ha sostenuto che Eleanor Rigby
fosse un nome di fantasia, nato dalla fusione fra quello di Eleanor
Bron, una bella attrice britannica, e quello di un negozio di Bristol (Rigby),
che aveva attirato l’attenzione del musicista. Tuttavia, nel cimitero
della chiesa di St. Peter a Liverpool, esiste la tomba della famiglia
Rigby e sulla lapide compare anche il nome di Eleanor. Casualità? Forse.
Quel che è certo è che la donna può tornare dall’eternità per
raccontarci se la sua vita fu davvero tanto triste come quella
raccontata da Paul. Ed è incredibile pensare che lo stesso autore delle
dolci Yesterday e Michelle e di altre splendide silly songs, possa aver
scritto una canzone di così rassegnata disperazione.
La
musica è anche letteratura, si sa. E non mi riferisco solo a saggi o
recensioni, ma a storie, alcune palesemente false, altre incredibilmente
vere. Ad esempio: vi ricordate di Terry Dolan e del suo bellissimo
disco tenuto nel cassetto per più di quarant’anni? O di Sixto Rodriguez e
del successo inconsapevole delle sue canzoni? Ecco, a queste due
storie, entrambe vere, anche se apparentemente incredibili, aggiungeteci
quella di Ike White, un musicista straordinario del quale, per decenni
non si è saputo nulla, fino a quando, lo scorso anno, il regista inglese
Dan Vernon ha deciso di fare un docu-film sulla sua vita.
Una storia che sembra un romanzo, emozionante, palpitante e punteggiato da continui colpi di scena.
Chi
era Ike White? Un ragazzo di colore, di cui si conosce poco, ma di cui
si può immaginare una vita ai margini, complicata da una predisposizione
a delinquere, visto che, unico dato certo della prima parte della sua
esistenza, viene arrestato a 19 anni per omicidio e condannato
all’ergastolo. Omicidio volontario? O, come sosteneva Ike, un colpo di
pistola, partito accidentalmente durante una rapina? Vallo a sapere. Di
certo, c’è solo un ragazzo adolescente che viene rinchiuso in carcere e
che, appassionato di musica, inizia a comporre canzoni con il suo
compagno di cella.
Il
caso vuole che la storia di Ike e del suo talento arrivi alle orecchie
di Jerry Goldstein, produttore e manager che sta dietro a gente di peso,
gente come Jimi Hendrix e i War, tanto per citarne un paio. Goldstein
decide di andare in carcere, conosce Ike e perde letteralmente la testa
per questo giovane musicista, che le asprezze della vita hanno chiuso in
carcere, tenendolo lontano da quei palcoscenici che avrebbe potuto
calcare con successo.
E
allora, Goldstein che fa? Se la montagna non viene da Maometto,
Maometto va alla montagna. Il produttore ottiene tutti i permessi
necessari, allestisce in carcere un vero e proprio studio di
registrazione, circonda Ike di turnisti di livello (tra gli altri, il
batterista Greg Errico degli Sly And Family Stone e Dough Rauch, che ha
già suonato con Santana) e riesce a incidere Changin’ Times,
disco misconosciuto eppure bellissimo, che fece innamorare perdutamente
anche Stevie Wonder (il quale si spenderà, e spenderà, per ottenere la
liberazione di White.
Un disco, Changin’ Times,
che se l’avesse composto il genio originario del Michigan, non avrebbe
sfigurato nella sua meravigliosa discografia degli anni ’70, piazzato
esattamente tra Fulfillingness First Finale e Songs In The Key Of Life.
Solo sei canzoni (per una durata complessiva di circa quarantacinque
minuti) che coagulano un’ispirata libertà espressiva e un approccio
jammistico, in cui confluiscono indole rock, passione per il soul e il
r’n’b e straordinari groove funky.
Sei
canzoni, alcune delle quali lunghissime, che non risentono degli spazi
angusti della prigione, ma cavalcano uno spirito libero, scapigliato e
sperimentale. Come se queste note, concepite e suonate nel
claustrofobico ambiente carcerario, cercassero la spinta per eludere le
sbarre e cercare l’aria pulita e le rilucenze cristalline di una notte
punteggiata di stelle.
L’opener e title track
disvela l’anima soul e le doti chitarristiche di Ike, che tiene il
piede sul pedale wah wah e canta con voce calda e appassionata. Nove
minuti e mezzo dal suono scintillante, con una parte centrale che
scivola sulla sei corde di White e sul drumming leggermente sincopato di
Greg Errico aprendosi verso un groove travolgente. Antoniette,
introdotta dai rumori di un temporale, è velluto soul, almeno fino a
quando non accelera in una seconda parte trainata dai suoni rockisti
della chitarra di Ike, per poi tornare, in una struttura circolare, alle
atmosfere morbide dell’inizio. Un pezzo alla Sly And Family Stone, che
dal vivo, chissà, avrebbe potuto superare di gran lunga i nove minuti di
durata su disco.
Comin’ Home,
brano più breve del lotto, avrebbe funzionato alla grande come singolo:
un trascinante r’n’b, vestito di colori rock e profumato di spezie anni
’60. Happy Face cita Let’s Get In On e suona esattamente come potrebbe suonare un brano di Marvin Gaye. Segue la lunga (dieci minuti) I Remember George,
la canzone più sperimentale del lotto, in cui soul, jazz e blues
convivono in un saliscendi ritmico sorretto dalla chitarra wah wah di
Ike. Il quale, chiude la scaletta con il funk travolgente di Love And Affection,
sei minuti scarmigliati, pimpanti e sudatissimi, in cui un coro
femminile gioca al call and response con il chitarrista cantante.
Changin’ Times
è disco favoloso (e suona ancora oggi meravigliosamente bene), che però
non è riuscito a far decollare la carriera di Ike; il quale, liberato
sul finire degli anni ’70, sparisce nel nulla, senza lasciare tracce di
se. Un periodo di vita, questo, ricostruito nel documentario di Vernon e
che fotografa un uomo controverso, incapace di gestire la propria
esistenza e il proprio passato Così Ike, che sente il peso della
detenzione e del crimine commesso, cambia nome, gira gli States, mette
in piedi famiglie e poi si dà alla fuga, ama donne, che puntualmente
abbandona. Un uomo dalla personalità sfuggente, grande talento, animo
gentile, ma anche capace di manipolare e di non farsi scrupoli etici.
