La
storia, più o meno, è nota a tutti. Negli anni ’90, in tutto il mondo,
impazza la scena brit pop che, tra le centinaia di gruppi, vede come
capostipiti i Blur e gli Oasis, protagonisti di una querelle musicale
creata ad arte dalla stampa. I primi, londinesi, raffinati e fighetti, i
secondi, invece, provenienti da Manchester, figli della working class,
incarnazione perfetta dell’iconografia della rock band, tutta alcool,
scazzottate e intemperanze assortite. “Due ladri d’auto di Manchester con gli spartiti dei Beatles”,
li definirà mirabilmente qualcuno, cogliendo a pieno l’essenza della
proposta musicale dei fratelli Gallagher, figli di quell’Inghilterra
proletaria, tutta pub, stadio e fish and chips, bravi a intercettare e
far rivivere con credibilità la passione inesausta del pubblico per le
canzoni dei Fab Four.
Dureranno poco, almeno da un punto di vista creativo, i giorni di gloria degli irascibili fratellini: un esordio folgorante, Definitely Maybe, del 1994, e il successivo, (What’s The Story?), Morning Glory?
(1995), universalmente riconosciuto come il loro capolavoro, due album
capaci di coagulare energia rockista e gradevoli melodie di facile
presa, che finiscono per ingolfare i passaggi radiofonici di mezzo
mondo. Quando il 10 e l’11 agosto del 1996, gli Oasis salgono sul palco
dello Knebworth Park, nella contea inglese dello Hertfordshire, la band
vive il suo momento di maggior successo: i biglietti dei concerti si
esauriscono in meno di un giorno e all’evento sono presenti circa
250.000, a fronte di una richiesta complessiva di più di un milione e
mezzo di tagliandi.
Un
evento epocale, quindi, per due serate, la prima, ai tempi, trasmessa
da BBC1 Radio in esclusiva, la seconda, da cinquecento stazioni, che
sono qui documentate in un cofanetto composto da due cd musicali e da un
dvd contenente il film dell’evento, per la regia di Jake Scott, figlio
del più celebre Ridley. Un ibrido fra concerto e documentario, che
fotografa la performance, si sofferma sulla personalità dei fratelli
Gallagher e il loro protagonismo guascone (non senza una punta, per così
dire, di agiografia), e racconta, con sincero coinvolgimento emotivo,
le storie, le avventure e disavventure dei fan che hanno partecipato
all’evento.
Il
concerto, nella sua evidente imperfezione (la resa sonora non è il
massimo), resta un documento fondamentale, sia per i fan nostalgici dei
fratelli Gallagher, sia per quegli appassionati che vogliono
approfondire un periodo cruciale della storia musicale degli anni ’90,
un’epoca non lontanissima nel tempo, ma che sembra distante ere
geologiche (incredibile: in platea non compare nemmeno un telefonino!).
Gli
Oasis, dal vivo, non avevano una grande presenza scenica (sempre molto
statici sul palco), ma sapevano farsi valere grazie a un impatto
energetico devastante (chi scrive, ai tempi, li vide tre volte e sempre
con grande soddisfazione) e a un filotto di canzoni innodiche che, nel
tempo, hanno ormai acquisito lo status di grandi classici: "Roll With It", "Live Forever", "Supersonic", "Some Might Say", "Don't Look Back In Anger", "Champagne Supernova" e "Wonderwall". Nel finale, anche una meravigliosa cover di "I Am The Walrus"
dei Beatles, indispensabile omaggio alla principale fonte d’ispirazione
degli Oasis e un nostalgico cerchio (di storia) che si chiude.
La
carriera solista di Roddy Woomble procede per traiettorie assai
distanti da quelle della casa madre Idlewild. Niente chitarre rombanti,
il graffio punk rock e la foto dei Rem nel taschino della giacca, tutti
elementi che hanno identificato il sound del gruppo di cui è leader e
che hanno prodotto almeno due dischi, i notevoli 100 Broken Windows del 2000 e The Remote Part
del 2002, tra le cose migliori dell’alternative rock scozzese del nuovo
millennio. Altre idee in testa, evidentemente, e la voglia di esprimere
una sensibilità, a cui il cui i volumi spacca casse e il fragore della
sei corde stanno chiaramente stretti.
Ecco, quindi, il senso di questo Lo! Soul,
un gioiellino di adult pop che vive in territori lontanissimi da quelli
abitati dagli Idlewild. Unica costante, il gusto per melodie di facile
presa, che sono la specialità di casa Woomble; per il resto, le dieci
canzoni in scaletta vestono inediti abiti intessuti di synth, pianoforte
e batteria elettronica. Il tutto confezionato con cura artigianale
dallo stesso Woomble e da Andrew Mitchell, che produce e suona, e mette
mano alla scrittura di quasi tutte le composizioni.
Un disco, Lo! Soul
che viaggia sui binari della malinconia verso un mondo parallelo, a
tratti vagamente claustrofobico, di sicuro più propenso alla
meditazione, alla visione nostalgica, o a un trasognato fluttuare, come
avviene proprio nell’incipit "Return To Disappear", che
richiama le tavolozze sonore di band come i Beach House. I versi poetici
di Woomble, declamati su un impianto elettronico, aprono la strada al
pop confessionale di "Secret Show", a metà strada tra spoken e cantato, o all’inquieto battito new wave di "As If It Did Not Happen",
il cui outro recitato evoca un nostalgico desiderio di ritornare
all’infanzia. Cose che non avremmo mai pensato di ascoltare da chi da
sempre ha declinato la propria idea di musica attraverso uno
sferragliante rock ad alto contenuto energetico.
Se "Architecture In La"
è il momento più giocoso del disco, un brano acchiappone, al cui mood
ondeggiante è davvero difficile resistere, sono però le canzoni in cui
Wooble imbocca la strada della ballata a essere incredibilmente
efficaci: il sapore agrodolce della pianistica "People Move Out" lascia a bocca aperta per intensità, allo stesso modo della title track, tre note che sfiorano il cuore con indicibile malinconia, o della conclusiva, sublime, "Dead Of The Moon", in cui Woomble veste i panni del crooner di gran classe.
Lo! Soul
è un disco dall’architettura scarna eppure incredibilmente denso di
pathos, un album lontanissimo da ciò che fino a oggi conoscevamo del
leader degli Idlewild, eppure egualmente identificativo di un musicista
che, non sempre è riuscito a mettere a fuoco la propria arte, ma che non
smette, comunque, mai di provarci. Forse non farà fare salti di gioia
ai fan di vecchia data della band scozzese, ma se avete mente e cuore
aperto alle novità, Lo! Soul saprà conquistarvi dalla prima all’ultima nota.
Dodici
canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno attraversato il 2021 e che fanno parte di una playlist molto
personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe
mai esserlo?), ma che cerca solo di rappresentare al meglio quanto ascoltato
durante l'anno.
Dodici
canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno attraversato il 2021 e che fanno parte di una playlist molto
personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe
mai esserlo?), ma che cerca solo di rappresentare al meglio quanto ascoltato
durante l'anno.
