Se
vi mettete all’ascolto di questo disco, sappiate che vi aspetta un
viaggio lungo e impervio, alla fine del quale potreste rimanere
interdetti, oppure sedotti da un fascino inaspettato. Changeling,
che prende il nome dal progetto, si snoda lungo un percorso di svolte
brusche, di tornanti, di accelerazioni e di quiete, di ferocia belluina e
di melodie cullanti.
Tom
Geldschläger, il nocchiere della nave, ha vissuto molte vite musicali,
sia con il suo pseudonimo “Fountainhead", collaborando con artisti
acclamati come Obscura e Ingurgitating Oblivion, sia come performer e
ingegnere del suono.
E ora, con l’ensemble Changeling,
Geldschläger cerca di bilanciare in un’unica proposta il proprio credo
musicale, il death metal, con la volontà di sperimentare, attraverso lo
stile unico della sua chitarra fretless, esplorando (a)simmetrie
progressive e costruzioni orchestrali.
Per
realizzare quest’opera ambiziosa, ha chiamato a sè Morean (voce,
Alkaloid, Dark Fortress), Arran McSporran (basso fretless, Virvum,
Vipassi) e Mike Heller (batteria, Fear Factory), oltre a una cinquantina
di musicisti di diversa estrazione, compresa quella classica.
Ne
risulta un disco dalla forma mutevole, avventuroso e intriso di
virtuosismo, che guarda al passato, pescando dagli elementi distintivi
di un funambolico shred e dall’urgenza feroce del death, imboccando,
però, una traiettoria innovativa e indossando abiti progressivi in una
visione che urla, corre e scalcia, in un contesto, però, di accurato e
intelligente songwriting.
Così,
sebbene il progressive e il technical death metal inizino a definire i
primi brani, nella lunga scaletta, grazie a una visione più ragionata e
complessa, vengono introdotti ensemble d'archi giocosi ("Falling in
Circles"), partiture di oud che deformano il ritmo ("World? What
World?") e cori guidati dalle tabla ("Changeling").
Naturalmente,
la dissonanza eccessiva e gli avanguardismi possono spesso
rappresentare pesanti barriere al godimento a lungo termine, soprattutto
per chi predilige sonorità estreme tout court. E sebbene Changeling
punti molto sia sul carisma vocale eccentrico ed emotivo di Morean
("Abyss" e "Abdication" ospitano i momenti salienti), sia nelle
esplorazioni tonali aliene ("Cathexis Interlude"), il peso dei riff e la
potenza stupefacente delle anomalie fretless di Geldschläger ancorano
il disco a una magistrale abilità nella scrittura, in cui ogni idea è
elaborata con incisiva scaltrezza.
Nonostante
questa coesione generale perfettamente riuscita, ogni traccia del
disco, come accennato, introduce un nuovo elemento, che sia semplice
utilizzo degli ottoni ("World? What World?"), l'inseguimento di
percussioni traballanti ("Changeling"), o un’orchestrazione onirica
("Abdication").
Changeling non
è solo un’opera complessa, ma possiede anche un lungo minutaggio (dura
più di un’ora), circostanza che rende l’ascolto ancora più ostico. Ci
vuole tempo, ci vuole pazienza, ci vuole attenzione. Non tutti avranno
voglia di affrontare un simile viaggio sperimentale, in cui le asprezze
estreme del metal si intrecciano alle coordinate ingarbugliate di una
scrittura indifferente all’ovvio e alla prevedibilità. Chi avesse voglia
di avventurarsi, però, potrebbe rimanerne stregato. Vale la pena fare
un tentativo.
Nemo propheta in patria,
recita un antico brocardo ispirato al Vangelo di Luca. Una frase,
questa, che si adatta perfettamente alla parabola artistica dei Bush.