Vernon
fa un lavoro di ricostruzione certosina, inizia a indagare e scopre che
Ike è ancora vivo e abita a Los Angeles. Riesce a strappare un
appuntamento e si trasferisce per tre giorni a casa di White, il quale,
finalmente senza filtri, gli racconta tutta la storia. Il materiale è
tanto e dannatamente buono. Vernon saluta Ike e torna in Inghilterra,
inconsapevole che il momento di quel saluto sarebbe stata anche l’ultima
volta in cui avrebbe visto vivo il musicista. Già, perché appena
arrivato a casa, Vernon riceve una telefonata da Lucy, la moglie di
White, che gli comunica che il marito è morto.
Spinto
anche da questa tragica notizia, il regista riesce ad assemblare il
materiale e a montare il documentario, che viene pubblicato prima sul
sito della BBC (con geo blocco) e poi trasmesso anche da Sky Spagna. C’è
da sperare che prima o poi il docu film, che porta il nome del disco, e
l’incredibile storia che narra arrivino anche sui nostri schermi.
Nell’attesa, godetevi Changin’ Times, perché il disco, questo sì, è reperibile sia in formato fisico che digitale.
Grazie a Danilo Turrio per l’idea e gli indispensabili suggerimenti.
Al
netto di ogni altra, triste, considerazione, il 2020 è stato un anno
davvero prolifico per Billie Joe Armstrong. A febbraio, infatti, era
uscito Father Of All Motherfuckers, un disco breve e
rapidissimo, un ritorno sulle scene davvero convincente, con cui i Green
Day abbandonavano la strada del pop punk melodico a facilissima presa, e
intraprendevano, invece, quella di un punk’n’roll con vista garage,
scalpitante e rumoroso.
Poi,
il disastro della pandemia e il lockdown, e mesi terribili in cui il
mondo, non solo quello della musica, ha tenuto il fiato sospeso in
attesa di una salvezza che, ancora oggi, sembra ben lontana
dall’arrivare. Armstrong ha sfruttato al meglio i mesi di clausura, non è
rimasto ad attendere giorni migliori, e ha arruolato i due suoi figli
per dar vita al suo secondo album solista sette anni dopo Foreverly, con cui il quarantottenne chitarrista e cantante rileggeva il songbook degli Everly Brothers in duetto con Norah Jones.
Come il suo predecessore, anche No Fun Mondays
è un disco composto di cover: Armstrong ha messo mano alla sua
collezione di dischi, ha scelto quattordici brani che ha amato
visceralmente (con l’intento nobile, peraltro, di far conoscere ai fan
più giovani dei Green Day della musica lontana nel tempo) e le ha
rilette, con rispetto, certo, ma anche con il suo stile inconfondibile.
Dal
23 marzo del 2020, Armstrong ha iniziato a pubblicare periodicamente i
video delle canzoni reinterpretate, fino a quando c’è stato abbastanza
materiale per comporre la scaletta di un vero e proprio full length. Ne
è venuto fuori un divertito e divertente disco di pop punk
perfettamente in linea con la storia di Armstrong e dei Green Day:
chitarroni arrembanti, handclapping, echi sitxies e melodie acchiappone.
Tutto il consueto armamentario, dunque, per un disco che non ha grandi
pretese se non quelle di essere ascoltato a un volume esagerato e
suggerire un clima festaiolo, in chiara controtendenza con i tempi bui
che stiamo vivendo.
In scaletta, tra gli altri, ci sono abiti vintage su misura per Armstrong (la rilettura fedelissima di Police On My Back dei Clash di Sandinista), tormentoni anni ’80 (la saltellante cover di Manic Monday, scritta da Prince e portata al successo dalle Bangles), la disillusione alcolica della celebre A New England di Billy Bragg, magnifica anche in questa versione tirata, il synth pop rimasticato punk della hit Kids In America, scritta da Kim Wilde, e, udite udite, anche una curiosa reinterpretazione di Amico, portata al successo da Don Backy nel 1963 (il testo era di Mogol), a sua volta cover di Keep Away Fron Other Girls, interpretata da Helen Shapiro nel 1962.
Difficile resistere al fascino di questo No Fun Mondays, un disco che potremmo definire prescindibile, certo, ma che risulta però accattivante dalla prima all’ultima traccia.
È uscito il primo singolo di un nuovo capitolo discografico di Ron Gallo: la nuova hit è Can We Still Be Friends?, che
anticipa il disco PEACEMEAL, in arrivo il 5 marzo per New West Records.
Can We Still Be Friends è stato anticipato in America da Hide (myself behind you).
Provare a etichettare Ron Gallo è come provare ad afferrare l’acqua con la mano. Se si dovesse fare, è come il monaco con il mandala: crea qualcosa per poi distruggerla.
Non intenzionalmente, sia chiaro, ma più per necessità, per rimanere
autentico, per sempre. La sua unica costante è... che non c'è nessuna
costante.
Dopo
anni vissuti a Philadelphia facendo tour DIY, suonando in diversi
gruppi, iniziando progetti per scherzo, pulendo case e riempiendo hard
disk pieni di canzoni di ogni genere (molte delle quali non hanno mai
visto la luce del giorno) nel 2014 decide di fare di lui il suo progetto principale, qualcosa per cui potesse darci dentro, anche perché, per ragioni pratiche, “se
faccio musica con il mio nome, il progetto non può mai rompersi, posso
solo morire. È come un impegno per tutta la vita con me stesso”.
Durante
i suoi ultimi giorni in Philly prima di trasferirsi a Nashville, Gallo
finisce di registrare il primo album solista, quell’HEAVY META (2017)
che porta ha firmare il suo primo contratto discografico,
un’acclamazione enorme della critica e un tour in tutto il mondo che ha
incluso performance al Coachella, Bonnaroo, Governors Ball, Austin City Limits, Lollapalooza e molti altri. L’album è stato descritto da NPR come “a burst of literate electricity” e lo stesso Gallo come un “insurgent poet and rock ‘n’ roll disruptor”
in risposta al video virale di “Please Yourself” dove Gallo e la band
in un guerrilla style su un pickup si fermano nel bel mezzo di una delle
parti più indaffarate di Broadway in Downtown Nashville.