Dodici
canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno attraversato il 2021 e che fanno parte di una playlist molto
personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe
mai esserlo?), ma che cerca solo di rappresentare al meglio quanto ascoltato
durante l'anno.
Dodici
canzoni, una per ogni mese dell'anno, che hanno attraversato il 2021 e che fanno parte di una playlist molto
personale, che non ha la pretese di essere esaustiva (e come potrebbe
mai esserlo?), ma che cerca solo di rappresentare al meglio quanto ascoltato
durante l'anno.
Terry
Callier è uno di quei musicisti che non è semplice etichettare. Sebbene
possa rivendicare la corona del soul folk con la stessa autorità di
chiunque altro, il cantante di Chicago ha sempre posseduto un DNA più
complicato. Ordinary Joe, la luccicante apertura di Occasional Rain,
il cui vinile, tra l’altro, è un oggetto da collezione molto ricercato,
chiarisce che Callier è un musicista inafferrabile, un’anima musicale
ricca di sfaccettature, capace di oscillare fra i generi con una
padronanza che è solo di pochi.
In
tutta la sua estetica artistica scorre, poi, fluente, il sangue della
sua nativa Chicago, come confluenza essenziale di molti filoni della
musica nera. Così, l’incredibile combinazione dello struggente
songwriting di Callier e dei brillanti arrangiamenti eterei di Charles
Stepney, ha prodotto, in questo disco (che anticipa di un solo anno il
capolavoro indiscusso What Color Is Love) un suono decisamente unico, contiguo, per certi versi, al gospel gotico (e psichedelico) dei leggendari Rotary Connection.
In altre parole, l'atmosfera in Occasional Rain
è decisamente cupa. Le canzoni sono intense, a tratti addirittura
commoventi, dal momento che le liriche parlano di tradimenti, di vite
spezzate e di amori perduti, tuti racconti resi con una carica emotiva
sincera, che va oltre ogni superficiale melodramma. Callier, in tal
senso, ricorda un po' il cantante folk urbano Len Chandler (chiedete a
Dylan per le referenze), nella misura in cui riesce a distillare
emozioni crude in testi che non hanno bisogno di ricorrere al melenso
ricatto della lacrima. Ogni emozione, in questo disco, suona così
incredibilmente verace e palpitante (provate a trattenere le lacrime, se
siete capaci, durante l’ascolto di Do You Finally Need A Friend):
la voce profonda e densa di Callier, la grazia cristallina degli
arrangiamenti, che creano un connubio indissolubile fra blues, soul e
armonie gospel, il contributo decisivo dei soprani Kitty Haywood e
Minnie Riperton, il cui tono vagamente spettrale riesce a essere al
contempo tanto ossessionante quanto incredibilmente carezzevole.
Tutti questi elementi rendono affascinante, non soltanto Occasional Rain,
ma un po' tutto questo periodo creativo della storia musicale di
Callier. Da un lato, il matrimonio artistico con l'ingegnoso Stepney, ha
prodotto una tela sonora unica per i suoi colori secondari dal sapore
quasi operistico, dall’altro, una scrittura luminosa, ricca di
sfumature, che mette al centro la poetica di Callier, un musicista e un
narratore talmente ispirato, che potrebbe eseguire in modo convincente
qualsiasi canzone con nient'altro che una chitarra acustica.
Questa forte spinta narrativa, indissolubile dalle melodie, è ciò che rende Occasional Rain
un classico senza tempo, un'opera d'arte dai connotati intellettuali,
che, tuttavia, esprime un profondo radicamento nella cultura popolare di
quel momento storico e di quella città, Chicago, che è stata per
Callier qualcosa di più che una semplice fonte d’ispirazione. Grande
musica, è fuor di dubbio, ma anche una profonda umanità, capace di
rendere universali i palpiti del cuore. Folk, psichedelia, soul, gospel
e, soprattutto, blues. Il blues: una delle poche forme d’arte al mondo
che sappia essere contemporaneamente colta e popolare. Callier lo aveva
capito meglio di chiunque altro, ed è questa la forza di un disco, di cui molto difficilmente riuscirete a fare a meno.
Quando Adele ha pubblicato il suo album di debutto 19, nel 2008, e ha poi conseguito seguito il successo mondiale con 21,
due anni dopo, piaccia o meno, si è ritagliata una nicchia importante
nel mondo della musica, che col passare del tempo, è andata sempre più
ad ampliarsi. La sua voce potente e piena di sentimento, il suo modo di
scrivere canzoni, che l’ha sempre distinta da molti artisti coevi, e il
suo approccio sincero alla cronaca degli alti e bassi della sua vita, ha
reso la sua musica avvincente, anche fuori dal circuito squisitamente
mainstream.
Da quando è uscito 21, Adele è diventata così una vera e propria icona, e la pubblicazione poi di 25 (2015) e il boom clamoroso del suo singolo Hello
(prima piazza in ben trentacinque classifiche mondiali!) l'hanno
trasformata in un vero e proprio fenomeno di massa: la sua sofferta
sensibilità, la sua musica diretta ma non banale, per non parlare della
sua pura abilità vocale, l'hanno resa un appuntamento fisso nelle radio e
nelle charts di tutto il mondo.
E così, in poco tempo, nell’immaginario collettivo, Adele è diventata sinonimo di “canzone soul triste”, Adele è diventata “un suono”.
E non è difficile immaginare diversi produttori che, in durante le
registrazioni di un disco, incoraggino le proprie artiste a cantare
esattamente come farebbe Lei.
Queste, dunque, le aspettative che hanno accompagnato l’uscita tardiva del quarto album in studio, 30, disco anticipato da "Easy On Me",
ballata meditabonda, voce potente, il consueto approccio sincero,
melodia guidata dal pianoforte e arrangiamento scarno. Tutti gli
elementi che hanno definito uno stile unico: questo è il suono che i fan
si aspettavano, questo è il caldo abbraccio di Adele, che era mancato
per sei anni.
Per buona parte della scaletta, 30
soddisfa appieno le attese di chi da sempre ha amato la cantante
londinese, grazie a un filotto di canzoni, levigate da una produzione “cinematografica”
e, talvolta, un po’ patinata (direbbero forse i detrattori), in cui
Adele riversa senza filtri il suo cuore, la sua anima e le sue lacrime.
Cioè, il suo suono.
Oltre a "Easy On Me", si muovono sulle stesse coordinate anche l’iniziale e classicissima "Strangers by Nature",
che evoca il fantasma di Judy Garland e che starebbe benissimo in un
disco di Rufus Wainwright, la ricerca del conforto dal dolore nel gospel
dagli echi seventies e dalle partiture pianistiche di "I Drink Wine", il minimalismo di "Hold On" e l’intensa "To Be Loved",
con Tobias Jesso al piano, in cui Adele dà sfoggio delle sue
incredibili doti vocali. Chi cercava quel suono in purezza è
accontentato, perché queste canzoni rappresentano il marchio di fabbrica
costruito in carriera e sono tutte, pur nella loro prevedibilità, molto
belle.
