giovedì 31 marzo 2022

JOHNNY MARR - FEVER DREAMS Pts 1 - 4 (BMG, 2022)

 


Con Fever Dreams Pts 1-4, Johnny Marr ha voluto fare le cose in grande e realizzare un ampio e ambizioso corpus, che racchiudesse tutte le sfaccettature della sua musica. Lui stesso ha rilevato: “Volevo che questo album suonasse classico e universale. È così che mi sono sentito. Volevo guardare dentro me stesso, ma fare musica che fosse davvero rivolta verso l'esterno”. Che dire? Missione compiuta, Mr.Marr. Già, perché il quarto album solista dell’ex chitarrista degli Smiths è emotivo, commovente, schietto, variegato, splendida congiunzione astrale tra gusto melodico, volontà sperimentale e consueta spavalderia rock 'n' roll. Un disco in cui si possono cogliere gli elementi del suo lavoro precedente, "Playland" del 2014, la famigliarità di un tocco unico, qualche bagliore di antica gloria ottantiana; eppure, nonostante l’immediata riconoscibilità, Fever Dreams, più di ogni altro album, racchiude una nuova ondata di espressione sonora.

A un primo ascolto, l’impressione è quella di un opera un po’ sconnessa, a tratti confusa: troppi settanta minuti di durata, troppe le idee e gli stili elaborati in modalità, talvolta, confliggenti tra loro. Eppure, ascolto dopo ascolto, l’album acquista coesione, emerge l’ispirazione e l’unità d’intenti. Ma Marr è Marr, ha quarant’anni di carriera alle spalle e una visione estremamente lucida sul mondo della musica, e quindi, diciamolo francamente, può fare quello che gli pare. E soprattutto, centrare il bersaglio.

La traccia di apertura, "Spirit, Power And Soul", spiega perfettamente la visione, l’incastro tra vecchio e nuovo, e riflette il mood su cui è stata creata l’intera scaletta. Marr lo descrive come "electro gospel": è un inno, intrigante e audace, uno slancio di creatività enfatizzato dai contagiosi pattern chitarristici di Johnny e da una ritmica alla New Order, che evoca la militanza di Marr negli Electronic insieme a Bernard Summer.

La prima parte prosegue con "Reciever", che inizia con un cupo e pesante riff di chitarra, per trasformarsi poi in una melodia dance-pop, con "All These Days", che possiede un suono Britpop anni '90, e con "Ariel" (dal nome di una poesia di Sylvia Plath), un gioiellino in bilico tra battito elettronico e un’accattivante melodia plasmata dalla solare dodici corde di Marr.  

La seconda parte suona più famigliare, il chitarrista cede alla nostalgia e omaggia i fan, evocando sonorità classiche tirate a lucido dalla consueta visione moderna ("Lightning People", "Hideaway Girl" e l’innodica "Tenement Time").

La terza parte include "Night And Day", uno dei capolavori del disco, un brano in perfetto equilibrio tra il jangle più classico di Marr e la spinta sperimentale del lavoro solista precedente: gancio melodico irresistibile, mood euforico, ma un testo militante e politico, che fotografa l’estate del 2020 e il modo con cui la pandemia si è intersecata con l'omicidio di George Floyd e l'arrivo di Black Lives Matter ("La miccia brucia, il mondo si agita, le notizie tremano, l’umore esplode”).

L’ultima parte del disco prende il via con "God's Gift", che possiede una spavalderia melodica irresistibile, e prosegue con le trame elettroniche di "Goster" e con "The Whirl", altro gioiello di creatività, intarsio di chitarre liquide su un riff potente e martellante.

Fever Dreams Pts 1-4 si conclude con "Human", il brano migliore del disco, in cui la semplicità torna centrale, un afflato liberatorio e catartico, il porto finale, e finalmente intimo, dove approdare dopo un lungo viaggio. Il viaggio di un artista che è stato capace di scrollarsi dalle spalle un passato, tanto glorioso quanto ingombrante, e rigenerarsi alla ricerca di una propria identità.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, giovedì 31/03/2022

martedì 29 marzo 2022

I GOT A NAME - JIM CROCE (ABC, 1973)

 


La notte del 20 settembre 1973, Jim Croce, insieme al pilota Robert N. Elliott, al compagno di band, Maury Muehleisen, al comico George Stevens, al manager Kenneth D. Cortese e al road manager Dennis Rast, sale su un aereo noleggiato all’aeroporto di Natchitoches, Louisiana, per raggiungere Sherman, in Texas, dove il giorno dopo deve tenere un concerto. L’aereo, però, si schianta subito dopo il decollo, finendo contro un albero di Pecan, l’unico presente lungo il perimetro della pista di volo. Errore del pilota, svelerà un’indagine successiva, che non era nelle condizioni psicofisiche necessarie per pilotare, e che, annebbiato dalla stanchezza, decollò sottovento facendo perdere immediatamente quota al veivolo.

Muore così, a soli trent’anni, Jim Croce, esattamente il giorno prima della pubblicazione di I Got A Name, il primo singolo estratto dall’omonimo album, e hit che darà allo sfortunato songwriter un clamoroso riscontro, seppur postumo, in termini di vendite e di notorietà. A dispetto dei tragici eventi che hanno anticipato la pubblicazione del brano, I Got A Name, è una canzone assertiva, che parla di quel sentimento di felicità che si prova a essere se stesso e inseguire i propri sogni, nonostante il giudizio della gente e gli imprevisti della vita.

A differenza di quasi tutto il materiale dell’album, il brano, però, non fu scritto da Croce, ma da Charles Fox (quello che scrisse la sigla di Love Boat, per intenderci) e Norman Gimbel (altro formidabile autore di colonne sonore), e la canzone venne inserita in scaletta dal musicista come omaggio al padre di Jim, che era morto prima di vedere il figlio diventare un apprezzato cantautore folk rock.

I Got A Name, io ho un nome, e sono orgoglioso di portarlo, a testa alta, e di fare la vita che voglio, di inseguire quel sogno che, invece, mio padre aveva tenuto nel cassetto, nascosto agli occhi di tutti: “Come i pini che fiancheggiano la strada tortuosa, Ho un nome, ho un nome, Come l'uccello che canta e il rospo gracchiante, Ho un nome, ho un nome. E lo porto con me come faceva mio padre, Ma sto vivendo il sogno che lui ha tenuto nascosto”.

Il sogno di Jim è suonare, scrivere e cantare canzoni, e anche se questa passione non lo porterà da nessuna parte, nel realizzarla consiste la felicità della sua vita:” Come il vento del nord che sibila nel cielo, Ho una canzone, ho una canzone. Come il vortice dell'idromassaggio e il pianto del bambino, Ho una canzone, ho una canzone. E la porto con me e la canto forte, e anche se non mi porta da nessuna parte, ne andrò orgoglioso”.

Per quanto possa sembrare pazzo, Jim ha intrapreso un percorso e non tornerà indietro, continuerà a seguire il suoi sogni, a testa alta, orgogliosamente, nonostante lo sdegno e il disprezzo altrui. Anzi, invita tutti coloro che sono disposti a seguirlo in questo cammino verso la libertà, a unirsi a lui, perché solo così potranno vivere appieno le loro vite: “Come lo sciocco che sono e sarò sempre, Ho un sogno, ho un sogno. Possono cambiare idea (su di me, ndr.) ma non possono cambiare me…se stai andando per la mia strada, verrò con te…Andando avanti così la vita non mi sfugge”. Non bisogna vivere di rimpianti e guardare al passato, ma andare sempre avanti, vivere il presente, proiettarsi nel futuro, mantenere alto il proprio nome, la propria identità, la propria passione.   