Gallo dà seguito velocemente con Really Nice Guys EP, un concept album genre-bending e un mockumentary sulle assurdità del suo nuovo ruolo come “professional touring musician”. Dopo, nell’ottobre del 2018, arriva l’uscita del secondo album LP Stardust Birthday Party: un’esplorazione post-punk/new wave del nuovo percorso spirituale di Gallo descritto
da The Guardian come raccolta dei “fruits of meditation to Gallo’s jams
– a little like Bodhisattva Vow marked the influx of MCA’s Buddhism
into the Beastie Boys.”
Dopo tre anni di tour non-stop dietro
queste uscite, Gallo si ritrova ancora un nuovo muro davanti a sé.
Fisicamente e mentalmente distrutto e incerto di dove andare. L’ultima data del tour si tiene il 4 giugno 2019 al Beaches Brew, un festival annuale che si tiene presso la spiaggia di Ravenna, in Italia. Con un altro momento di crollo, Gallo
si mette in pausa, cancella i social media, scioglie la band e
programma di vivere il resto dell’anno in Italy nella città di sua
moglie e collaboratrice, Chiara. Questo ha iniziato un periodo
di riscoperta, tornando a una sembianza di vita normale e rivalutando
ogni cosa. Per supportare questo progetto Gallo lancia REALLYNICE.world,
un outlet creativo attraverso il quale Gallo condivide i suoi
interessi, i suoi pensieri, interviste a personale casuali e diventato
poi un festival digitale e una linea di abbigliamento.
Dopo
solo poche settimane, per questioni di visto, Gallo è stato
inaspettatamente rimandato in America, che porta a un periodo di
autoisolamento nella sua casa a Nashville, dove inizia a scrivere e
registrare musica che diventerà il suo album PEACEMEAL.
PEACEMEAL, in uscita in tutto il mondo il 5 marzo 2021, vede Gallo uscire dai confini oscuri del garage
e fare musica senza un limite o un piano. Il risultato è un miscuglio
di hip-hop ’90, r&b, weird pop, jazz e punk – la sua versione di
“musica pop”. Nonostante le sonorità siano cambiate da disco a disco, e
ancora di più con questo, il senso di umanità, di humor e una visione
del mondo eccentrica è il punto in comune di tutta la musica di Gallo.
Questa volta vediamo un Gallo livero da aspettative, esplorando la
musica nuovamente con un fascino quasi infantile e suonando
personalmente quasi tutti gli strumenti, con l’assistenza del produttore
Allen (Gnarls Barkley, Animal Collective). Scritto in una situazione
simile a quella in cui si sarebbe ritrovato il mondo un anno dopo:
l’introversa, isolata prospettiva che è diventata stranamente
universale.
La
dichiarazione d’intenti di Gallo è passata da una parte all’altra dello
spettro – dove dall’essere un giovane ragazzo frustrato che provava a
cambiare il mondo mescolando persone con noncuranza è arrivato a un
qualcosa con molta più luce ma ugualmente potente – di essere sé
stesso sempre e comunque e incoraggiare gli altri a fare lo stesso, una
delle cose più radicali da fare in un mondo che prova a impacchettare
ogni cosa, e dimostrare che a farlo ci si può divertire.
Non è un inizio facile, quello che porta quattro ragazzi di Limerick, capitanati dalla vocalist Dolores O’Riordan, a pubblicare Everybody Else Is Doing It, So Why Can’t We,
esordio del 1993, pubblicato sotto l’egida Island Records, con il nome
di Cranberries. Una serie di Ep, l’ultimo dei quali intitolato Uncertain
(1991), che passano quasi sotto silenzio, problemi con la casa
discografica e i produttori, grande attenzione da parte della critica ma
un quasi inesistente ritorno di vendite, è l’abbrivio di una storia
che, in pochi anni, però, prenderà ben altri contorni.
Il
loro primo disco, però, pur ricevendo giudizi entusiastici dalla stampa
specializzata, in patria e Inghilterra riceve una tiepida accoglienza,
nonostante l’immediatezza e la fantasia di cui si vestono canzoni che
raccolgono la tradizione celtica vestendola con gli abiti del pop
chitarristico di matrice britannica, che evoca Smiths e Stone Roses.
Canzoni fresche e godibili, come Linger, Dreams o Sunday, che
sembrano fatte apposta per scalare le charts e che invece restano ferme
al palo, fino a quando la band irlandese, parte per un tour negli
States, ad aprire i concerti dei Suede.
I giovani americani sono i primi ad accorgersi del talento della band irlandese, Dreams
vola ai vertici delle classifiche statunitensi e i Cranberries vengono
adottati dalle radio FM statunitensi, che passo con frequenza le loro
canzoni. Di riflesso, l’eco arriva così anche in Europa, e la band
inizia a raccogliere i primi frutti di tre anni di lavoro decisamente
complicati.
Il boom di vendite e il successo quasi planetario, però, arriveranno con il successivo No Need To Argue (Non c’è bisogno di discutere),
che esce a fine settembre del 1994 e in poco tempo fa incetta di dischi
d’oro e di platino, piazzandosi ai vertici delle classifiche di tutta
Europa, trainato dal leggendario singolo Zombie. Un successo
decisamente meritato, visto che il secondo full length della band suona
più coeso, maturo e curato del precedente, coagulando in tredici canzoni
un suono che di lì a breve sarà immediatamente riconoscibile, grazie a
un elegante equilibrio fra evocazioni folk e sferzante pop rock,
trainato dalla chitarra (elettrica e acustica) di Noel Hogan, seconda
mente pensante del gruppo. Il marchio di fabbrica, però, risiede
soprattutto nella voce di Dolores O’Riordan, il cui cantato
singhiozzante e appassionato diviene indiscussa icona degli anni ’90,
decennio in cui i Cranberries firmano i capitoli migliori della loro
discografia.
Il
disco, dicevamo, scala le classifiche di mezzo mondo, nonostante, anche
rispetto al predecessore, un filotto di canzoni non proprio solari, il
cui suono, talvolta spinto dall’irruenza di chitarre distorte (Zombie) talvolta carezzevole (Ode To My Family),
è quasi sempre attraversato da languori malinconici, in un perfetto
gioco di luci e ombre. Un disco, dunque, dai contorni mesti e depressi (Disappointment, Everythig I Said, Daffodil Lament), a tratti cupi (Empty), capace di attualizzare il folk celtico (Ode To My Family), di mostrare il ringhio feroce della militanza politica (l’incalzante e caustica Zombie, sulla situazione nordirlandese), di sposare la causa alt rock (Ridicolous Thoughts) e di aprirsi a poetici spiragli di luce (Dreaming My Dreams, l’unico momento davvero rilassato del disco).