Il disco, però, vive anche di momenti che potremmo quasi definire “anomali”,
con cui la songwriter britannica esce dalla sua comfort zone, per
provare a imboccare altre strade. Come avviene, ad esempio, nel levigato
panorama sonoro di "My Little Love", una delicata dedica al
proprio figlio, che cattura atmosfere à la Sade. Un brano lungo, caldo e
incredibilmente sincero, che esprime la preoccupazione di una madre
(Adele ha divorziato da poco e si è trasferita da Londra a Los Angeles)
per aver mandato in frantumi il mondo del proprio figlio, la cui voce,
peraltro, compare nel campionamento di un dialogo reale, che riveste di
ulteriore intimità questi sei minuti e mezzo, che sono il picco emotivo
dell’album. In "Cry Your Heart Out", poi, Adele manipola
elettronicamente la sua voce per riflettere il disorientamento di non
essere all'altezza delle proprie aspettative sentimentali, e ne esce un
brano incredibilmente leggero e frizzante, trascinato da un groove dagli
ammiccamenti reggae. Un'inaspettata novità.
La sperimentazione vocale entra in gioco anche su "Oh My God",
un altro brano gioioso, in cui il vortice delle voci si appoggia su
un'irresistibile ritmica R&B, mentre Adele canta la propria
rinascita, l’incertezza ma anche la speranza per una vita nuova. Così
come nella successiva "Can I Get It", che inizia con vibrazioni molto "Rolling In The Deep" prima di aprirsi a un groove sbarazzino e danzereccio.
In scaletta, altri due gioielli che meritano di essere ricordati: le toccanti atmosfere soul di "Woman Like Me", melodia essenziale, chitarra e voce, e un testo che raggruma il dolore per il matrimonio fallito, e "Love Is A Game",
perfetto mix tra l'Adele di un tempo e quella di oggi, brano
dall’incipit cinematografico, il cui sviluppo, poi, cita in modo
inequivocabile Amy Winehouse, non solo nel titolo, ma anche nel modo di
cantare e in uno stupefacente arrangiamento in quota Motown.
Pur non avendo in scaletta hit scala classifiche, è fuor di dubbio che 30
vivrà lo stesso impatto mediatico e lo stesso successo dei lavori
precedenti, e ingolferà le radio FM di numerosi passaggi. Adele è
un’artista che vende, che piace trasversalmente, che sa conquistare la
gente con melodie che toccano il cuore e con testi in cui tutti possono
ritrovarsi. Sarebbe però riduttivo riconoscerle solo ed esclusivamente
lo status di fenomeno commerciale. Con questo nuovo lavoro, infatti,
siamo anche di fronte a una musicista che ha raggiunto la maturità della
consapevolezza, e che oltre alle innegabili e consuete doti vocali è
cresciuta esponenzialmente anche come autrice. Capace di essere fedele a
se stessa e al contempo di rinnovarsi, di cercare altre strade che,
forse, in futuro, porteranno ulteriori e più decisivi cambiamenti.
E’
il 1965, quando Frankie Valli, leader degli acclamati The Four Seasons,
intenzionato a intraprendere una carriera solista fuori dalla casa
madre (ai tempi, una rarità quasi assoluta), interpreta The Sun Ain’t Gonna Shine,
un brano scritto appositamente per lui dagli amici Bob Crewe e Bob
Gaudio, già artefici del successo della band, in veste di produttori e
co-autori. La canzone, registrata a giugno di quell’anno e uscita come
singolo il mese dopo, fu un mezzo fiasco e non riuscì a entrare nella
Billboard Hot 100, fermandosi alla 128 piazza.
Nonostante
l'iniziale passo falso, Valli non si diede per vinto, e raggiunse il
successo, e che successo, due anni più tardi, con la super hit Can't Take My Eyes Off You, che arrivò alla seconda posizione delle classifiche americane, vincendo anche un disco d’oro.
Quella battuta d’arresto, però, restò un brutto rospo da ingoiare, perché non solo The Sun Ain’t Gonna Shine
era una grande canzone, ma perché, solo qualche mese dopo la sua
versione, nel febbraio del 1966, il brano ebbe un’incredibile exploit
grazie alla cover che ne fecero i The Walker Brothers, una band
americana, formatisi a Los Angeles, che si era trasferita in Inghilterra
l’anno precedente.
Il gruppo, che aveva già conquistato la vetta delle classifiche inglesi con il singolo My Ship Is Coming In, reinterpretò la canzone scritta da Crewe e Gaudio, modificandone il titolo in The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore,
arrivando a conquistare la vetta delle charts britanniche e la
tredicesima posizione di Billboard 100, oltre a entrare nella top ten di
svariati paesi, tra cui Canada, Irlanda, Germania, Paesi Bassi, Nuova
Zelanda e Norvegia.
Davvero
una stranezza, se si pensa che la canzone è la stessa di quella
interpretata da Valli qualche mese prima, e che il testo, lontano
dall’essere compiacente verso il grande pubblico, è di una mestizia
assoluta.
Perché
parla della fine di un amore e di un lutto affettivo che non può essere
rielaborato, di un’assenza che produce solo dolore e oscurità, rendendo
la vita inutile, priva di significato: “La solitudine è il mantello che indossi, c'è sempre una profonda sfumatura di blu” (il blu è il colore della malinconia –ndr).
E
poi quei due versi, che utilizzano immagini naturistiche, per
sottolineare il vuoto esistenziale lasciato dalla propria amata: “Il sole non splenderà più, La luna non sorgerà nel cielo”. Parole che suggeriscono un dolore irreversibile e che richiamano alle mente i versi di Funeral Blues, magnifica poesia scritta da W.H Auden, nel 1936: “Non
servon più le stelle: spegnetele anche tutte; imballate la luna,
smontate pure il sole; svuotatemi l'oceano e sradicate il bosco…”.
Senza amore, restano solo lacrime (“Le lacrime ti annebbiano sempre gli occhi, quando sei senza amore”), nulla ormai ha più senso (“Il vuoto è il posto in cui ti trovi, non c'è niente da perdere ma niente più da vincere”) se non implorare un impossibile ritorno (“Solo, senza di te, piccola ragazza, ho bisogno di te, non posso andare avanti”).
La
canzone, a dispetto della versione flop di Frankie Valli, è stata
oggetto di numerose reinterpretazioni, la più famosa delle quali è
quella fatta da Cher, nel 1996, e contenuta nel suo ventiduesimo album, It's a Man's World.
La cover, pubblicata come quarto singolo, arrivò fino alla
ventiseiesima piazza delle classifiche inglesi, con buona pace del
leader dei The Four Seasons, che quel rospo, temo, non l’abbia ancora
ingoiato.