Il sogno di Croce, però, s’infranse troppo presto, e il musicista non poté mai sapere quanto quella sua canzone sarà amata dal pubblico di ogni epoca: decima piazza raggiunta nelle chart americane, in cui resterà per diciassette settimane, e poi, nel corso dei decenni, la presenza nella colonna sonora di numerosi film, tra cui Django Unchained (2012) di Quentin Tarantino, che riportò in auge il brano, facendolo conoscere anche alle nuove generazioni.

 


 

Blackswan, martedì 29/03/2022

lunedì 28 marzo 2022

STEREOPHONICS - OOCHYA! (Stylus Records, 2022)

 


Una cosa è certa: gli Stereophonics non hanno mai amato il cambiamento, e hanno percorso un quarto di secolo di carriera, seguendo una linea retta, che è quella del loro inconfondibile stile. E così, anche questo nuovo Oochya! evita accuratamente di smarcarsi dal percorso tracciato, gioca sul sicuro e rimane all’interno di una ben consolidata comfort zone.

Sono passati venticinque anni dall'uscita del loro album di debutto, Word Gets Around, e, per celebrare questa impresa storica, Kelly Jones e i suoi sodali avrebbero voluto pubblicare una raccolta di grandi successi. Durante la preparazione del disco, però, i loro piani sono cambiati. Mentre frugava nei loro archivi, il frontman Kelly Jones ha trovato diverse canzoni inutilizzate, che raccontavano la storia degli Stereophonics molto meglio di qualsiasi raccolta. Così, la band ha remixato le vecchie canzoni e, insieme ad altre scritte per l’occasione, ha dato alla luce un doppio album perfettamente in linea con quel sound identificativo che da sempre permea la loro musica.

Il titolo Oochya! ha origine da un detto usato in studio, che significa, più o meno, "facciamolo!" Una sorta di grido di battaglia che risuona perfettamente nel singolo principale, Hanging On Your Hinges, che dà il via all'album. Una botta di meno di tre minuti, la cui energia martellante e ruvida sembra risuonare dalla porta aperta di un garage, al cui interno un gruppo di amici suona per divertirsi, come negli anni spensierati della giovinezza, quando fare casino era l’unica cosa che dava un senso a tutto.

La successiva Forever è cromosomicamente Stereophonics, grazie a una melodia di facile presa e a quel ritornello dolcemente malinconico (“Vorrei poter volare via per sempre, vorrei poter sopportare il tuo dolore e liberarti”), appena scartavetrato dalla voce roca e rilassata di Jones. È una delle migliori ballate dell'album, al pari di Seen That Look Before, che profuma di America e anni ’70.

Il secondo singolo Do Ya Feel My Love? è la quintessenza della Stereofonia: un brano teso, drammatico, scosso da vibranti linee di chitarra e da quella distintiva voce roca che divampa come un incendio e prelude a un finale travolgente. Sicuramente la vetta emotiva di Oochya!, la cui scaletta eccessivamente lunga (un’ora e passa) palesa inevitabilmente qualche cedimento (You're My Soul e Jack in a Box sono evidentemente dei riempitivi), in un disco a cui, un minutaggio più ristretto, avrebbe senz’altro giovato.

A parte questa considerazione, l’album regge benissimo dall’inizio alla fine, grazie a brani come la possente Running Round My Brain, omaggio agli amati AC/DC, Close Enough To Drive Home, malinconico racconto di un amore a distanza, o la deliziosa Right Place, Righ Time, nostalgico omaggio di Jones alla storia della band (“Tu suoni la batteria, io una chitarra, e abbiamo formato una band, chi avrebbe immaginato che saremmo andati lontano”).

Oochya!, in definitiva, celebra al meglio i venticinque anni di carriera di una band, che non ha mai voluto rinnovarsi, ma che, pur nella prevedibilità della proposta, ha comunque saputo mantenere alta l’asticella dell’ispirazione. Niente di nuovo, dunque, ma un album che farà felice i fan, per i quali conta più la riconoscibilità di un marchio di fabbrica piuttosto che la sperimentazione. E con gli Stereophonics, in tal senso, si va sul sicuro.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, lunedì 28/03/2022

venerdì 25 marzo 2022

ALRIGHT - SUPERGRASS (Parlophone, 1995)

 


Quando il movimento brit pop è al suo apice, tre ragazzi di Oxford, Gaz Coombes (chitarra e voce), Mick Quinn (basso) e Danny Goffey (batteria), esordiscono con I Should Coco, un disco di pop rock sfacciato ed effervescente, che cita la crema della storia musicale anglosassone (Kinks su tutti) e si accosta, per cromosomi, al suono di fratelli maggiori come Blur e Stone Roses.

Un album brioso, divertito e divertente, che incanta la critica specializzata e conquista la prima piazza delle classifiche inglesi, vendendo molto bene anche in giro per l’Europa. A far da traino all’album, due canzoni dalla melodia uncinante, quali Caught By The Fuzz, storia di un adolescente arrestato dalla polizia dopo essere passato dal pusher di fiducia, e soprattutto Alright, scanzonato inno giovanilistico, che, pubblicato come quinto singolo, raggiunse la seconda piazza delle classifiche britanniche, anche perché inserito nella colonna del film Ragazze a Beverly Hills, pellicola diretta da Amy Heckerling, che in quell’anno sbancò il botteghino.

La canzone, grazie a un testo un po' sempliciotto e facile da memorizzare, e a una allegra melodia per pianoforte, sembrava incarnare perfettamente la cultura giovanile britannica dell’epoca, adattandosi al suono e all’estetica del momento, e creando una stretta simbiosi con gli adolescenti di quegli anni, ben rappresentati dalla giovane età dei componenti della band (Gaz Coombes era appena diventato diciannovenne). Il brano fin da subito fu, quindi, considerato come una sorta di inno generazionale, di chiamata alle armi di quella generazione di ventenni, che si riconosceva in un testo che elencava i vantaggi della gioventù e di una vita senza regole.

In realtà, gli stessi membri dei Supergrass hanno sempre rifiutato di considerare il brano come inno per la loro generazione, suggerendo che il testo rappresentava semmai dei quattordicenni alle prese con le prime scoperte della vita (il fumo, l’alcool, le ragazze). Un brano allegro e spensierato, i cui intenti non erano quelli di spingere alla ribellione, ma di fotografare un momento di leggerezza, tanto fugace quanto emozionante.

Alright, per la sua volatile bellezza, è sempre stata considerata una canzone solare ed estiva; in realtà, leggenda vuole, che il brano fosse stato scritto all’interno di cottage in cui era saltato l’impianto di riscaldamento, e la band, per proteggersi dal freddo, era costretta continuamente ad accendere il camino per potersi riscaldare.

Una melodia goffa, sbarazzina, tanto cazzara quanto irresistibile, che, come si è detto, diede ai Supergrass un successo, in seguito, mai più replicato.

Alright, a prescindere da ogni considerazione, resta comunque una canzone legata indissolubilmente alla giovinezza, tanto che Gaz Coombes, intervistato quattro anni più tardi, nel 1999, ci tenne a precisare, con sagace ironia:” Ormai non la suoniamo più dal vivo. Dovremmo eseguirla in una tonalità minore e riscrivere il testo usando il tempo al passato.”