No Need To Argue
mostra fin da subito le stigmate dell’instant classic e a distanza di
tempo può essere considerato uno dei dischi più significativi degli anni
’90. Non è un caso, quindi, che dopo nemmeno dieci anni, e cioè nel
2002, veda la luce una prima riedizione, intitolata No Need to Argue (The Complete Sessions 1994-1995),
contenente cinque tracce aggiuntive precedentemente pubblicate come
b-side dei singoli tratti dall'album originale, e quindi, nel 2020, una
più esaustiva reissue, per la felicità di tanti fan, orfani della voce
di Dolores O’Riordan.
La
nuova versione digitale e in doppio CD, infatti, è stata ampliata e
rimasterizzata, e include ora 19 brani inediti tra cui le tre B – sides (Away, I Don’t Need e So Cold In Ireland), oltre a due tracce mai pubblicate (Yesterday’s Gone, registrata per MTV a New York nel 1995, e una versione demo di Serious,
sino a ora vista ed ascoltata unicamente in un filmato di bassa qualità
su YouTube). L’edizione 2CD DeLuxe presenta inoltre scatti inediti
tratte dalle sessioni fotografiche dell’album, mentre la versione in
doppio LP include l’album rimasterizzato, le tre B-sides e le extra
tracks Yesterday’s Gone e (They Long To Be) Close to You, cover del brano dei Carpenters.
Mónica
Andrade è sparita da qualche giorno, e il caso non meriterebbe
particolari attenzioni se non si trattasse della figlia di un celebre
cardiochirurgo con cui mezza città (incluso il commissario Soto, diretto
superiore dell’ispettore Leo Caldas) pare sentirsi in debito. Così
Caldas, dapprima con un certo distacco poi sempre più coinvolto, si
addentra nella vita della giovane scomparsa, tra la Scuola di arti e
mestieri dove lei insegna e il villaggio di Tirán in cui si è ritirata a
vivere, al di là della ría sulla cui sponda meridionale sorge Vigo: un
mondo antico e isolato, collegato alla grande città da un traghetto che
lei prendeva quotidianamente...
Che
fine ha fatto Monica Andrade? E’ stata rapita? E’ stata uccisa? Si è
persa nei boschi vicino a casa o semplicemente si è dileguata nel nulla,
di sua spontanea volontà, per ricominciare da capo, una nuova vita,
lontano da qui? Sono questi i quesiti che il padre della ragazza
scomparsa, un noto cardiochirurgo di Vigo, pone all’ispettore Leo
Caldas, il poliziotto incaricato delle indagini. Il quale, non sa che
pesci pigliare, perché la ragazza è maggiorenne e, apparentemente, non
ci sono indizi che portano a configurare un reato.
Inizia così L’Ultimo Traghetto,
terzo volume dedicato alle indagini di Leo Caldas, personaggio
inventato dalla penna dello scrittore spagnolo, Domingo Villar.
Un’indagine che non è un’indagine e che potrebbe concludersi
velocemente, se, come tutti sospettano, Monica ha deciso di allontanarsi
da casa, per sfuggire a un padre dispotico e opprimente. Qualcosa,
però, non torna e Caldas inizia a fare domande e cercare risposte presso
la Scuola di arti e mestieri, dove Monica insegnava la lavorazione
della ceramica. Già, perché una teste, la bidella della scuola, afferma
che la ragazza, la sera prima della scomparsa sembrava terrorizzata,
proprio come se avesse visto un fantasma…
L’Ultimo Traghetto
è un giallo classicissimo, che evita i ritmi adrenalinici dei thriller
moderni, si prende il sui tempi, e si concentra sulle indagini, sui
particolari, sui piccoli passi avanti fatti verso la scoperta della
verità. Un romanzo in cui sembra non succedere mai niente, fatto di
azioni di piccolo cabotaggio e di tante parole, e che, invece, passo
dopo passo, diventa sempre più appassionante e incalzante, tanto da
rendere impossibile interrompere la lettura anche solo per andare in
bagno.
Villar
è bravissimo non solo a costruire una trama complessa, senza perdere il
bandolo della matassa, a sviare il lettore, disseminando indizi e
acuendo sospetti, che in realtà potrebbero essere fallaci, ma,
soprattutto, mantiene un livello di scrittura qualitativamente alto,
ispirandosi ai grandi autori di genere, per i quali la forma non può
essere disgiunta dalla sostanza.
I
nodi verranno al pettine solo nelle ultime pagine del romanzo, ma se
siete acuti osservatori e leggete con attenzione, potreste riuscire a
mettere insieme le tessere del puzzle ben prima del convincente finale.
Sullo sfondo, la città di Vigo, gemma della Galizia che ha dato i natali all’autore e che, ne L’Ultimo Traghetto
viene rappresentata in tutta la sua bellezza: la bellezza di quel mare,
ricco di storie e di risorse, che, placido, osserva di lontano il
dipanarsi della vicenda e gli affanni dei suoi protagonisti.
La
storia è nota: chiusa l’avventura con i Jam, Paul Weller svolta
completamente pagina, appende la chitarra al chiodo, smorza la rabbia
giovanile in pose dandy, e passa dal modernismo a un suono nuovo e
avanguardistico, che fonde pop, jazz, soul e funky, declinati con classe
e un piglio solo apparentemente modaiolo. Se, infatti, il passaggio
dall’eleganza cheap dei cravattini e delle giacche nere attillate a un
look dal vago sapore esistenzialista è evidente e definitivo, dietro i
languori pop della musica degli Styles si nasconde una militanza
politica sempre più apertamente schierata a sinistra, con liriche
chiare, urticanti, dirette, che fanno proprie le istanze del collettivo
Red Wedge.
Mocassini,
cappuccino, polo e maglioncini a V, creano l’appeal esteriore per un
suono audace, che aprirà alla successiva stagione dell’acid jazz.
Affiancato di Mike Talbot, ex tastierista dei Dexy’s Midnight Runners,
Weller dà inizio alla nuova avventura nel 1983, con l’EP Introducing The Style Council, antipasto saporito di soul (Long Hot Summer), canzone francese (The Paris Match) e R’n’B (Speak Like A Child), che mette subito in chiaro da che parte girano le nuove composizioni del genio di Woking.