Con Imposter
continua la collaborazione fra Rich Machin e il frontman dei Depeche
Mode, Dave Gahan, con un terzo disco che segue i due acclamati album The Light The Dead See nel 2012 e Angels & Ghosts
nel 2015. Per questo nuovo lavoro insieme, però, i due musicisti hanno
spostato l'attenzione sulle canzoni e sugli artisti da cui sono stati
influenzati, rinunciando a dare vita al materiale originale.
Come
affermato in molte interviste, Gahan ha giocato un po' con il tema
dell'impostore, per sottolineare che lui, frontman di una band che suona
le canzoni composte da Martin Gore, anche oggi si trova a
reinterpretare canzoni che non ha scritto. Sempre sotto mentite spoglie,
dunque, se non fosse che il cantante britannico arricchisce questi
brani con la propria personalità e la propria forza interpretativa,
indipendentemente da quanto familiare possa essere la canzone originale.
Una scaletta di cover che trovano nuove vesti, e soprattutto nuova
personalità, grazie alla sensibilità di un artista la cui voce è
diventata un inimitabile marchio di fabbrica. La sua cover di "Lilac Wine"
(che Jeff Buckley ha fatto sua su Grace), ad esempio, assume le
caratteristiche di un viaggio interiore, come se Gahan stesse cantando
mentre setaccia vecchie foto, ricordi e pungoli dell’anima. Se la
rilettura di Buckley era estasi e sospensione, qui troviamo un mood
meditabondo, che tiene l’ascoltatore sospeso sul crinale di uno
sprofondo emotivo.
Cosa che avviene anche "A Man Needs A Maid"
di Neil Young, una canzone che nella versione originale era gonfia di
orchestrazioni e che, invece, nelle mani di Gahan assume, una fragilità
straziante e un andamento contemplativo, esaltato dalla leggerezza del
tocco di Sean Reed al pianoforte.
Altrove,
per converso, l'euforica spacconeria blues che è sempre emersa nelle
collaborazioni con Machin, prende per mano la rumorosa "I Held My Baby Last Night" (Elmore James), che fu coverizzata dai Fleetwood Mac, mentre il crescendo elettrico della splendida "Metal Heart"
di Cat Power scartavetra la pelle grazie a una voce, a cui il tempo ha
dato ulteriore profondità e che, oggi, sembra capace, di padroneggiare
quasi ogni genere.
Due cover in particolare toccano il cuore: una versione di "Shut Me Down" di Rowland S. Howard, originariamente registrata per l'ultimo album dell'ex chitarrista dei Birthday Party, e l’arcinota "Always On My Mind. Shut Me Down"
è una canzone agrodolce che Howard scrisse mentre stava morendo di
cancro e che è, quindi, indissolubilmente legata alla sua morte
prematura. Gahan incanala quell’originale senso di rimpianto in volute
di rassegnata malinconia appena sfiorate da leggeri refoli di vento,
come se volesse evocare un barlume di speranza che sfiora le desolate
rovine di un destino segnato.
E poi, "Always On My Mind",
una canzone famosissima, coverizzata centinaia di volte, ma di cui
spesso non si afferra il messaggio, viene qui eseguita con una
semplicità disarmante, mettendo così a nudo le vulnerabilità e il
tormento interiore di un uomo che si scusa con la propria amata per non
riuscire ad amarla come lei vorrebbe. Un momento intenso e cruciale,
messo a fine scaletta come una sorta di tributo di Gahan ai suoi fan, a
cui, evidentemente, vorrebbe regalare molte più canzoni di quelle finora
scritte. La chiosa perfetta per un album davvero brillante, che
potrebbe rappresentare per il cantante dei Depeche Mode l’inizio di una
seconda giovinezza, come furono gli American Recordings per Johnny Cash.
Ci
sono generi che non passano mai di moda, presenti da sempre, dal giorno
in cui sono nati, immutabili nelle loro forme, salvo qualche piccolo
scarto di modernità che ci fa dire di un gruppo “sembrano proprio quelli là”, ma anche “hanno comunque un proprio tratto distintivo”.
Ecco, quindi, i The Georgia Thunderbolts, giovani avanguardie del
southern rock, che rinfrescano i lick boogie e i riff anthemici, “che sembrano suonati proprio da quelli là”,
ma che si tengono ben lontani dal replicare pedissequamente le gesta
dei grandi padri putativi del genere (Allman Brothers, Lynyrd Skynyrd,
The Black Crowes, etc), insufflando semmai una ventata di vigore in
quella musica dal sapore antico, riletta, però, con consapevolezza e,
nello specifico, con una notevole caratura tecnica.
Parte "Take It Slow"
e improvvisamente appare davanti agli occhi dell’ascoltatore tutto
quell’immaginario sudista fatto di musicisti irsuti, bourbon tracannato
in un fiato e pick up malmessi che sgommano feroci, sollevando terra e
polvere. Due chitarre e un’armonica anarchica, un ghigno beffardo, un
riff nerboruto, e il gioco è fatto. E se quei riff cazzuti, sporchi e
spavaldi sono il vostro pane quotidiano, la successiva "Lend A Hand"
ti friggerà il cuore con un groove ad alta percentuale di ottani, un
ritornello contagioso e soprattutto il suono in purezza del classic
rock: una Gibson Les Paul che spara decibel attraverso un ampli
Marshall.
Ispidi e rumorosi, ma non solo: "So You Wanna Change The World" è un ballatone virile, dal suono famigliare, caldo e invitante, "Looking For An Old Friend", è un godereccio emulo del sound Lynyrd Skynyrd trainato da una melodia acchiappona, e la cover di "Midnight Rider" omaggia gli Allman col piglio moderno di una ritmica martellante e tonnellate di distorsioni che tracimano nell’hard rock.
Can We Get A Witness
è un condensato di energia sudista, che predilige un’esposizione
ruvida, accantonando gli accenti country, e scegliendo semmai una
declinazione che, in certi frangenti, trasuda di soul. Un disco che
passa anche dall’ovvio, certo, ma che regala gioielli di songwriting
come il saliscendi emotivo della clamorosa "Spirit Of A Working Man" e la conclusiva "Step Me Free",
sette minuti di epica southern che, un domani, rappresenteranno, sono
pronto a scommetterci, la signature song della band e uno dei momenti
più caldi dei loro live.
Con
questo esordio sulla lunga distanza, i Georgia Thunderbolts si
affiancano alle nuove leve del southern (Whiskey Myers, Black Stone
Cherry, Blackberry Smoke, etc.) e mettono già la freccia per il
sorpasso: tradizione rispettata, idee chiarissime, tecnica superiore e
un surplus di vitalità che, non solo tiene viva, ma fa letteralmente
divampare la fiamma del rock.
Che
Gabriel fosse un istrione e rubasse la scena, sia sul palco che in
studio, al resto della band, è un dato di fatto sul quale sono già stati
versati litri di inchiostro. L'arcangelo Gabriele, a dispetto dei modi
cortesi e di quel sorriso aperto che ispirava immediata simpatia, non
era proprio quello che si può definire un tipo accomodante.
