Con Fever Dreams Pts 1-4, Johnny Marr ha voluto fare le cose in grande e realizzare un ampio e ambizioso corpus, che racchiudesse tutte le sfaccettature della sua musica. Lui stesso ha rilevato: “Volevo che questo album suonasse classico e universale. È così che mi sono sentito. Volevo guardare dentro me stesso, ma fare musica che fosse davvero rivolta verso l'esterno”. Che dire? Missione compiuta, Mr.Marr. Già, perché il quarto album solista dell’ex chitarrista degli Smiths è emotivo, commovente, schietto, variegato, splendida congiunzione astrale tra gusto melodico, volontà sperimentale e consueta spavalderia rock 'n' roll. Un disco in cui si possono cogliere gli elementi del suo lavoro precedente, "Playland" del 2014, la famigliarità di un tocco unico, qualche bagliore di antica gloria ottantiana; eppure, nonostante l’immediata riconoscibilità, Fever Dreams, più di ogni altro album, racchiude una nuova ondata di espressione sonora.
A
un primo ascolto, l’impressione è quella di un opera un po’ sconnessa, a
tratti confusa: troppi settanta minuti di durata, troppe le idee e gli
stili elaborati in modalità, talvolta, confliggenti tra loro. Eppure,
ascolto dopo ascolto, l’album acquista coesione, emerge l’ispirazione e
l’unità d’intenti. Ma Marr è Marr, ha quarant’anni di carriera alle
spalle e una visione estremamente lucida sul mondo della musica, e
quindi, diciamolo francamente, può fare quello che gli pare. E
soprattutto, centrare il bersaglio.
La traccia di apertura, "Spirit, Power And Soul", spiega perfettamente la visione, l’incastro tra vecchio e nuovo, e riflette il mood su cui è stata creata l’intera scaletta. Marr lo descrive come "electro gospel": è un inno, intrigante e audace, uno slancio di creatività enfatizzato dai contagiosi pattern chitarristici di Johnny e da una ritmica alla New Order, che evoca la militanza di Marr negli Electronic insieme a Bernard Summer.
La prima parte prosegue con "Reciever", che inizia con un cupo e pesante riff di chitarra, per trasformarsi poi in una melodia dance-pop, con "All These Days", che possiede un suono Britpop anni '90, e con "Ariel" (dal nome di una poesia di Sylvia Plath), un gioiellino in bilico tra battito elettronico e un’accattivante melodia plasmata dalla solare dodici corde di Marr.
La seconda parte suona più famigliare, il chitarrista cede alla nostalgia e omaggia i fan, evocando sonorità classiche tirate a lucido dalla consueta visione moderna ("Lightning People", "Hideaway Girl" e l’innodica "Tenement Time").
La terza parte include "Night And Day", uno dei capolavori del disco, un brano in perfetto equilibrio tra il jangle più classico di Marr e la spinta sperimentale del lavoro solista precedente: gancio melodico irresistibile, mood euforico, ma un testo militante e politico, che fotografa l’estate del 2020 e il modo con cui la pandemia si è intersecata con l'omicidio di George Floyd e l'arrivo di Black Lives Matter ("La miccia brucia, il mondo si agita, le notizie tremano, l’umore esplode”).
L’ultima parte del disco prende il via con "God's Gift", che possiede una spavalderia melodica irresistibile, e prosegue con le trame elettroniche di "Goster" e con "The Whirl", altro gioiello di creatività, intarsio di chitarre liquide su un riff potente e martellante.
Fever Dreams Pts 1-4 si conclude con "Human", il brano migliore del disco, in cui la semplicità torna centrale, un afflato liberatorio e catartico, il porto finale, e finalmente intimo, dove approdare dopo un lungo viaggio. Il viaggio di un artista che è stato capace di scrollarsi dalle spalle un passato, tanto glorioso quanto ingombrante, e rigenerarsi alla ricerca di una propria identità.
VOTO: 8
Blackswan, giovedì 31/03/2022