I successivi Cafè Blue (1984) e Our Favorite Shop
(1985) faranno di un eclettismo quasi schizofrenico il motore
propulsore di canzoni destinate a durare nel tempo ed entrare nella
leggenda: due dischi eterogenei eppure bilanciatissimi, che intrecciano
pop e black music, jazz e chanson esistenzialista, pose dandy e slogan
barricaderi.
Dura poco il progetto Style Council, visto che già al capitolo successivo (The Cost Of Loving, 1987) Talbot e Weller sembrano essere già stufi, svogliati e a corto d’idee. Il mediocre Confessions Of A Pop Group (1988) mette la parola fine alla storia e apre a Weller le porte di una lunga e brillantissima carriera solista.
Questa
raccoltona (due cd e tre vinili), curata dallo stesso Weller, include
il meglio di quella stagione (le hit ci sono proprio tutte), un paio di
inediti (il demo di My Ever Changing Moods e una versione estesa di Dropping Bombs On The Whitehouse)
oltre a qualche rara foto d’archivio. Un best of indispensabile per chi
si dovesse approcciare alla band per la prima volta, e l’occasione per i
fan e i completisti di avere a disposizione un filotto di canzoni
memorabili da riascoltare fino a far affiorare una lacrimuccia di
nostalgia. Dura poco, e questo è l’unico difetto di una splendida
raccolta che si ascolta in loop.
Non
si prendono sul serio, gli Struts, e mi raccomando, non prendeteli sul
serio nemmeno voi. Se no, il rischio è che il gioco finisca subito e che
aspettative seriose facciano venir meno il tiro divertentissimo di
queste canzoni senza pretesa alcuna se non quello di produrre un surplus
di divertimento. Questi quattro ragazzi britannici, di stanza a Derby,
diciamolo pure senza troppi giri di parole, sono dei cazzari patentati
che si dilettano a giocare con il rock’n’roll, sfoggiando abiti glamour
al limite del pacchiano, sfornando melodie a presa rapidissima e
insufflando le loro canzoni di ariose e azzeccate citazioni che pescano a
destra e a manca, bisogna ammetterlo, con irriverente intelligenza.
Niente
di nuovo sul fronte occidentale, dunque, niente che non si sia già
sentito centinaia di volte, ma un recupero passatista talmente sfacciato
e divertito da riuscire a far centro al primo colpo. Così, alla terza
prova in studio, gli Struts sfornano anche il loro disco migliore,
quello che più dei due, comunque apprezzabili, predecessori, riesce a
esprimere la grande forza propulsiva di questo rock’and’roll senza
pretese e ad alto tasso energetico.
Il
disco, registrato in soli dieci giorni a Los Angeles, ha visto poi,
come ciliegina sulla torta, anche la presenza di un pugno di ospiti di
altissimo livello, che hanno dato ulteriore nerbo alle dieci canzoni in
scaletta (Robbie Williams, Albert Hammond Jr, Tom Morello, Phil Collen e
Joe Elliott dei Def Leppard). Un cocktail riuscito di glam rock,
garage, canzoni da stadio, hard rock melodico, che cita senza scrupoli
tutti i numi tutelari della band, dagli Slade ai Kinks, dai Queen agli
Stones, dagli Aerosmith ai Darkness, senza dimenticarsi spiccioli di
brit pop, che pescano da Oasis e Supergrass.
Cosa che avviene, a esempio, nella title track,
posta a inizio disco e figlia di un azzeccato duetto con una star di
prima grandezza come Robbie Williams. Un brano melodico e irresistibile
che traina il resto della scaletta composta da un filotto di canzoni, a
volte magari un po' cafone e sopra le righe, ma sempre azzeccate. All Dress Up, parte in sgommata con un riff stonesiano al midollo, cosa che succede anche nella lunga Cool, in cui il vocalist Luke Spiller veste i panni del Mick Jagger de’ noartri; Wild Child, con Tom Morello ospite alla chitarra, mostra i muscoli e sfodera un ghigno hard blues degno degli Aerosmith più duri, Burn It Down è una ruvida ballata che evoca i Black Crowes, mentre Can’t Sleep, addirittura, ruba il drumming di Lust For Life
di Iggy Pop. Tutto imbellettato di fresco, ma tutto già sentito.
Eppure, il giudizio resta positivo anche quando gli Struts si
avventurano in una cover pacchiana ed esagerata di Do You Love Me, classico dei classici targato Kiss.
I capolavori sono altri, ovvio, ma non sottovalutate il piacere di ascoltare dischi come Strange Days:
alzate il volume dello stereo a palla e godetevi quarantacinque minuti
di semplice e sano rock’n’ roll: male non fa, e il rischio è che finisca
pure per piacervi tanto da metterlo in loop quando si potrà tornare a
far festa con gli amici.
MARTIN GORE presenta oggi il nuovo singolo “Howler” tratto dall’imminente EP strumentale di 5 tracce, The Third Chimpanzee in uscita il 29 gennaio su Mute [PIAS].
“Howler è stato il primo brano che ho registrato per 'The Third Chimpanzee EP'" afferma Martin. “Aveva un sound che non era umano. sembrava
quasi derivasse da un primate. Decisi di chiamarlo “Howler” come la
scimmia. Dopodiché, quando arrivò il momento di dare un nome all’EP,
ricordai di aver letto ‘The Rise and Fall of the Third Chimpanzee’.
Aveva senso chiamarlo così, dato che l’EP era per un terzo prodotto da
scimpanzé.”
Come l'intero EP, "Howler" è
stato scritto e prodotto da Martin Gore e registrato all'Electric
Ladyboy di Santa Barbara, in California. The Third Chimpanzee è
disponibile ora per il pre-ordine su CD, su vinile celeste 12” in
edizione limitata (che include una stampa artistica) e in digitale.
L’artwork è a cura di Pockets Warhol.
Sono passati 5 anni da quando Martin pubblicò l’acclamato album strumentale MG. “Mandrill” segue la pubblicazione dell’ultimo album dei Depeche Mode Spirit nel 2017. La band è stata accolta nella Rock & Roll Hall of Fame.
Il
10 novembre del 2005, gli Editors vengono a suonare al Rainbow di
Milano. A luglio, hanno pubblicato il loro album d’esordio, The Back Room,
che in Inghilterra ha già venduto duecentocinquantamila copie, mentre
da noi trova un riscontro tiepido, finendo soprattutto nelle discografie
di quegli appassionati di post punk, che vedono nella band britannica
degli epigoni dei Joy Division, trovando nostalgici riferimenti agli
anni’80.