La
storia dei Genesis è infatti cadenzata dalle sue intuizioni, dalla sua
creatività, ma anche dalle sue continue imposizioni, dall'assolutismo
delle sue scelte (ad esempio, obbligò Collins a non chiudere le rullate
sui piatti), dalla sua indole attoriale che lo portava a ritagliarsi
sempre il ruolo di prima donna.
E' per questo che The Lamb Lies Down On Broadway,
se da un lato rappresenta l'apoteosi di un percorso musicale che, per
molti versi, potremmo definire Gabriel-centrico, dall'altro sarà anche
l'ultimo capitolo del cantante di Bath alla guida del quintetto inglese.
Gabriel è stufo degli angusti limiti che la band inevitabilmente
pone al suo sempre crescente desiderio di sperimentazione, gli altri
quattro, invece, sono stanchi di stare al servizio di un padre padrone
che impone e dispone, spesso senza nemmeno accettare contradittorio.
Concept album, opera rock a tutto tondo e primo doppio album nella discografia Genesis, The Lamb Lies Down On Broadway non
è solo il sesto (e, probabilmente, il miglior) disco in studio della
band, ma è soprattutto un ponte artistico fra il passato e il futuro di
Gabriel. Una sorta di anteprima di quello che sarà, nel
quale l'ambiziosa progettualità sperimentale e il talento
narrativo dell'Arcangelo superano per la prima volta le anguste barriere
del progressive, gli orpelli e i barocchismi, l'idea ormai consunta di
un rock romantico, fine a sé stesso e senza più sbocchi creativi.
The Lamb
rappresenta, quindi, una sorta di (sublime e monumentale) canto del
cigno del genere, la pietra miliare che segna la fine di un epoca,
l'epitaffio che chiude la storia di un movimento che ha già detto tutto e
forse anche troppo.
La
storia di Rael (Rael = Real = Re Lear), teppista portoricano dei
bassifondi newyorchesi che vede l'agnello sdraiarsi su Broadway,
è narrativamente (e musicalmente) complessa, a tratti perfino di
difficile comprensione, sia per l’andamento disomogeneo della scaletta
che per le liriche di Gabriel, abile come di consueto a manipolare la
lingua inglese, a suggerire tramite calembour, citazioni colte e
metafore, e a stupire l’ascoltatore con un con un timbro vocale sempre
più duttile e cangiante.
C'è
un abisso fra i precedenti lavori della band e questo concept: il suono
Genesis si irruvidisce, acquista accenti più marcatamente rock, gli
acquarelli della campagna inglese vengono sostituiti con i tratti decisi
dei graffiti metropolitani di una New York sotterranea e malevola. I
brani si fanno meno articolati e più stringati, la ritmica finisce
spesso in primo piano, le canzoni mordono alla gola, sono aggressive,
stanno addosso all'ascoltatore, rimandano a un futuro ancora lontano, ma
qui già preconizzato.
Si pensi, ad esempio, al pulsare claustrofobico e ipnotico dell'incipit di In The Cage, con Banks a reiterare un giro di tastiera, che spinge il progressive ai limiti estremi dell'ipotesi elettronica. Si pensi a Back in NYC,
che è una sorta di manifesto proto-punk, un gancio per quel futuro che
di lì a breve cambierà la storia della musica, partendo proprio dal
cuore di New York. Si pensi a tanti intermezzi, nei quali si esplora
l'ambient fino ai confini del noise, o alle atmosfere hard-rock di Lilywhite Lilith, embrione prog-metal ante litteram.
Un'opera
avanguardista, dunque, che certamente anticipa alcune sonorità del
futuro, ma che gioca anche di rimando ai grandi capitoli della passata
(e presente) storia della musica popolare. Così Counting Out Time e Anyway ammiccano a sonorità beatlesiane, mentre la conclusiva It omaggia nel testo It's Only Rock And Roll (but i li ke it) degli Stones, uscito poco tempo prima.
E
poi, c'è il prog - rock, superato, certo, ma non dimenticato,
riproposto in un'accezione più scarna e diretta, e proprio in virtù di
questa nuova essenzialità, capace di toccare vette di lirismo fino ad
allora mai esplorate. Ne sono esempi clamorosi Carpet Crawl, la title track, e soprattutto, la sofferta e ispiratissima The Lamia,
uno dei vertici compositivi dell’album, in cui il pianismo liquido di
Banks, lo struggente assolo finale di Hackett e il cantato dolente di
Gabriel riescono ad aprire un varco spazio temporale fra le visioni
notturne di Debussy ed il rock anni ‘70.
Le
liriche, più visionarie che mai, utilizzano una figura mitologica (le
lamie, secondo mitologia greca, erano figure femminili, in parte umane e
in parte animali, rapitrici di bambini o fantasmi seduttori, che
adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro
carne) e giocano con sottintesi sessuali (“con le lingue tastano,
assaporano e giudicano tutto il mio essere/ si muovono con una sequela
di carezze che fanno rabbrividire la mia spina dorsale/ mentre mordono
il frutto della mia carne, non sento dolore, solo una magia alla quale
non saprei dare nome”).
Un
testo elusivo, che procede per immagini seducenti e metafore. Rael
incontra le tre Lamia, è affascinato, attratto, ma il suo cuore in
tumulto riconosce anche il battito della paura. “Rael welcome, we are the Lamia of the pool. We have been waiting for our waters to bring you cool”: ti
stiamo aspettando per farti diventare freddo. Cioè, per ucciderti. Rael
lo capisce, teme le Lamia, ma ne è irresistibilmente attratto e si
lascia sedurre. La bellezza lo irretisce e sconsideratamente si
avvicina, rinnegando il proprio istinto e quel timore che sente nel
profondo e che potrebbe salvarlo. Le Lamia iniziano a toccarlo, a
leccarlo, a cibarsi della sua carne: viene evocato l’atto sessuale,
piacevole, conturbante, totalizzante. Rael si abbandona, consapevole
della fine, ma completamente in balia del suo destino.
Tuttavia, appena le Lamia entrano a contatto con il suo sangue, si contorcono per il dolore e muoiono in pochi secondi: “Con
la prima goccia del mio sangue nelle loro vene, i loro volti sono
sconvolti da dolori mortali, la più bella grida “Ti abbiamo amato tutti,
Rael”. Ora le Lamia sono “corpi vuoti, simili a un serpente galleggia, silenzioso dolore in barche vuote”: un’immagine di morte visivamente potente, che lascia attoniti.
E ancora. “Un’acidità nauseabonda riempie la stanza, L’amaro raccolto di una fioritura morente”: è
questo, forse, il verso decisivo, quello che spiega il senso ultimo
della canzone. Il sangue di Rael non è puro, ma intossicato da una vita
in cui tutto è stato dolore, paura, morte. Forse c’è un abbrivio di
critica sociale (il ragazzo è un teppista, portoricano, e vive nei bassi
fondi), di sicuro, è presente la constatazione di un’esistenza e di un
destino segnati, “una fioritura morente”, concimata dal male di vivere e dall’impossibilità del riscatto.