 


 

Blackswan, venerdì 25/03/2022

giovedì 24 marzo 2022

BAND OF HORSES - THINGS ARE GREAT (BMG, 2022)

 


Sono passati sedici anni da quando i Band Of Horses hanno pubblicato il loro disco di debutto Everything All The Time, ma, per assurdo, sembra passata una vita da loro ultimo album, Why Are You OK (2016), tanto che i fan della prima ora, come il sottoscritto, stavano quasi perdendo la speranza di poter riascoltare il loro peculiare country rock dagli accenti indie.

Formatasi a Seattle, ma ora con sede nella Carolina del Sud, i Band Of Horses, composti, per l’occasione, dal leader Ben Bridwell (voce solista, chitarra, pedal steel, tastiere), da Rob Hampton (chitarra, basso) e Creighton Barrett (batteria e percussioni) dopo sei anni, e qualche cambio di line up, tornano con un disco dal suono immediatamente riconoscibile, quello per cui li abbiamo amati, e sicuramente continueremo a farlo, nonostante una carriera non sempre all’altezza del celeberrimo esordio.  Nulla è cambiato, insomma, e a parte una maggior immediatezza negli arrangiamenti rispetto al precedente lavoro, quelle inconfondibili linee di chitarra, la voce morbida di Bridwell e il mood prevalentemente malinconico tornano a risuonare dalla casse dello stereo, esattamente come speravamo facessero.

Dalla traccia di apertura "Warning Signs" fino alla chiusura "Coalinga", la band mette insieme una scaletta che suona come un vero e proprio distillato del loro stile, in cui emergono in modo cristallino i tanti punti di forza, l’ispirazione sembra sempre posizionarsi su livelli ottimali, la scrittura è bilanciata e l’approccio è appassionato. Nessun filler, come invece altre volte era capitato, ma tante belle canzoni destinate a diventare grandi classici del repertorio della band: la citata, scintillante opener, la sognante "Aftermath", che parte morbidissima e lentamente si gonfia in un avvolgente crescendo melodico, il singolo “Crutch”, trascinato dal suono croccante di chitarre a la Cure, e "Tragedy of the Commons", raggiante nelle sue zuccherine trame melodiche, ma dagli accesi contenuti politici.

Un disco di grande intensità, dunque, costruito in modo organico su un suono immediatamente riconoscibile, diretto nella continua ricerca della melodia di facile presa e specchiato nei propri riferimenti artistici (The Shins su tutti), che non intorbidano però il processo di scrittura di Bridwell.

Potrebbe essere stata la lunga attesa ad aver prodotto un effetto “rinfrescante” o potrebbe essere che l'assenza rende il cuore più affettuoso, ma questo sembra in realtà il miglior album della Band of Horses da molto tempo a questa parte. Things Are Great è un lavoro ispirato, attraversato da momenti di intenso lirismo e capace di conquistare con un impianto melodico che non fa prigionieri. Un ottimo ritorno, che farà battere forte il cuore ai fan di vecchia data e, probabilmente, riuscirà a conquistarne di nuovi alla causa.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, giovedì 24/03/2022

martedì 22 marzo 2022

LOVE IS ALL AROUND - THE TROGGS (Page One, 1967)

 


Incredibile ma vero, Love Is All Around, uno dei più grandi successi commerciali dei Troggs, avrebbe potuto intitolarsi Pancake Is All Around, titolo con cui l’eccentrico Reg Presley, cantante della band, aveva inizialmente deciso di chiamare la canzone per omaggiare i dolci di cui andava ghiotto. Una bizzarria tenuta fortunatamente a freno, e mutuata, poi, nel titolo definitivo, decisamente più appetibile, almeno a livello mediatico, dei pancake.

La canzone fu scritta da Presley in soli dieci minuti, dopo aver assistito in televisione a una performance della Joy Strings Salvation Army, talmente toccante da pervaderlo di un irrefrenabile desiderio d’amore. L’amore è ovunque, avvolge ogni cosa, “lo sento nelle dita, lo sento nelle dita dei piedi. Bene, l'amore è tutto intorno a me, e così la sensazione cresce. E’ scritto nel vento, è ovunque io vada. Quindi se mi ami davvero, vieni e lascia che si mostri”.

Inizia così il testo di Love Is All Around, un brano che parla di amore fra uomo e donna, certo, ma che ben si adatta anche ai tempi del flower power e di una gioventù che riscopre la spiritualità come antidoto allo stile di vita di una società conservatrice e tradizionalista.  

Come già era successo ad altre canzoni del quartetto inglese (Wild Things e With A Girl Like You), il brano scala le classifiche sia inglesi che americane, arrivando al quinto posto della chart britanniche e al settimo di Billboard 100.

Un ottimo riscontro commerciale, ma nulla al confronto di quello che avvenne nel 1994, quando i Wet Wet Wet, gruppo scozzese che, due anni prima aveva spopolato in Inghilterra con il singolo Goodnight Girl, realizzò una cover del brano per la colonna sonora di Quattro Matrimoni e Un Funerale, commedia agrodolce diretta da Mike Newell, con Hugh Grant e Andie McDowell in veste di protagonisti. La band, chiamata a partecipare alle musiche del film, avrebbe dovuto scegliere fra tre brani: I Will Survive di Gloria Gaynor, Can't Smile Without You di Barry Manilow e, appunto, Love Is All Around dei Troggs. La scelta ricadde su quest’ultima, e mai decisione fu tanto lungimirante: il brano balzò in vetta alle classifiche inglesi, dove restò saldamente al comando per quindici settimane.

Da ricordare anche la splendida cover dei R.E.M., che potete trovare nel cofanetto R.E.M. At The BBC (2018), raccolta live che contiene registrazioni che vanno dal 1984 al 2008.

 


 

Blackswan, martedì 22/03/2022

lunedì 21 marzo 2022

SLASH - 4 (Snakepit Records, 2022)

 


Come è noto, durante gli ultimi due anni, molti artisti sono stati costretti a scrivere e registrare i loro album in isolamento o tramite videochiamate, mentre Slash, Myles Kennedy e i Conspirators, sono riusciti a invertire la tendenza, si sono recati insieme a Nashville, hanno prenotato uno studio e, sotto la supervisione di Dave Cobb, hanno realizzato il disco insieme, con l’intento di ottenere un risultato più immediato e coeso. Lo sforzo ha prodotto il quinto album di Slash lontano dai Guns N' Roses e il suo quarto insieme a Myles Kennedy and the Conspirators. E che disco!

Basta un fugace ascolto, per capire che il gruppo è riuscito ad ottenere il risultato desiderato: la scaletta è organica e compatta, le canzoni urgenti e scattanti, la produzione è scarna, asciutta, e il disco suona con la forza primordiale di una band che si diverte a suonare puro rock’n’roll. Con lo sguardo rivolto al passato, certo, ma con un surplus di energia che tante band più giovani si scordano.

Non ci sono sorprese su 4, il marchio di fabbrica è quello della chitarra di Slash, il suono, come sempre, è in bilico fra Guns e Alter Bridge.

L'opener "The River is Rising" rappresenta tutto il meglio di ciò che ti aspetteresti dal gruppo: ritornelli svettanti, riff duri e, naturalmente, un esplosivo assolo di chitarra.

"Whatever Gets You By" è un truce rock blues che colpisce letale come un pugno in faccia, "C'est la vie" è costruita su un lick di chitarra forgiato dal pedale wah wah di Slash, prima che il resto della band si unisca per pigiare nuovamente il piede sull’acceleratore rock blues. "The Path Less Followed" attinge dal passato, suonando come se fosse stato registrato negli anni '70, è un hard rock capace di fondere in perfetto equilibrio melodia e martellante potenza.