Il
pubblico, composto da qualche centinaia di fan è caldissimo, il
concerto, impostato sulla scaletta del disco, è breve ma intenso, e fa
subito intravvedere l’attitudine live e il talento artistico di una
giovane band, da lì a qualche anno destinata a un notevole successo
mediatico. E’ l’inizio di un percorso che, due anni dopo, porterà alla
pubblicazione di An End As A Start, il disco della
consacrazione, che conferma gli Editors come una realtà e non più come
un prospetto, e vale al gruppo britannico un disco di platino
conquistato il giorno stesso della pubblicazione.
E’
anche il disco, questo, con cui lo stile di Tom Smith e soci trova
completa definizione (almeno per questa prima parte di carriera),
cogliendo probabilmente l’apice espressivo della band: vengono smussate,
e non poco, le ingenuità e le citazioni del primo lavoro, lavorando in
profondità sulla struttura dei brani e accentuandone la drammaticità e
il mood malinconico. Un disco meno dritto e diretto, che possiede un
suono più elaborato, ma ancora spesso incardinato sull’urgenza
devastante della chitarra di Chris Urbanowicz, e foriero di uno sguardo
più attuale e moderno, che non rinnega però i propri padri putativi, dai
Joy Division agli Echo And The Bunnymen, passando attraverso un certo
rock da stadio targato U2.
Il disco si apre con Smokers Outside The Hospital Doors,
titolo evocativo di una poetica corrucciata e crepuscolare, che
preferisce la penombra, il grigio delle periferie e la decadenza
autunnale, alle luci e ai colori. L’inusuale intro di batteria (ben otto
secondi), la voce drammatica e impostata di Tom Smith, gli accordi di
pianoforte in minore, la chitarra di Urbanowicz che spinge la tensione
al parossismo, e poi, improvvisa, quella pausa, a tre minuti
dall’inizio, che sospende la teatrale epica del brano, in un sospiro di
mesta rassegnazione, sono le armi di un’opener che fa balzare sulla
sedia fin dal primo ascolto.
“The saddest thing that I'd ever seen were smokers outside the hospital doors”,
canta Smith, cristallizzando un’immagine evocativa per molti, un
momento di tristezza condiviso, quello dei fumatori fuori dalle porte
dell’ospedale, che consumano nel fumo le proprie angosce, in attesa di
una notizia che può restituire alla vita o sprofondare nel baratro del
dolore.
Resta,
tuttavia, solo un’immagine, perchè il testo (come si evince anche dal
video che accompagna la canzone), sembra semmai riferirsi al tema della
fuga come unica possibilità di riscattare un’esistenza senza più
prospettiva, come il tentativo disperato di affrancarsi dal dolore, per
provare a ricominciare da capo e tornare a vivere una vita appagante (I can't shake this feeling I've got, My dirty hands, have I been in the wars?...Someone turn me around, Can I start this again?).
Un
desiderio di fuga talmente forte e totalizzante da spingere la ragazza
protagonista del video a correre sulle acque, in un miracoloso
allontanarsi da tutto e da tutti, per riconquistare finalmente quel
dolce sorriso che le illumina il viso nella liberatoria sequenza finale.
La
maledetta pandemia di Covid 19 ci ha privati del grande piacere di
poter ascoltare la musica dal vivo, di stare sotto il palco a poter
vivere l’emozione di assistere in prima persona un concerto dei nostri
beniamini. Per un po', durante il lockdown, anche la musica in studio ha
subito una pesante flessione, album annunciati e rimandati, album che
non hanno mai visto la luce, album pubblicati solo in digitale con
l’uscita fisica procrastinata in un futuro, si spera, meno funesto.
L’idea stessa del songwriting è stata riconsiderata, trovando una veste
più scarsa, in dischi concepiti e suonati in solitaria dentro le pareti
di casa, o più elaborata, in canzoni costrette a girare per il web,
affinchè ogni musicista coinvolto potesse suonare da remoto le proprie
parti strumentali o vocali. Alla fine, non è andata tanto male, e il
2020, nonostante la tragedia che si consumava tutto intorno a noi, ci ha
regalato molti dischi bellissimi.
Ultimo, ma solo in ordine di tempo, è questo McCartney III,
seguito di due album con lo stesso titolo, pubblicati rispettivamente
nel 1970 e nel 1980, composto e suonato interamente da Macca durante la
clausura del lockdown. Un disco che, come spiegato poco sopra, risente
inevitabilmente di un modo di verso di fare musica e risulta così più
scarno e ruspante del precedente e faraonico, mi si passi il gioco di
parole, Egyptian Station. Tuttavia, dal momento che non siamo
al cospetto di uno qualsiasi, ma di un musicista che ha inciso
profondamente sulla storia della musica, III non risente
assolutamente della pochezza di mezzi con cui è stato registrato, né
tanto meno, riverbera le afflizioni dell’infausto periodo storico.
L’impressione, infatti, è che Paul McCartney si sia divertito moltissimo
a concepirlo e suonarlo, che avesse in tasca tante idee e intuizioni da
mettere al servizio della propria musica e che si sia trovato a proprio
agio in una dimensione più spartana e meno fastosa, in cui ritrovare
l’essenza della propria scrittura, che talvolta si era persa in orpelli e
paludamenti di fastidiosa ridondanza.
Nonostante
il lavoro in solitaria, o forse proprio per questo, il disco fila
meravigliosamente dalla prima all’ultima canzone; non è però, un disco
immediato, ci vuole più di un ascolto per entrare nel mood di undici
composizioni che spaziano per generi, abbracciano qualche tentativo di
sperimentazione e si tengono alla larga dall’approccio mainstream e
sovra esposto del predecessore.
L’iniziale, e quasi strumentale, Long Tailed Winter Bird
creata intorno a un favoloso giro di chitarra è un colpo da fuoriclasse
e testimonia su come Macca abbia proceduto alla lavorazione, partendo
da un’idea brillante da cui iniziare ar costruire il resto. L’ossatura e
poi la polpa. La successiva Find My Way è il brano più pop del
disco, melodia di facile presa e un testo che, per converso, riflette
sul turbamento figlio dei giorni del lockdown. I primi due assaggi di
una scaletta che spazia fra la melodia pianistica introversa di Women And Wives dai cupi echi alla Nick Cave, al rock blues grezzo e verace di Lavatory Lil, dall’acustica e melodica The Kiss Of Venus, la più maccartniana del lotto insieme alla conclusiva Winter Bird-When Winter Comes.