Formatasi a Londra nel 1992, la band capitanata dal vocalist Gavin
Rossdale, infatti, non è mai riuscita a sfondare nei confini della
nativa Inghilterra, mentre negli Stati Uniti il loro album d’esordio, Sixteen Stone, nel giro di qualche mese, grazie al singolo Everything Zen,
che impazzava su MTV e nella programmazione di tutte le radio rock,
vendette un botto, tanto da trasformare la band da gruppo di nicchia a
fenomeno delle arene.
In
Gran Bretagna, invece, l’esordio dei Bush non supera la quarantaduesima
posizione in classifica e, oltretutto, è massacrato impietosamente
dalla critica. I motivi del fiasco inglese sono gli stessi che spingono Sixteen Stone
a un clamoroso successo negli States: il suono è troppo americano per
le orecchie degli ascoltatori albionici, a cui del post grunge, che
invece furoreggia in America, non può fregare di meno. La band, inoltre,
sembra un clone dei Nirvana, il cui suono è rielaborato, però, in
chiave più pop e radiofonica, mentre Gavin Rossdale, frontman tanto
bello e quanto sensuale, è poco credibile nei panni del nuovo martire
della musica alternativa, quantunque ce la metta tutta a esibire le
stigmate di un disperato nichilismo.
Necessita,
dunque, un cambio di rotta, un quid che dia credibilità al progetto
della band e possa conquistare anche il gusto degli ascoltatori inglesi.
La band, allora, arruola Steve Albini, che qualche anno prima aveva
prodotto anche In Utero dei Nirvana: se l’idea è quella di
clonare il sound che ha reso leggendari Kurt Cobain e soci, meglio
attingere alla fonte, e servirsi di chi, quel suono, ha contribuito a
forgiare.
Nel
corso della sua carriera musicale, poi, Albini si era guadagnato la
nomea di puritano sarcastico, il più accanito sostenitore dell'etica
fai-da-te e anti-corporativa del punk. Ovviamente, il fatto che abbia
scelto di lavorare con una band così palesemente derivativa fece
storcere il naso a molti, sebbene il produttore aveva sempre sostenuto
che avrebbe registrato "qualsiasi cazzone che entrasse dalla porta".
In buona sostanza, i Bush cercarono di comprarsi credibilità rimestando
nel torbido di una produzione che si sapeva sarebbe stata sporca e
cattiva.
Nasce così Razorblade Suitcase,
un disco che, al netto delle belle canzoni (e di belle canzoni ne
contiene qualcuna) suona cupo e drammatico, esattamente come sarebbe
suonato un nuovo disco dei Nirvana, band che resta la maggior fonte
d’ispirazione dei Bush.
La
scommessa, in un certo qual modo, è vinta: negli Stati Uniti il disco
balza al primo posto delle classifiche, ma vende meno del suo
predecessore, mentre in Inghilterra raggiunge addirittura la quarta
posizione, risultato mai più replicato dal gruppo londinese.
Nel caso in cui ci fossero dubbi sulle intenzioni della band, Razorblade Suitcase si apre con il suono di un cane ringhiante all'inizio di "Personal Holloway".
Tuttavia, nonostante tutta la sua crudezza esposta (sembra di essere
seduti nella sala prove insieme ai Bush) l'album è molto meno duro di
quello che si sarebbe potuto pensare. Mentre Sixteen Stone contiene brani aggressivi e dal ritmo più sostenuto come "Everything Zen" e "Machinehead", Razorblade Suitcase predilige un suono più lento e malinconico. In scaletta, ci sono solo tre veri e propri pezzi rock, "Personal Holloway", "Swallowed" (l'unica grande hit dell'album) e "History".
I restanti brani (ad eccezione di "Straight No Chaser", una ballata pop gemella della hit "Glycerine") tendono a crogiolarsi in inizi lenti e ariosi, voce e chitarre sommesse, ritmica altrettanto contenuta.