Slash punta all’essenziale, la sua performance alla chitarra è concisa, limita gli effetti e lascia parlare i riff, come avviene nella notevole "Actions Speak Louder Than Words", che presenta alcuni effetti wah wah, anche se, poi, il suono della chitarra è puntuto e diretto, senza fronzoli.

"Spirit Love" inizia con un vago sapore psichedelico, prima che il brano parta cupo e pesante, e Slash rilasci un assolo stratosferico, tecnicamente mostruoso, puro fulmicotone.

Una delle tracce più lunghe di 4, "Fill My World", resta a metà strada fra power ballad e inno da stadio, e vede di nuovo Slash sfoderare tutto il suo repertorio, un assolo incredibile, ma soprattutto quei lick melodici che hanno contraddistinto tante canzoni dei Guns.

Se “April Fool” fonde il rock classico con reminiscenze grunge, "Call Off the Dogs", sprinta a cento all’ora, incapsulando l'energia di una band che suona in studio esattamente come farebbe sul palco.

L'album si conclude con "Fall Back To Earth", una power ballad dalla struttura più complessa, che fonde strofe melodiche, ritornello possente e drammatico, e un assolo spaziale.

4 non è certo un disco rivoluzionario, ma è un grande album di rock, diretto, muscolare e grintoso, in cui Slash e Kennedy ribadiscono quanto sia prolifico e vincente il loro connubio. Il tocco magico di Dave Cobb fa il resto, producendo quello che è, probabilmente, il miglior disco del chitarrista dai tempi dell’esordio solista del 2010.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, lunedì 21/03/2022

giovedì 17 marzo 2022

UNDEROATH - VOYEURIST (Fearless Records, 2022)

 


C'è stato un tempo, circa una ventina di anni fa, in cui gli Underoath vestivano i panni di pionieri per il loro modo di plasmare le arti oscure del post-hardcore. Hanno lasciato un segno indelebile, c’è poco da fare, grazie a un scintillante connubio tra metalcore e progressive, strattonate di inusitata violenza e il gusto per affascinanti paesaggi sonori dal sapore cinematografico.

L’ultimo album, Erase Me del 2018, aveva segnato un deciso cambiamento di stile, una svolta verso sonorità più orecchiabili ed elettroniche, che aveva fatto storcere il naso ai fan della prima ora, abituati a ben altra aggressività. Un mezzo passo falso, figlio della volontà da parte della band originaria di Tampa (Florida) di tentare di evolversi, di abbracciare un suono più compatibile con il mutare del tempo e dei gusti. Giusto o sbagliato, spetta ai fan deciderlo. Di sicuro gli Underoath, anche con questo Voyeurist, tengono aperto il dibattito, nonostante questo disco sia decisamente più violento e sferzante del suo predecessore.

La scaletta si apre con Damn Excuses, e questo è esattamente il tipo di metalcore crudo ed enigmatico che da sempre rende gli Underoath una band speciale. Un incipit straordinario, il cui groove sfocia poi in Hallelujah, una traccia più melodica e strutturalmente raffinata, in cui le chitarre riverberate creano un’atmosfera carica di pathos.

I'm Pretty Sure I'm Out Of Luck And Have No Friends inizia con il campionamento di una chiamata di emergenza senza risposta che risuona a ripetizione, un’introduzione lunga, suggestiva, dal sapore quasi post rock, il cui ritmo si accende solo nel finale, dando un esempio chiarissimo di quello che può fare la band quando decide di cambiare le regole di un gioco, altrimenti prevedibile. Un brano in netto contrasto con la successiva Cycle, in cui gli Underoath tornano a picchiare con belluina ferocia, senza tuttavia dimenticarsi di innestare in sottofondo un contrappunto melodico, che poco, però, può fare per evitare che i nostri timpani vengano ridotti in poltiglia.

In Thorn, che parte truce, la band svolta velocemente verso la melodia, evocando approcci più morbidi alla Circa Survive, e dimostrando sapienza e sensibilità nel riuscire ad accostare nella stessa scaletta brani più strutturati e digeribili a veri e propri inni metalcore.

(No Oasis) risuona come un momento di stasi contemplativa, inquieta e cupa, in cui la batteria sfarfalla mesta tra tocchi di elettronica e voci sussurrate, Take A Breath resta in equilibrio fra ferocia e melodia, mentre la We're All Gonna Die sprinta rabbiosa, non senza qualche uncinante gancio melodico, fino a scontrarsi con l’elettronica minacciosa di Numb, deriva sonora ultima di una band che, come si diceva, punta costantemente al cambiamento e alla riscrittura delle regole.

L’album si chiude con Pneumonia, un brano contornato dalla notte, sette minuti tra drone e post metal, che difficilmente troverebbe asilo in un disco di metalcore. Una canzone che cresce e si gonfia, febbrile, verso un finale che esplode con la brutalità devastante di una bomba a mano.

Un disco, questo, che gli stessi Underoath hanno definito come il loro album più ambizioso e vario pubblicato fino a oggi. Non possiamo dare loro torto: i meriti artistici sono indubbi, nonostante l’utilizzo dell’elettronica e quei costanti ganci melodici che faranno alzare il sopracciglio a chi ha nel cuore dischi come Define The Great Line (2006). Tuttavia, la strada imboccata, con qualche incertezza, in Erase Me, ritrova in Voyeurist un passo sicuro e spedito, e una rinnovata ispirazione che guarda con decisione al futuro. I tempi cambiano e così anche le band. Facciamocene una ragione.

VOTO: 7

 


 


Blackswan, giovedì 17/03/2022

martedì 15 marzo 2022

LOVE SONG - SARA BAREILLES (Epic, 2007)

 


Se non ci fosse stata Love Song, la carriera di Sara Bareilles, cantante, compositrice e attrice, originaria di Eureka (California), si sarebbe probabilmente sviluppata nel sottobosco indie, zeppo di esempi di bravissimi musicisti, che hanno perso il treno del successo, rimanendo appannaggio di pochi ascoltatori illuminati. Invece, grazie a quella canzone e a Little Voice, l’album che la contiene, la Bareilles, nel corso degli anni, ha venduto ben dieci milioni di singoli e due milioni di album, ha vinto un Grammy Awards, e si è cimentata come attrice in svariate serie televisive e in alcuni spettacoli teatrali.

Perché è brava, certo, ed è riuscita a giocarsi molto bene le carte che la dea bendata le ha messo in mano; ma, soprattutto, perché è riuscita a scrivere una sola canzone, quella decisiva, capace di catalizzare l’attenzione mediatica e di trasformarla in una star di primissimo piano. Proprio lei, una giovane musicista di belle speranze, pochi quattrini e tante idee in testa, che era riuscita a pubblicare il proprio esordio (Careful Confessions del 2004) con una piccola etichetta indipendente, la Tiny Bear Records, dopo qualche anno di faticosa gavetta.

Quel disco, per quanto registrato con pochi mezzi, faceva trasparire tutto il talento della giovane artista, che poco dopo fu messa sotto contratto dalla Epic, che ne aveva intuito il potenziale commerciale. Tuttavia, la genesi del sophomore, Little Voice, fu estremamente complessa, dal momento che la Bareilles era poco incline ai compromessi e non riusciva a soddisfare le richieste della Epic, che rimproverava alla giovane artista la mancanza di un singolo che avrebbe poi fatto da traino a tutto l’album. La casa discografica voleva una hit, una canzone che potesse diventare un tormentone radiofonico e si mangiasse le classifiche, una canzone, magari, che parlasse di sentimenti, visto che il connubio cuore-amore faceva sempre centro, raggiungendo una fascia trasversale di ascoltatori.