Tutte gran belle canzoni, superate ai punti, però, dall’inaspettata Deep Deep Feeling, lungo e inquietante percorso tra blues, gospel e atmosfere cinematiche, e l’essenzialità francescana di Deep Down, riuscito patchwork tra soul ed elettronica, equilibrio perfetto fra modernità e vintage.
Alla
soglia degli ottant’anni, Paul McCartney continua a pensare, scrivere e
suonare grande musica, con la brillantezza di un giovane artista e
l’esperienza di un veterano, capace di trovarsi a propria agio anche in
questa dimensione artigianale. Suono, canzoni, emozioni: tutto è
perfetto in McCartney III, a dimostrazione, se mai qualcuno se
ne fosse dimenticato, che ci troviamo di fronte a un artista che ha
segnato indelebilmente la storia, ma che ha sempre avuto la forza di non
sostare nel passato leggendario, ma di rinnovarsi e guardare al futuro.
Un Fab Four, insomma, è come un diamante, dura per sempre.
Il
Natale, si sa, è il periodo dell’anno che suggerisce spesso e
volentieri l’uscita di pubblicazioni a tema. E’, infatti, davvero
impressionante il novero di artisti che si è cimentato in dischi o
canzoni natalizie, il più delle volte, permettetemi il giudizio severo,
con risultati non sempre brillanti. Questa volta, è stato il turno dei
Calexico, una band dalla quale, con tutta franchezza, mai mi sarei
aspettato questo tipo di operazione, anche se, a ben vedere, la
progressiva svolta stilistica, quella, cioè, che ha visto il passaggio
da un polveroso folk rock di frontiera a un pop rock di gran classe,
rende meno stridente un’operazione di questo tipo.
Ecco, allora, questo Seasonal Shift,
disco dedicato al Natale, ma non solo, che vede all’opera il duo
Burns/Convertino con nove brani originali, tre cover e un nutrito gruppo
di ospiti, più o meno noti (Bombino, Gaby Moreno, Nick Urata, etc). Il
suono, pur declinato con un accento diverso, resta quello ormai
inconfondibile dei Calexico, il mood, spesso divertito, trova un giusto
contrappunto in alcuni brani più meditabondi, e i diversi generi
affrontati trasmettono alla scaletta una piacevole brillantezza che
stimola ripetuti ascolti.
Non tutte le ciambelle riescono col buco, a dire il vero: la rilettura svolazzante di Christmas All Lover Again dal repertorio di Tom Petty (con Nick Urata dei Devotchka) e il classicone di John Lennon, Happy Xmas (War Is Over), arrangiata con una spolverata di fiati nel finale, restano episodi abbastanza prevedibili, mentre Sonoran Snoball, un burrito indigesto farcito di rap ed elettronica, è di una bruttezza che conosce pochi eguali.
La
resa complessiva del disco, tuttavia, è davvero buona, e alcuni
episodi, anche decontestualizzati, vivrebbero di brillante luce propria.
A tal proposito, giusto menzionare Heart Of Downtown, punto d’incontro fra musica di frontiera e blues del deserto, che vede ospite la chitarra evocativa di Bombino, Hear The Bells,
vellutato brano di apertura e quello che meglio fonde il suono Calexico
allo spirito natalizio (che meraviglia le carezze di pedal steel!), il
fado malinconico ed elegante di Tanta Tristeza (con la voce meravigliosa di Gisela Joao) e la divertentissima Mi Burrito Sabanero
(dal songbook di Hugo Blanco), da cantare e ballare giocosamente sotto
il vischio. Canzone, questa, ripresa nel finale e trasformata in una
lettera d’auguri in tutte le lingue del mondo, chiosa affettuosa e
omaggio ai fan della band.
Seasonal Shift
non è certo un disco indispensabile nella carriera dei Calexico e di
certo mai lo annovereremmo fra le cose migliori della band originaria di
Tucson. Se, però, cercate qualcosa di diverso per accompagnare le
vostre festività e i momenti conviviali, decisamente meglio questo
curioso album che tante patacche di plastica senz’anima. Prescindibile
ma piacevolissimo.
Dolores
O’Riordan muore il 18 gennaio del 2018 nella vasca da bagno della
stanza 2005 dell’hotel Hilton di Londra. I Cranberries si trovano nel
capoluogo britannico per una sessione di registrazione: stanno infatti
mettendo a punto undici canzoni per un nuovo album, che dovrebbe uscire
di lì a breve. E' un lavoro duro, faticoso e Dolores non è al top della
forma, non sta passando un bel periodo. Torna in albergo e comincia a
bere, troppo e smodatamente. Forse, lei stessa si accorge di aver
ecceduto e, barcollando, arriva in bagno, decisa a mettersi nella vasca,
per cercare di riprendersi e far evaporare i fumi dell’alcol. Si
immerge nella vasca e si addormenta. Nel sonno, etilico e profondo, si
gira di lato e mette la testa sott’acqua. Il suo corpo, esanime, verrà
trovato il giorno dopo.
Il
coroner, incaricato dell’autopsia, otto mesi dopo il decesso,
dichiarerà che Dolores aveva in corpo 330 mg di alcol per 100 ml di
sangue, un valore più di quattro volte superiore al limite legale
previsto per la guida (80 mg). Non si è suicidata, però, non ci sono le
prove che abbia messo in atto un gesto estremo, è stata solo una tragica
fatalità, sostiene il medico, solo un terribile incidente.
In The End,
questo il titolo del nuovo disco dei The Cranberries, esce il 26 aprile
del 2019, dopo che i componenti della band hanno rispettato un lungo
periodo di lutto e hanno ricevuto il consenso della famiglia a procedere
con la pubblicazione.
Chi
temeva le solite speculazioni necrofile a fini commerciali, si trova
invece ad ascoltare un disco di gran livello, composto da canzoni tutte
decisamente buone, alcune davvero bellissime. Nessuna profanazione,
dunque, né assemblaggi di scarti o di incompiuti che avrebbero potuto
ledere alla memoria di una delle artiste (e delle band) più amate degli
anni novanta. Questo disco, semmai, suona come un canto del cigno, un
epitaffio con cui rendere omaggio a Dolores e ricordarla con la qualità
di un lavoro iniziato nel 2017 e, poi, portato a termine solo dai tre
membri superstiti con l’aiuto di Stephen Street, che già in passato
aveva lavorato con il gruppo, contribuendo non poco al suo successo (fra
gli altri, No Need To Argue del 1994).