“Guardando dietro di me, l’acqua diventa blu ghiaccio, le luci si abbassano e ancora una volta il palcoscenico è pronto per te”.
Il disco non è ancora finito, così come il viaggio di Rael alla ricerca
di se stesso. Alla fine, si ritroverà, nell’immagine riflessa del
fratello salvato dalle rapide, ma si dissolverà nel nulla, lasciando
dietro di sé una purpurea foschia, e l’impressione ipnagogica che tutto
sia stato un sogno e che Rael non esista, volto tra i volti,
dimenticato, obliato per sempre.
Se
i Deep Purple riescono ancora a essere credibili dopo tanto tempo, è
semplicemente perché continuano a pubblicare materiale originale e,
soprattutto, di buona qualità. Dinosauri, forse, ma non balene
spiaggiate: piacciano o meno, i loro ultimi dischi, strenuamente
avvinghiati a sonorità classic rock, sono lavori, forse datati, ma
senz’altro artisticamente convincenti.
E’ strano allora ritrovarli nuovamente sul mercato con questo Turning To Crime,
album composto interamente da reinterpretazioni di brani altrui.
Strano, perché questo nuovo lavoro rappresenta una sorta di viaggio a
ritroso agli albori della band. È difficile da credere, infatti, e molti
probabilmente se ne sono dimenticati, ma i Deep Purple, agli esordi
della loro carriera, potevano quasi essere definiti una cover band. Chi
ha buona memoria, si ricorda che, in effetti, i primi quattro singoli
del gruppo provenivano da discografie altrui (Joe South, Neil Diamond,
Ike & Tina Turner e Beatles) e non dal talento dei componenti di un
gruppo che, di lì a breve, avrebbe cambiato per sempre la storia
dell’hard rock, quando, nel 1969, entrarono nella line up Ian Gillan e
Roger Glover, per dare vita a quella formazione che va sotto il nome di
Mark II.
Da In Rock in poi, basta cover, ma solo materiale originale, cosa che, a distanza di più di cinquant’anni, rende questo Turning To Crime
un autentico shock. Non solo perchè in scaletta ci sono ben dodici
cover, ma soprattutto perché sono davvero poche le canzoni
reinterpretate che ti aspetteresti avrebbero potuto essere suonate dai
Deep Purple.
A distanza di diciotto mesi dall’ottimo Whoosh,
arriva, dunque, una svolta sorprendente, una sorta di alternativa
anti-pandemia (guidata dal guru Bob Ezrim), che si sostituisce al
consueto processo creativo della band (le sbrigliate jam in studio),
reso impossibile dal lockdown.
Nessuno
aveva dubbi sul fatto che i cinque valenti musicisti, rappresentati in
copertina come avanzi di galera, fossero in grado di cimentarsi con
qualsiasi genere, anche agli antipodi di quello che, da sempre, è il
loro territorio di caccia, ma di sicuro la scelta dei brani in scaletta
fa quantomeno sollevare il sopracciglio per la sorpresa.
È un eufemismo, infatti, affermare che brani come "Rockin' Pneumonia and the Boogie Woogie Flu" di Huey "Piano" Smith, "Dixie Chicken" dei Little Feat, "Let the Good Times Roll" di Louis Jordan, "Watching the River Flow" di Bob Dylan o "The Battle of New Orleans" di Jimmy Driftwood risultino delle scelte fuori da ogni logica.
Eppure,
alla fine, hanno avuto ragione loro, i vecchi Purple, perché, pur
lontanissime dal bagaglio genetico della band, queste cover suonano
tutte incredibilmente convincenti. D’altra parte, il mestiere e le
competenze tecniche delle cinque vecchie volpi non sono mai stati in
discussione: Steve Morse fa sfoggio di diverse tecniche di esecuzione
con altrettante abilità, Don Airey fila via sul velluto, non disdegnando
virtuosismi, Ian Paice e Roger Glover sono i soliti martelli, ma
inaspettatamente brillanti anche nei diversi approcci ritmici, e il buon
Ian Gillan, forse un po' aiutato dalla tecnologia, riesce a dare il
meglio di sé qualunque cosa canti.
Certo, anche in Turning To Crime non mancano momenti più contigui all’hard rock, come nelle fiammeggianti trame psichedeliche dell’iniziale "7 and 7 Is" dei Love, nella leggendaria "Shapes of Things" degli Yardbirds, nel divertissement garagista di "Jenny Take a Ride!" presa dal songbook di di Mitch Ryder & the Detroit o in "White Room" dei Cream, il brano più ovvio in scaletta e quello decisamente più attinente al bagaglio musicale dei Deep Purple.
Chiude il disco "Caught in the Act",
un medley quasi interamente strumentale, in cui la band sbriglia gli
strumenti e la fantasia per riproporre grandi classici degli anni '60 ("Going Down" di Jeff Beck, "Green Onions" di Booker T. e MG, "Hot 'Lanta" della Allman Brothers Band, "Dazed and Confused" dei Led Zeppelin e "Gimme Some Lovin'
" degli Spencer Davis Group) dimostrando che Mark VIII è una signora
line up e che, grazie a un’inesausta voglia di divertimento, anche in
tempi di vacche magre, si possono rilasciare dischi ottimi e, come in
questo caso, inaspettati.
Schierato a fianco delle ali estreme della sinistra britannica, fondatore insieme a Paul Weller del collettivo Red Wedge,
creato per supportare le battaglie del partito laburista durante gli
anni bui thatcheriani, Billy Bragg ha saputo dare nuovo vigore alla
musica folk attraverso un approccio punk e innervare di rock i muscoli
della canzone di protesta. Armato di una nervosa chitarra elettrica e
del tipico accento dei sobborghi, il songwriter inglese ha sempre
indossato le vesti di un Woody Guthrie urbano, è stato sulle barricate,
anche fisicamente, e ha abbracciato le istanze della working class,
alternando vigorose strette da combattente ad affettuosi sguardi pervasi
di popolare romanticismo.
Dall’agit
rock è poi passato alle collaborazioni con i Wilco e Joe Henry, che si
sono tuffate a capofitto in tematiche americane, sia che si trattasse di
rinverdire l'eredità di Woody Guthrie o raccontare il romanticismo
delle ferrovie statunitensi.
The Million Things That Never Happened
è il suo primo album da solista dal 2013, un disco che lo trova
abbastanza comodamente sistemato in quello che potrebbe essere definita
la sua comfort zone, in cui le canzoni spaziano tra soul, folk e
country, e l’impegno politico, sempre presente, è però mediato da un
sottile senso d’introspezione e di riflessione.
D’altra
parte il tempo passa per tutti, Bragg ormai ha più di sessant’anni, ed è
ovvio e giusto che lo sguardo sia più pacato, senza che il cuore,
tuttavia, abbia smesso di battere forte, sempre e comunque a sinistra.