Per quanto s’impegnasse, però, Sara non riusciva a trovare la chiave per soddisfare questa richiesta, e ogni canzone proposta veniva regolarmente rifiutata dalla Epic. Alla fine, come spesso accade, un’illuminazione estemporanea riuscì laddove il duro lavoro aveva fallito. Così la Bareilles scrisse di getto Love Song, che a dispetto del titolo, non è (solo) una canzone d’amore, ma soprattutto uno sberleffo ironico alla propria casa discografica, nato proprio come reazione rabbiosa alle insistenze dell’Epic, che la voleva radio friendly e appetibile al grande pubblico.

 “Non ti scriverò una canzone d'amore, perché l'hai chiesto tu, perché ne hai bisogno, Vedi, non ti scriverò una canzone d'amore…Non ti scriverò per farti restare, Se tutto quello che hai è andartene. Ho bisogno di una ragione migliore, Per scriverti una canzone d'amore oggi”: parole che ben si adattano al racconto di una relazione sull’orlo di una crisi di nervi, ma che suonano anche come affilato motteggio nei confronti della propria casa discografica.

Il brano, come si è detto, regalò grande visibilità alla Bareilles e fu un enorme successo commerciale, anche se ci volle un po' di tempo prima che il pubblico si accorgesse di quanto fosse deliziosa questa pop song dal retrogusto amarognolo. Pubblicata il 16 giugno 2007 su Itunes, la canzone, infatti, impiegò qualche mese per entrare in classifica, e solo dopo essere stata utilizzata in uno spot televisivo, nel gennaio del 2008, raggiunse la top ten di Billboard, dove resistette per ben diciannove settimane, vendendo oltre quattro milioni di copie. E pensare che Sara nemmeno voleva scriverla.

 


 

Blackswan, martedì 15/03/2022

lunedì 14 marzo 2022

SCORPIONS - ROCK BELIEVER (Vertigo, 2022)

 


Longevi come pochi al mondo, gli Scorpions continuano a essere una delle realtà più credibili nell’odierno panorama hard rock. Nonostante si sia formata nel lontano 1965, la band teutonica non ha mai smesso di rilasciare album con puntigliosa regolarità. Non sempre all’altezza della propria fama, ma è inevitabile quando si sta sulla cresta dell’onda da più di mezzo secolo, il gruppo capitanato da Rudolf Shenker e Klaus Meine è rimasto coerente a se stesso e indifferente alle mode, replicando una formula inossidabile, costituita da riff scattanti e melodie di facile presa.

Rock Believer riporta il loro sound alle radici, ai giorni della gloria e del successo planetario di album come Animal Magnetism e Blackout, e se il loro ultimo disco, Return To Forever del 2015, palesava solidità ma anche una certa mancanza d’ispirazione, questo nuovo lavoro, al contrario, è vibrante e divertentissimo. Insomma, la band è tornata ed è tornata nella sua migliore versione, grazia al consueto interplay fra le chitarre di Rudolf Schenker e Matthias Jabs, vera e propria macchina da guerra, e alla voce scintillante di Kluas Meine, a cui l’età non ha tolto un grammo della potenza di un tempo.

Nel complesso Rock Believer è un disco accattivante e fresco, privo di filler e coeso intorno a un suono che è ormai marchio di fabbrica. A partire dalla title-track, una sorta di signature song e nostalgico inno per tutti gli amanti del rock, semplice, orecchiabile e quasi ingenua nei concetti che veicola: "Nessuno può portare via i nostri sogni", canta Meine, come a dire che ciò che sei come musicista e soprattutto come persona, non può essere cancellato dai giorni tristi e colmi d’angoscia che stiamo vivendo. Il rock vive ed è qui per restare, basta crederci. E’ proprio il rock, energico e muscolare, ad aprire la scaletta con "Gas In The Tank", e che ci sia ancora benzina nel serbatoio è subito evidente, grazie a un riff spaccaossa che rinverdisce al meglio gli antichi fasti. E via, piede schiacciato sull’acceleratore, con "Roots In My Boots", possente ed orecchiabile, e “Knock ‘Em Dead”, sorniona al punto al giusto, riuscito esempio di come si possa fare rock di qualità appetibile anche per le radio.  

Non c’è un momento di stanca in tutto il disco, anche quando la band tesse trame classiche e dal retrogusto vintage, come avviene nella melodia cristallina di "Shining of Your Soul" e nel tiro in odor di epica di "Hot and Cold". E c’è anche un ballatone finale ("When You Know"), che riesce là, dove spesso gli Scorpions avevano sbagliato approccio, per eccesso di zuccheri: asciutta, coinvolgente, virilmente malinconica.

Insomma, un disco centrato, che può tranquillamente stare sullo stesso piano dei grandi classici della band tedesca, a dimostrazione che, nonostante la lunga militanza, gli Scorpions sono nuovamente in grado di regalare genuine soddisfazioni a tutti coloro che danno ancora un senso alla parola “rock”. Sarebbe bello riuscire a vederli suonare ancora dal vivo, ma in questi tempi incerti, oltre la speranza non è possibile andare.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, lunedì 14/03/2022

venerdì 11 marzo 2022

THE DELINES - THE SEA DRIFT (El Cortez Records, 2022)

 


The Sea Drift: il mare e la deriva. Due termini che accostati esprimono alla perfezione lo straniamento che nasce dall’ascolto del nuovo disco dei Delines, creatura nata dall’immaginazione di Willy Vlautin, ex Richmond Fontaine e romanziere sopraffino. Da un lato, il mare, fotografato anche nella bella copertina dell’album, che evoca quiete, suggerisce (e)stasi contemplativa, seduce con il lento e ipnotico borbottio della risacca; dall’altro, la deriva, un termine che parla di smarrimento, di naufragio (interiore), di confusione, turbamento, sconcerto.

Un titolo, The Sea Drift, che esprime, dunque, perfettamente il contenuto delle undici canzoni in scaletta, brani morbidi, avvolgenti, arrangiati con la grazia del cesello artigianale, note che accarezzano, suscitando languori malinconici, ma anche storie di un’umanità persa, senza speranza, di quei perdenti, amanti disperati, donne sole, reietti in cerca di un impossibile riscatto, raccontati così bene nei romanzi di Vlautin e, qui, colti nel cuore di una storia, negli attimi di una sequenza cinematografica.

Una musica rarefatta, sincera, elegante ed evocativa, che fa da cornice a liriche, cantate, con appassionata dolcezza, dalla brava Amy Boone, in cui il neo-realismo di Vlautin apre ferite interiori non rimarginabili e punta lo sguardo sull’America degli ultimi, di uomini e donne sconfitti dalla vita, a cui non resta altro che abbandonarsi alla deriva, sperando, prima o poi, in un appiglio che trasformi la speranza in salvezza.

Così, il levigato country soul dell’opener "Little Earl" avvolge l’abitacolo dell’auto guidata dal piccolo Earl, il cui fratello “is bleeding in the backseat”. Un’immagine che evoca un film, quello di una rapina andata male e del viaggio disperato alla ricerca di un ospedale, “anche se suo fratello non vuole che lo faccia” e il piccolo Earl “sta iniziando a farsi prendere dal panico, è troppo spaventato per fermarsi, e non ha mai guidato di notte e continua a perdersi”. “Getting Lost”, finisce con queste parole, la canzone, lasciando all’immaginazione di chi ascolta gli elementi per chiudere la sceneggiatura: cosa ne sarà dei due fratelli? Troveranno la morte o la salvezza?  