Le
rombanti chitarre elettriche, i riff croccanti delle acustiche, le
melodie di facile presa, ma mai scontate, e in sottofondo, i profumi
famigliari che evocano Limerick e il cuore dell’Irlanda, si coagulano
intorno al cantato singhiozzante, appassionato e inconfondibile di
Dolores.
C’è
tristezza, nostalgia e sconforto, e tutto ciò è quasi inevitabile: sono
pochi i momenti leggeri del disco, mentre la maggior parte delle
canzoni, concepite da Dolores, che aveva scritto tutti i testi, e
portate a termine dai tre compagni di una vita, sono attraversate da un
mood malinconico che spesso afferra la gola e non lascia scampo.
D’altra
parte, negli undici brani in scaletta, la O’Riordan riflette sulle
difficoltà della propria vita, sui suoi disturbi psichici, sulla
separazione dal marito e sulla battaglia che giornalmente combatteva per
tornare a riappropriarsi della propria esistenza. Un pugno di canzoni
intense e sofferte, quindi, segnate da titoli e testi quasi profetici su
quello che sarebbe poi accaduto da lì a poco: nell’iniziale All Over Now, Dolores canta: “ Do You Remember? Do You Remember The Place? In a Hotel In London. A Scar On Her Face”, e la drammatica e crepuscolare Lost, suona quasi come una dichiarazione di resa (“I
wonder when I should give in I wonder when I should begin To let it go.
I feel I'm dwelling in the past, I know the time is moving fast, I want
you to know, I'm lost with you, I'm lost without you”).
Tra le undici canzoni in scaletta, svetta per bellezza l’amara invocazione di Wake Me When It’s Over, una sorta di Zombie
del nuovo millennio, che raggruma tutta la disperazione di una donna
alla deriva, travolta da una vita che non sente più sua, risucchiata in
un vortice di angosce e problemi da cui è impossibile uscire, che
vorrebbe trovare la forza per ribellarsi, per reagire, per cercare una
nuova strada verso la felicità, senza però riuscirci.
Una sorta di autoanalisi feroce e senza filtri: “Fighting's not the answer, Fighting's not the cure, It's eating you like cancer, It's killing you for sure”,
canta Dolores, prendendo atto di un dolore che è inutile combattere,
perché la battaglia non è la risposta, e più cerchi di opporti, più la
sofferenza ti sbrana interiormente. “Living in the past, It's difficult to hide”,
non resta che vivere nel passato, anche se è difficile nascondersi nei
ricordi. Allora, meglio abbandonarsi al sonno, e aspettare che qualcuno
mi svegli, quando tutto sarà finito. Inquieta l’ulteriore e involontario
riferimento alla propria morte: il sonno, che coglie improvviso la
cantante sdraiata nella vasca da bagno, e quel riferimento, nella parte
finale del brano, all’acqua (“Watch The Rain Drop”) che sarà la concausa del suo decesso.
Il
feretro di Dolores O’Riordan verrà sepolto nel cimitero di Caherelly a
Limerick, vicino a Terence, suo padre. Mentre le radio di tutta Irlanda
passano in contemporanea When You’re Gone, uno dei maggiori
successi dei Cranberries, durante la cerimonia funebre presso la Alibe’s
Church, gli amici e i componenti della band, le rendono un ultimo
omaggio, cantando tutti insieme, a cappella, No Need To Argue: “I knew, I knew I'd lose you, You'll always be special to me, Special to me, to me”.
A
dispetto del nome inquietante, che evoca scenari da metal estremo e
lugubri atmosfere notturne, gli svedesi Lykantropi si tengono ben
lontano da sonorità dure e tonitruanti, preferendo ai riff pesi e alla
velocità atmosfere decisamente più agresti e sognanti. Il loro, infatti,
è un folk sui generis, che nelle liriche evoca figure e atmosfere
silvane, spiriti e leggende della mitologia nordica, e guarda agli anni
settanta (echi dei Renaissance, ma meno leccati), irrobustendo la
proposta, però, con un taglio decisamente rock.
Le canzoni di Tales To Be Told,
terzo album in studio, si vestono talvolta di echi psichedelici e
poggiano, di tanto in tanto, su un’impalcatura che lambisce i confini
del prog, Il suono della band, composta da sei elementi, è
caratterizzato da due voci, una maschile (Martin Ostlund) e una
femminile (My Shaolin), e, oltre alla classica strumentazione (due
chitarre, basso e batteria), anche dall’uso del flauto, che garantisce
alle canzoni in scaletta un tocco bucolico molto evocativo.
Il
risultato è un album di folk rock e otto canzoni d’atmosfera, che
palesano le proprie radici nordiche, pur richiamando alla mente, spesso e
volentieri, i Midlake, una grande band americana, che ormai da
vent’anni a questa parte attraversa territori molto simili. Non un disco
rumoroso, ma, a dire il vero, nemmeno contemplativo, come dimostra il
piglio energico dell’iniziale Coming Your Way, trainata da un gran bel drive di chitarra e punteggiata dal flauto di Ia Oberg, o la più bluesy title track,
anche questa spinta dalle due chitarre, che intrecciano trame
elettriche ai piedi della splendida voce di My Shaolin, il cui timbro,
dalle venature psichedeliche, sembra emergere da un passato
lontanissimo.
Una struttura, questa, che si ripete per quasi tutto il disco, come nella successiva Mother On Envy, in cui l’accento folk è predominante grazie a una maggior presenza del flauto traverso o nell’intensa Life On Hold, costruita su perfetti intrecci vocali. Eccezione al mood prevalente dell’album sono Kom Tag Mig Ut, ballata psichedelica, attraversata da splendidi svolazzi di flauto, e dalla conclusiva Varlden Gar Vidare, brano dalla struttura più decisamente progressive.
Tales To Be Told
è decisamente un disco dal taglio vintage, in assoluta controtendenza
con le mode e i suoni del momento, di una bellezza che si potrebbe
definire atemporale, se non fosse che gli anni ’70 sono, nello
specifico, sia forma che sostanza. Non è però semplice passatismo: la
band possiede idee chiarissime, uno stile ben definito e soprattutto sa
confezionare canzoni avvincenti, suonandole benissimo. Consigliato.