Potrebbe anche non sembrare ad un primo ascolto, ma The Million Things That Never Happened,
nonostante la pienezza dei suoni e qualche passaggio financo brioso, è
un album scritto durante la pandemia. Bragg ha composto le canzoni in
isolamento (e alcuni brani riflettono questo momento difficile) e poi ha
inviato le sue registrazioni ai produttori, Romeo Stodart dei The Magic
Numbers e Dave Izumi, che hanno levigato il suono, creando un piccolo
gioiello.
Che
l’album sia figlio di tempi bui, che impongono profonde riflessioni
esistenziali, lo si comprende, ad esempio, ascoltando la splendida "I Will be Your Shield",
una canzone che, secondo Bragg, è il cuore e l'anima dell'album, e che
parla dei tormenti e della solitudine durante il lockdown, con lo
sguardo rivolto agli ultimi, ai più deboli, a coloro che dipendono dalla
gentilezza e dall'empatia degli altri per poter sopravvivere. Billy
continua a schierarsi, certo, ma se un tempo era la passione a infuocare
le canzoni, oggi il mood si fa più riflessivo, meditabondo,
malinconico. La sessantina, certo, ma anche il lockdown, che ha finito
inevitabilmente per essere il fil rouge prevalente che lega le dodici
canzoni in scaletta.
Come in "Lonesome Ocean", una ballata in stile Muscle Shoals, che parla di smarrimento e di sentirsi alla deriva, o in "Good Days And Bad Days", in cui piano e mellotron avvolgo amare riflessioni sull’incerto andamento di questi giorni bui, o ancora di più nella title track,
una sorta di triste presa di coscienza di questi tempi dolorosi,
amplificata da lacrime di violino, attraverso cui Bragg annota tutte
quelle feste familiari e commemorazioni (nascite, matrimoni e funerali)
che ci sono state negate a causa della moderna pestilenza.
Non
manca ovviamente l’impegno civile e politico, perché Bragg, nonostante
uno sguardo più introspettivo sul mondo, non può certo snaturarsi,
tacere le proprie idee, disinteressarsi al mondo che lo circonda. "Freedom Don't Come Free" è un divertente brano bluegrass che riflette sull’utopia di certe idee libertarie destinate a fallire, nel southern soul di "The Buck Don't Stop Here No More" Bragg mette alla berlina l'ipocrisia dei leader populisti, in "Mid-Century Modern"
analizza la propria passione politica, perché se è vero che le
barricate sono un ricordo lontano, la voglia di schierarsi, però, è
ancora viva, dal momento che "i ragazzini che tirano giù le statue, mi sfidano a vedere il divario tra l'uomo che sono e l'uomo che voglio essere”, mentre in "Pass It On" l’attenzione si rivolge ai bambini, che devono essere educati all’amore, alla tolleranza, al rispetto.
Così, in una sorta di ipotetico passaggio di testimone, non è un caso che il disco si chiuda con la pimpante "Ten Mysterious Photos That Can't Be Explained",
scritta insieme al proprio figlio Jack, in cui gli anni barricaderi di
Bragg sembrano tornare, come per magia, a risplendere. Una canzone
sanguigna, che chiosa un nuovo bellissimo album: riflessivo ma non
crudo, mesto e ma non furioso, l’onesta evoluzione di un ex giovane
militante che si è trasformato in un uomo saggio, consapevole che le
parole posso comunque centrare il bersaglio, anche se al fumo delle
barricate, oggi, preferiscono la strada del cuore. Un po' indietro
rispetto alla mischia, forse più placido, ma sempre al nostro fianco
nella battaglia per la vita.
Se
Candy Darling aveva ispirato alcune bellissime canzoni dei Velvet
Undergound, l’attrice transgender, autentica star della Factory di Andy
Warhol, è addirittura la musa ispiratrice di un intero album, I Am A Bird Now, disco uscito nel 2005 a firma Antony & The Johnsons, band capitanata da un’altra artista transgender, Antony Hegarty.
Nata
a Londra, Antony (oggi, all’anagrafe, Anohni) si è trasferita in
California all'età di 10 anni, prima di stabilirsi a New York nel 1990,
con l'ambizione di diventare "una chanteuse travestita alle 3 del mattino in locali notturni inondati di luce blu, come Isabella Rossellini in Blue Velvet".
Un’artista straordinaria e poliedrica, la cui musica evoca
contemporaneamente Scott Walker, Nina Simone, Bryan Ferry, David Bowie,
Sam Cooke, Jimmy Scott, per citare alcuni riferimenti plausibili, pur
distinguendosi per l’originalità del songwriting e per quella voce così
distintiva, connotata da un incredibile vibrato e da un’estensione di
svariate ottave.
I Am A Bird Now
è il secondo disco di Hegarty, un’opera che, ai tempi, ebbe un
incredibile successo di critica e riuscì, soprattutto in Inghilterra, ad
avere ottimi riscontri commerciali e a vincere l’ambito Mercury Prize. E
ciò, a dispetto delle atmosfere prevalentemente cupe, seppur capaci al
contempo di evocare una loro soave morbidezza, che avvolge nel suono di
violoncelli, violini, viole e flauti, cornice perfetta per la voce e il
pianoforte di Antony. Che sono, poi, i protagonisti assoluti di un
filotto di canzoni tristi, dolenti, attraversate da sincero pathos, le
cui suggestioni inducono, spesso, una commozione quasi invasiva, per cui
è impossibile sciogliere il nodo alla gola o frenare lo stillicidio
emotivo delle lacrime.
D’altra
parte, chi meglio di Anohni potrebbe raccontare la storia di Candy
Darling? Chi altri avrebbe potuto narrare, con così tanta sensibilità e
immedesimazione, la storia di un’anima imprigionata in un corpo
percepito come prigione, costretta a fingere e mentire, additata spesso
come fenomeno da baraccone? Chi poteva far sgorgare dal proprio cuore e
da quella voce, così profonda e tremolante, parole appassionate e
sincere per descrivere il desiderio di essere accettati, il conflitto
interiore, la difficile strada per convivere con la propria identità, se
non Hegarty?
Hope There’s Someone,
già pubblicata qualche mese prima in un omonimo Ep, è la canzone che
apre il disco e che introduce l’ascoltatore nel mondo di Anohni, terra
di dolore e apolidia sessuale, che genera smarrimento, solitudine e
speranze destinate a infrangersi contro il muro ostile della realtà. La
speranza di un amore, che superi le convenzioni sociali, che sia romito e
focolare domestico, che sia consolazione e condivisione, che illumini
la strada nei momenti di buio e di tristezza: “Spero ci sia qualcuno che si prenderà cura di me, quando morirò…spero ci sia qualcuno che libererà il mio cuore…”.
Il
bisogno di avere un compagno al proprio fianco è un pensiero costante,
ma è come evocare un fantasma, un’entità che affolla la mente e le
stanze della solitudine, restando solo una dolcissima e irrealizzabile
chimera: “C'è un fantasma all'orizzonte, quando vado a letto. Come
posso addormentarmi la notte? Come farò a riposare la testa?... Non
voglio essere l'unica lasciata lì…C'è un uomo all'orizzonte. Vorrei
andare a letto. Se cado ai suoi piedi stanotte, permetterò alla mia
testa di riposare.”