Icastiche e puntute, le liriche di Vlautin raccontano un’America vera, lontana dall’epos, dall’iconografia tradizionale, condensata, invece, in esistenze sull’orlo del baratro, e in personaggi che affollano highways, motel a buon mercato, bar fumosi, periferie ove il pericolo incombe, proprio dietro l’angolo. Vite ordinarie, precarietà, destini già segnati.

Le auto di pattuglia si fermano, la polizia si precipita fuori e lancia il mio uomo contro un muro. In una cittadina di mare, con turisti tutt'intorno, Il mio uomo ammanettato sul marciapiede. Mi chiedi chi è questo mio uomo. E cosa ha fatto. Giuro, non lo so, giuro, non lo so. Stava venendo a prendermi al lavoro. Dal retro della loro macchina mi guarda e posso dire che, qualunque cosa pensino che abbia fatto, è colpevole”, canta Amy Boone nel delicato cesello acustico di "Surfers At Twilight", vertice emotivo del disco, e ballata su un amore disperato (e forse tossico), che lascia ammutoliti per la forza dell’immagine di due amanti colti esattamente nel momento in cui il loro mondo va a rotoli, mentre intorno, inconsapevoli spettatori, i surfisti cavalcano le onde nel crepuscolo. Il mare e la deriva.

La deriva di una donna triste, oppressa dal nucleo famigliare in cui vive, che cerca nella fuga la via di salvezza ("Drowing In Plaint Sigh") e quella di un’altra donna, che torna a casa all’alba dall’ex compagno, per riprendere le sue cose, e lo trova ubriaco e con la pistola in mano ("This Ain’t No Gataway"). E’ questo il mondo raccontato da Vlautin, un mondo avvolto in una cappa scura, in cui dominano il dolore, la violenza, l’ingiustizia, e i cui personaggi combattono quotidianamente alla ricerca di un’improbabile salvezza. Che forse arriverà, proprio dal mare ("Saved From The Sea"), la cui pacata bellezza è lenimento alle ferite e dolce promessa di speranza: “Mi fa sentire come se il mondo non stesse affondando, Come se il mondo non fosse così brutto e crudele come è. Mi fa sentire come se la mia vita non fosse stata sprecata, Come se la mia vita non stesse semplicemente scivolando via, Lo sento davvero”.

VOTO: 9

 


 

Blackswan, venerdì 11/03/2022

giovedì 10 marzo 2022

TEARS FOR FEARS - THE TIPPING POINT (Concord, 2022)

 


Sono passati diciotto anni dall’ultimo disco in studio dei Tears For Fears. Diciotto anni. Uno iato impressionante, anche se non dovessimo misurarlo con i ritmi frenetici di questo mondo impazzito, esattamente il tempo di veder nascere un figlio e vederlo poi diventare maggiorenne. Curt Smith e Roland Orzabal, dopo la rottura artistica (e affettiva) degli anni ’90, quando per tutto il decennio, passavano il tempo a insultarsi reciprocamente a mezzo stampa, si sono dovuti riavvicinare lentamente per prendere le misure di un rapporto ormai logoro, farlo funzionare di nuovo e capire che era ancora possibile creare musica insieme.

Un lustro fa, l’annuncio di questo The Tipping Point, che aveva fatto battere forte il cuore a tanti fan ormai rassegnati alla scomparsa della band. Le cose, però, non sono andate come previsto e i tempi si sono dilatati: la morte della prima moglie di Orzabal, i suoi successivi problemi di salute, il cambio di management e il passaggio da un’etichetta all’altra: ogni circostanza sembrava far propendere verso scenari pessimisti, alimentava il dubbio circa la realizzazione dell’album o la sua eventuale caratura artistica. E invece…

Invece, The Tipping Point, a dispetto di tutto e di tutti, è un gran disco, un’opera che ha visto i due amici/nemici collaborare in un clima distensivo, grazie anche al nuovo approccio di Orzabal, che si è evidentemente rilassato, ha tenuto a bada la sua smania di controllo e si è aperto a quella collaborazione fattiva, che negli anni del grande successo era mancata, portando alla fuga di Smith dal comune progetto.

Il risultato sono undici canzoni arrangiate con rara eleganza, di una sostanza melodica piena e consapevole, che non ha avuto bisogno di riciclare vecchie idee, ma che, invece, ha saputo collocarsi nel panorama pop attuale, senza guardarsi alle spalle.  

Solo a tratti giungono echi di un lontano e glorioso passato, e se è vero che lo stile è inconfondibile (quelle due voci che riconosceresti anche nella più assordante cacofonia), non c’è spazio per la nostalgia, ma solo per nuove intuizioni, per un approccio hic et nunc, per la visione di un pop che sa mutare pelle mantenendo intatta una sostanza di ganci irresistibili e classe cristallina. Ascoltate, ad esempio, "Break The Man", con le chitarre accordate come nella celebre "Pale Shelter", a evocare la leggerezza di una mattina di assolata primavera, e la ritmica così incredibilmente moderna e seducente, sottofondo ideale per nottate stilose: ecco la sintesi, ecco l’equilibrio, il passato e presente che convivono in un suono nuovo, che scarta dall’ovvio dell’autocitazione.

The Tipping Point è un disco arioso e vario, che gioca coi ritmi, che si apre alla malinconia di ballate spacca cuore, che cerca e trova la convivenza fra strutture complesse e immediatezza melodica, che sfodera un’omogenea simbiosi fra elettronica e strumenti acustici. Non c’è una sola canzone che non sia attrattiva, che non seduca a ripetuti ascolti, a partire dall’introduttiva "The Small Thing", immensa, a dispetto del titolo, un brano costruito per accumulo, che parte folk minimalista e si gonfia di umori soul, scorrendo verso un finale pieno, avvolgente, rumoroso.

Ogni brano è una delizia melodica, levigata dal velluto di arrangiamenti sobri e misurati. Forma che si fa sostanza, e viceversa. Il battito cupo di "My Demons", il cui incedere strizza l’occhiolino ai Depeche Mode, lo struggimento malinconico di "Rivers Of Mercy", vertice emotivo dell’album e appendice 2.0 alla "Mercy Street" di gabrielliana memoria, la tensione drammatica che pervade "Master Plan" e la coccola al miele di "Please Be Happy", sono momenti di musica destinati a farsi amare nel tempo. Perché The Tipping Point non è solo uno dei dischi più intensi ascoltati in questa prima parte dell’anno, ma un vero e proprio instant classic, che riaccende la luce sulla storia di una band che nessuno potrà mai dimenticare. Anche se dovessero passare altri diciotto anni per un nuovo disco.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, giovedì 10/03/2022

martedì 8 marzo 2022

BETH HART - A TRIBUTE TO LED ZEPPELIN (Provogue, 2022)

 


Un disco di cover, ormai, non si nega a nessuno. Certo, il più delle volte si tratta di raccolte che contengono reinterpretazioni di brani tratti dal songbook di svariati musicisti. Più raro, un disco tributo a una sola band, operazione per la quale è necessario gran gusto, capacità di sintesi, di rilettura filologica e visione. Perché il rischio, diversamente, è quello di mancare il bersaglio e passare per folli, soprattutto se quella band, che vai a evocare, porta il nome di Led Zeppelin.

Con A Tribute To Led Zeppelin, Beth Hart e la band che l’accompagna, hanno deciso di intraprendere ciò che pochi artisti avrebbero osato fare. Sulla carta, la Hart, con la sua voce potente e il suo timbro graffiante, che resiste immarcescibile allo scorrere del tempo, sembra essere più vicina a un sostituto di Robert Plant di chiunque altro, ma catturare il peso artistico e la mistica degli Zep, plasmandoli al proprio stile interpretativo, richiede un alto livello di talento artistico e visione d’insieme profonda e avvolgente.

Hart ha già eseguito alcune delle nove tracce dell'album, anche se in contesti live. Non sorprende, allora, che apra la scaletta con "Whole Lotta Love", un brano a lei famigliare, per essere da tempo un classico dei suoi concerti, e che qui viene riletta come avrebbe fatto Plant se fosse stato una donna. Eppure, la Hart evita con cura l’effetto copia incolla, e ha il merito di mantenere integra la propria identità, attraverso il caratteristico gorgheggio e le vocalizzazioni improvvisate.

"Whole Lotta Love" dà il tono complessivo all'album, mostrando non solo l'atteggiamento della Hart (tutt’altro che remissivo di fronte ai mostri sacri), ma anche l'approccio filologico al materiale in scaletta. Con la guida del produttore e chitarrista Rob Cavallo, che ha anche prodotto il precedente lavoro, War In My Mind, il tandem opta per interpretazioni fedeli alla scrittura degli Zep. In tal senso, le tracce sono rock-centriche, non ci sono scarti fantasiosi o bizzarre riletture: ciò che conta, è semmai la voce della Hart e l’amalgama coi musicisti, concentrati e grintosi per far rivivere appieno l'abilità tecnica del quartetto originale.

In tal senso, tutti i protagonisti del tributo fanno bene la loro parte e l'ascoltatore si troverà a godere, grazie a interpretazioni che evitano tanto folli voli artistici quanto riproduzioni in copia carbone.

Al suono, potente e hard, è stata aggiunta più orchestrazione: gli archi spesso si armonizzano con i riff di chitarra e le incisive sezioni di fiati spostano leggermente l’accento su brani altrimenti arcinoti nel loro sviluppo. Così, senza nulla togliere all’inarrivabile potenza degli originali, anche pochi ritocchi stilistici, rendono queste cover meritevoli di attenzione, con vertici davvero notevoli in "Black Dog", "Good Times, Bad Times", nel medley "No Quarter/Babe I’m Gonna Leave You", e nella conclusiva "The Rain Song".

Impossibile parlare male di questo disco, e se anche le canzoni in scaletta le conosciamo a memoria, il lavoro fatto dalla Hart è di caratura davvero notevole. Ciò nonostante, come è inevitabile in progetti di questo tipo, sappiamo già che i puristi dei Led Zeppelin potrebbero esprimere indignazione o disprezzo, nonostante l’audacia della Hart nel misurarsi con un songbook, che la maggior parte degli artisti avrebbe troppa paura di affrontare, mentre ascoltatori meno passionali, potrebbero lamentarsi della scarsa fantasia con cui il materiale è stato reinterpretato (salvo, poi, lamentarsi di nuovo perché gli originali sono comunque superiori a qualsiasi rilettura). Un bel dilemma davvero. Tuttavia, a leggere questo tributo con obiettivo distacco, è indubbio che la Hart sia stata in grado di accostarsi alla leggenda, mantenendo intatto il trasporto emotivo del potente hard rock della premiata ditta, aggiungendo la firma distintiva di una voce unica. In tal senso, A Tribute To Led Zeppelin è un omaggio ispirato, appassionato e devoto a quella che è forse la più grande rock blues band del nostro tempo.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, martedì 08/03/2022

lunedì 7 marzo 2022

THE SLOW SHOW - STILL LIFE (Pias, 2022)

 


Raccontare un disco degli Slow Show non è un’impresa facile, perché la musica della band mancuiniana dribbla ogni razionalizzazione e vive in una dimensione parallela, dove contano solo ed esclusivamente le emozioni. Canzoni svincolate dall’ovvio, fluttuanti e immaginifiche, che impongono un’esperienza d’ascolto immersiva e totalizzante. E’ un dono per pochi, come dimostra la loro straordinaria discografia, composta da quattro album bellissimi, eppure nascosti in un sottobosco emotivo, a cui ha accesso solo una nicchia di ascoltatori/viaggiatori: anime inquiete, sempre con le valigie in mano, pronte a partire verso paesaggi sonori declinanti delicati struggimenti e malinconie definitive.

Pubblicato il 4 febbraio 2022 tramite Pias, Still Life, come il suo predecessore (Lust and Learn del 2019), è un disco avventuroso e mozzafiato, reso però ancora più speciale dalle circostanze in cui è stato generato. Un album, infatti, nato durante la pandemia, in due anni in cui la band, composta da Rob Goodwin, Frederick't Kindt, Joel Byrne-McCullough e Chris Hough, ha dovuto lavorare prevalentemente a distanza, a causa del lockdown e dei divieti di viaggio. Sarebbe riduttivo, però, definirlo un disco pandemico, perché come sempre la musica degli Slow Show è comunque il frutto di profonda introspezione e tumulti interiori. La pandemia, in Still Life, è, quindi, solo lo spunto iniziale, e sebbene nato in tempi di solitudine e disconnessione, il disco suona semmai come una riflessione universale sull’uomo di fronte alle difficoltà, all’incertezza, e alla paura per un futuro che pone solo domande, nessun punto fermo, nessun riferimento a cui aggrapparsi.

Non c’è però tristezza, né disperazione, in questa musica dal respiro cinematografico, ma semmai una diversa consapevolezza nello scandagliare l’anima per trovare una speranza, una luce che illumini l’oscurità per celebrare la vita. Meno immediato dei suoi predecessori, Still Life indaga l’intimo per liberare spazio, per aprire varchi in cui cercare l’azzurro del cielo, il calore del sole, la bellezza di una natura che, a dispetto del titolo, vibra intorno a noi per ricordarci che la vita, se lo vogliamo, può essere ancora incredibilmente appagante.

Il linguaggio usato dalla band è il consueto: strumentazione prevalentemente acustica, la voce baritonale e impostata di Rob Goodwin, un approccio apparentemente minimalista che, come un miracolo, si gonfia di sincero romanticismo, di indicibili malinconie e vibrante epos, e accerchia l’ascoltatore, avvolgendolo in un abbraccio voluttuoso, quasi orchestrale. Come avviene esattamente nell’opener "Mountbatten", le note sgocciolate di un pianoforte, la carezza degli archi, la voce profonda di Goodwin, i momenti di stasi e le ripartenze melodiche, che spingono l’ascoltatore a fluttuare a mezz’aria, in un mondo parallelo a quello reale, così famigliare alla musica degli Slow Show, eppure, ogni volta, così inaspettatamente sorprendente.

Still Life, come dicevamo, è un viaggio dell’anima, e basta guardare fuori dal finestrino del nostro cuore, per perdersi in un’eterea calligrafia cinematografica (la spoken word della conclusiva "Wheightless"), nel caracollare bluesy di un romanticismo in bianco e nero ("Blinking"), nelle luci sfreccianti a ridosso di nostalgie notturne ("Blue Nights") o nell’aria, sapida di rugiada, di mattinate allagate di sole ("Breathe"). Proverete il sapore delle lacrime, salate di tristezza, ma anche di un’incomprensibile allegria, e palpiti del cuore, così rumorosi da sovrapporsi alle note, e ancora, l’estasi di librare leggeri, sopra i vostri corpi, persi, definitivamente, in una musica catartica, tanto coinvolgente, quanto inafferrabile, nella sua diafana e vaporosa consistenza.