Non
c’è nessuno, però, a condividere il tormento, e nell’aria, resta
stordente, invasiva, e mortificante la paura di morire, da soli: “Quindi spero di non annegare, o di paralizzarmi nella luce…Spero ci sia qualcuno, che si prenderà cura di me, quando morirò”.
La
mano che accarezza leggera i tasti del pianoforte e la voce di Antony
raddoppiata, che scava un tunnel verso il cuore di chi ascolta, per
evocare una mestizia senza fine, un dolore insanabile, un vuoto
sentimentale che nessuno potrà mai colmare. E quando, nel finale, le
note di piano si fanno più vibranti, quasi caotiche, l’implorazione
diviene un lamento insostenibile, un canto di dolore per un destino
segnato e una ferita ormai non più rimarginabile.
I BIG THIEF annunciano il nuovo album “Dragon New Warm Mountain I Believe In You”, in uscita l'11 febbraio 2022 su 4AD. Ascolta il singolo “Time Escaping”.
Dragon New Warm Mountain I Believe in You è un
avvincente doppio LP che esplora le caratteristiche e le capacità più
profonde dei Big Thief. Per poter indagare a fondo nella musica che Adrianne Lenker, Max Oleartchik, Buck Meek e James Krivchenia avevano
desiderato nel 2020, la band ha deciso di scrivere e registrare in 4
distinte sessioni, un assurdo resoconto della loro crescita come
individui, musicisti e come componenti di una famiglia elettiva.
I
Big Thief hanno passato 5 mesi creando musica, tra Upstate New York,
Topanga Canyon, The Rocky Mountains e Tucson, in Arizona, e realizzando
45 nuove canzoni. I pezzi migliori sono stati rielaborati fino a formare
i 20 brani che rendono vario e fluido l'ascolto di Dragon New Warm Mountain I Believe in You.L'album è stato prodotto dal batterista James Krivchenia, il primo ad aver proposto il concept di DNWMIBIY nel2019, con l'idea di riunire in unico album i vari aspetti della scrittura di Adrianne e della band.
La
carriera di Brandi Carlile, sempre in costante crescendo, è decollata
definitivamente nel 2018, quando il suo sesto album in studio, By The Way, I Forgive You,
debuttò alla quinta piazza di Billboard 200, ricevette la nomination a
cinque Grammy Award, vincendone poi ben tre, e iniziò a ottenere
riconoscimenti commerciali anche fuori dai patri confini. In realtà,
quel disco, prodotto da “Re Mida” Dave Cobb, pur in un contesto
di ottima qualità, risultava a tratti troppo appesantito da
arrangiamenti talvolta ridondanti, che tarpavano le ali allo slancio
emotivo della proposta.
In
questi tre anni, la songwriter originaria di Ravensdale, ha avuto modo
di lavorare con calma al nuovo materiale, alternando la scrittura delle
canzoni al progetto parallelo delle Highwomen e alla produzione d’ultimo
album di Tanya Tucker, While I’m Living, vincitore peraltro di
due Grammy. La quarantena e l'isolamento del 2020, insomma, non hanno
certo scoraggiato Brandi, semmai l’opposto: le hanno permesso di
sviluppare al meglio le proprie idee, di esplorare tutti i confini del
proprio songwriting, di tirare a lucido il suono e di riaffermare le
proprie ambizioni.Un lavoro di cesello su contenuti e forma, che ha
prodotto risultati straordinari.
Quello contenuto in In These Silent Days
è, poi, anche il viaggio a ritroso nel tempo di una donna strettamente
connessa al 21esimo tempo, che si è ritrovata a esplorare le sonorità
pop rock degli anni ’70, con il cuore che batte forte dalla parte di
Joni Mitchell (You And Me On The Rock, ma non solo). Un omaggio, certo, ma anche un forte desiderio di identificazione.
Se
è vero che le sue indubbie doti, sia come cantante (quella voce che sa
essere limpida e rassicurante, ma anche dolorosa e disperata) che come
autrice (il gusto per la melodia di facile presa, ma anche la capacità
di scavare in profondità grazie a un inusuale trasporto emotivo)
avevano, talvolta, in passato, sbandato verso un surplus di melodramma,
oggi trovano, invece, un perfetto equilibrio e una declinazione più
asciutta, senza che, tuttavia, venga meno la consueta intensità.
Registrato a Nashville e prodotto ancora da Dave Cobb, con la complicità
di Shooter Jennings, In These Silent Days è un disco
calibratissimo, che pur non introducendo sostanziali novità, dispiega
l’intero spettro musicale della Carlile, consolidandone i punti di forza
e legando insieme passato e presente in una formula cantautorale (ma
non solo), che suona al contempo moderna e famigliare.
L’iniziale Right In Time,
canzone sulle seconde possibilità, raggruma alla perfezione tutti gli
elementi di uno stile unico: l’emozionante vibrato della voce,
l’equilibrio fra palpiti interiori e teatralità espressiva, la seducente
melodia a velare una profonda riflessione sulla propria anima afflitta.
La Carlile sa, però, anche graffiare con il rock di Broken Horses,
un ibrido fra Sheryl Crow e gli Who, una cavalcata rabbiosa, che
nonostante i momenti di sospensione, esprime un’inusitata furia
espressiva, tanto tesa quanto elementare. Se la citata You And Me On The Rock, conquista con la sua accattivante melodia e i suoi sentori “californiani”, gli archi avvolgenti e le scariche elettriche di Sinners, Saints And Fools introducono all’impegno politico, in una riflessione cupa sul fondamentalismo e l’immigrazione, mentre Stay Gentle
si sviluppa come un acquerello folk delicatissimo, con cui la Carlile
si rivolge ai suoi due figli, invitandoli a vivere la propria vita
sempre con grazia, nonostante il giudizio degli altri (“trovare gioia nell'oscurità è saggio, anche se penseranno che siete ingenui”).
Una
ballata di leggerezza quasi impalpabile, a testimonianza di un
eclettismo che diventa amara riflessione negli arpeggi malinconici di When You‘re Wrong,
canzone sul tempo che passa inutilmente quando si è intrappolati in una
relazione senza futuro, e nella meditabonda e conclusiva Throwing Good After Bad, stranamente maestosa nella di un pianoforte accarezzato dalla voce di brandi, così ricca di sfumature e di urgente pathos.
La Carlile produce musica di alta qualità da anni, e In These Silent Days
si aggiunge a questa eredità, risultandone, ai posteri il giudizio
definitivo, il bene più prezioso. Il songwriting non è mai stato così
buono, e la produzione di Cobb e Jennings è calibratissima: hanno saputo
risaltare tutte le doti della musicista, capito quando lasciare che un
brano rimanesse scarno, mettendo al centro i testi e la voce, e quando,
invece, espandere le sonorità ed enfatizzare la musica.
Il risultato finale è uno dei dischi più intensi di questo 2021: avvincente, seducente, appassionato.