Resta da chiedersi, di fronte a un disco di questa caratura, come sia possibile che una band del livello degli Slow Show, non abbia un posto di prestigio nell’odierno panorama alternative, ed è triste prendere atto che questa musica, certo non immediata, sia costantemente ignorata sia dalla stampa specializzata che dal grande pubblico. Voi che leggete queste poche righe, avete il potere di cambiare il corso degli eventi: ascoltate Still Life e diffondete il verbo. Abbiamo un disperato bisogno di bellezza.

VOTO. 9

 


 


Blackswan, lunedì 07/03/2022

giovedì 3 marzo 2022

HAPPY TOGETHER - THE TURTLES (White Whale, 1967)

 


Questa è la storia di Happy Together, la canzone che nessuno voleva registrare e che invece costruì la fortuna dei Turtles, una band di ventenni californiani che, all’improvviso, il 14 febbraio del 1967, si ritrovò sul tetto del mondo.

Il brano, infatti, pubblicato inizialmente come singolo e poi inserito nel terzo album della band, vanta numeri da capogiro: prima piazza della Billboard Hot 100 USA, diventando il primo e unico singolo della band in cima alle classifiche americane, top 20 in diversi paesi, incluso il Canada (seconda) e il Regno Unito (dodicesima), disco d’oro sia in Inghilterra che negli States, dove vendette in poco tempo un milione di copie.

E pensare che, come accennato, la canzone, prima di vedere la sua definitiva realizzazione, venne rifiutata da tutti gli artisti a cui fu proposta. Scritto da Alan Gordon, mentre era seduto ai tavolini di un negozio di dolciumi a Brooklyn, il brano fu completato successivamente dallo stesso Gordon con la collaborazione di Garry Bonner, caro amico e anch’esso membro dei The Magicians, un gruppo Rock & Roll con sede a New York. Il demo, che fu registrato con pochi mezzi, fu offerto e rifiutato da dozzine di musicisti, a causa del suono primitivo e della pessima resa sonora del nastro.

I Turtles, invece, si accorsero del potenziale di Happy Together, e dopo averla provata più volte dal vivo, visto l’ottimo ritorno da parte del pubblico, decisero d’inciderla come singolo. Mai intuizione si rilevò tanto azzeccata: oltre al considerevole riscontro commerciale, per la band, infatti, si aprirono le porte del successo, i Turtles vennero chiamati a esibirsi in diversi programmi TV, come The Ed Sullivan Show e The Smothers Brothers Show, la stampa iniziò a portarli in palmo di mano e quella hit, prima tanto sottovalutata, apparve in numerosi film e programmi tv, venne inserita nell’elenco delle canzoni del ventesimo secolo più eseguite negli Stati Uniti (cinque milioni di passaggi radio fino al 1999) e, nel 2007, entrò nella Grammy Hall of Fame.

Ciò che conta realmente, a prescindere da premi e riconoscimenti, è che Happy Together è una canzone bellissima, attraversata da un ingenuo romanticismo, un filo sdolcinata, forse, ma non tanto da offuscare l’immagine nitidissima di un grande amore e di due ragazzi che, solo stando insieme, possono dipingere l’esistenza coi colori della felicità: “Immagina me e te, io lo faccio, Ti penso giorno e notte, è giusto così, Pensare alla ragazza che ami e tenerla stretta, Così felici insieme”; e ancora: “Non riesco a vedermi amare nessuno tranne te, Per tutta la mia vita. Quando sarai con me, piccola, i cieli saranno azzurri. Per tutta la mia vita”.

Ultima annotazione di colore: quando Happy Together entra in classifica, la prima piazza è saldamente occupata da Penny Lane dei Beatles. Passano solo pochi giorni, e i Fab Four vengono scalzati dalla vetta da sei ragazzotti americani, che si ritrovano catapultati, di punto in bianco, nella leggenda.  




Blackswan, giovedì 03/03/2022

martedì 1 marzo 2022

SPOON - LUCIFER ON THE SOFA (Matador, 2022)

 


Abbiamo dovuto aspettare ben cinque anni per un nuovo album dei texani Spoon, dal momento che il loro ultimo disco, Hot Thoughts, risale al lontano 2017. Quell’album, assai ambizioso, cerebrale e strutturalmente meno immediato, era una sorta di puzzle sonoro, all’apparenza confuso, in realtà molto efficace alla distanza, tanto da suonare come un episodio, si anomalo, ma comunque incredibilmente spassoso.

Con il nuovo Lucifer On The Sofa, la band mette, invece, in atto una giravolta, si stacca decisamente da quel suono e imbocca la direzione opposta, alla ricerca di un’espressività più immediata e di un approccio alla canzone quasi “live”, nonostante abbiano iniziato a lavorare su questo materiale fin dal 2018.

Un disco, Lucifer, che ha visto per la band texana anche il ritorno a casa, ad Austin, dove, per la prima volta da Gimme Fiction del 2005, gli Spoon hanno registrato tutta la scaletta, utilizzando lo studio Public Hi-Fi di proprietà del batterista Jim Eno, e avvalendosi dei servigi del produttore dei Queens Of The Stone Age, Mark Rankin, e del poliedrico Dave Fridmann, che aveva messo anche mano al precedente Hot Thoughts.

Che gli Spoon siano in formissima, rigenerati dal lungo iato e galvanizzati da un’inclinazione più decisamente rockista, lo si capisce fin dall’opener Held, non una canzone originale, ma una cover di un pezzo datato 1999, a firma Bill Callahan, alias Smog. Un brano cadenzato e graffiante, riletto senza stravolgere l’originale, ma suonato come fosse la chiave di lettura per interpretare il suono che attraversa l’intero disco, e cioè quello di una band che si è scrollata di dosso la polvere della lunga inattività, ritrovando nel rock l’energia che da sempre fa vibrare le loro performance live. Un approccio molto classico, se vogliamo, che arriva immediatamente al centro del bersaglio e che strattona l’ascoltatore con una tripletta iniziale da urlo: la citata Held, il primo singolo, The Hardest Cut, e la funkeggiante The Devil & Mr. Jones, che ammicca addirittura ai Rolling Stones.

Un taglio sonoro, quello che permea Lucifer, che spesso strizza l’occhio agli anni ’70, facendo convivere all’interno della stessa scaletta le chitarre vibranti di On The Radio, il pianoforte della bellissima Satellite o il potenziale radiofonico di Wild (a qualcuno torneranno in mente anche gli U2).

Uno degli elementi distintivi dei dischi degli Spoon è che sono sempre traboccanti di dettagli e sfumature che non possono essere visualizzate tutte nei primi ascolti, il che significa che ogni nuovo ascolto diventa più gratificante del precedente. Questo particolare è ancora più evidente in Lucifer, un disco di cui, almeno all’inizio, non si riesce a cogliere il tessuto connettivo che lega i singoli brani, salvo, poi, quando i punti di forza più profondi divengono evidenti, rendersi conto di essere di fronte a un'eccezionale raccolta di canzoni, coerenti per estetica e sostanza. Insomma, gli Spoon non sbagliano un colpo, riuscendo ogni volta a reinventarsi senza inventare nulla, a mantenere immediatamente riconoscibile il proprio stile, spostando di poco le coordinate sonore, così da risultare sempre tanto famigliari quanto brillanti.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, martedì 01/03/2022