Se il pubblico apprezza, la critica non prede occasione per picchiare duro: Rolling Stone definì i Bush "i Bon Jovi del grunge" e Razorblade Suitcase il peggior album del 1996, mentre il celebre critico DeRogatis apostrofò le tredici canzoni in scaletta come “completamente insipide e senza vita”.
Poco
importa. La band continuò a fare concerti senza sosta, rimanendo in
tour per 14 mesi per promuovere l'album (incluse alcune date con i Jesus
Lizard come spalla). Uno sforzo immane che, però, diede i suoi frutti: Razorblade Suitcase vendette 6 milioni di copie solo negli Stati Uniti, e rese i Bush una delle rock band di maggior successo dell'epoca.
Sono
passati otto anni dall’omonimo album d’esordio dei Southern Avenue, un
tempo in cui la band ha affinato il proprio suono e reso sempre più
coeso l’affiatamento che lega i quattro membri della line up. Allora,
non è un caso intitolare il quarto album Family, con evidente
richiamo alla hit del 1979 a firma Sister Sledge. D’altra parte, il
quartetto originario di Memphis è composto dalle tre sorelle Jackson
(Tierinii alla voce solista, Tikyra alla voce/batteria e Ava alla
voce/violino) e dal marito di Tierinii, uno straordinario chitarrista di
origini israeliane, che non ha nulla da inviare ai migliori specialisti
del settore (Ori Naftaly).
Come
accennato, la band ha perfezionato nel tempo la sua proposta, che
ibrida soul, blues, funk, gospel e rock, attraverso album costantemente
di altissimo livello e da un lavoro ininterrotto in tournée, che ha
conquistato il pubblico con un filotto di concerti al cardiopalma.
Family è
inoltre il primo disco pubblicato su una nuova etichetta (i primi album
sono usciti per la Stax), l’iconica Alligator, nota per il suo
portafoglio di artisti blues e blues-rock, e per un approccio meno
convenzionale alla pubblicazione, che consente l’imparentamento fra
sonorità classiche e un tocco musicale più contemporaneo e audace.
Bastano
pochi secondi dell’iniziale "Long Is The Road" per comprendere la
caratura della band: r’n’b sanguigno, interplay fra le voci
perfettamente sincronizzato, ritornello scalciante e il lavoro alla sei
corde di Naftaly, uno che mastica il blues con un tocco acidulato di
rock.
Le canzoni di Family
sono all’insegna del groove e del ritornello trascinante e sono immerse
nei sentori untuosi del R&B di Memphis, anche quando giocano con il
funky in mid tempo, come nella vibrante "Upside" (con un assolo finale
di Naftaly scarno e pungente) o nella più carezzevole "Gotta Keep The
Love" (qui il tocco della chitarra strizza l’occhio al jazz).
In
"Sisters", le tre sorelle armonizzano le tre voci come solo tre sorelle
potrebbero fare, e la slide sotterranea e sinuosa di Naftali si
connette mentre il trio canta "And together we'll take the world", come se fosse la cosa più ovvia e realizzabile del mondo.
Quando, poi, parte "Flying" e la Tierinii urla "If I die, at least I'll die flying"
si apre lo scenario di un blues paludoso e tirato, con la chitarra e
l’organo a scavare sedimenti roots. Blues che ritorna, in chiave rock,
nel riff cattivo, crudo e ossessivo nelle torbide atmosfere bayou di
"Late Night Get Down".
E
se "Rum Boogie" arde e fiammeggia, trascinando con un groove
scalciante, la batteria militaresca che sostiene la chiusura di "We Are"
sembra rubata a "50 Ways to Leave Your Lover" di Paul Simon, prima che
il brano si innalzi in un turbinio funky rock, in cui il trio di voci si
fonde cantando "We are the music of the soul", per poi concludere a cappella con un esplosivo "We are healing". La musica come guarigione al male di vivere.
Funziona tutto in Family,
un disco dalla scrittura classica, ma dall’approccio contaminato, e
suonato con una maestria che lascia a bocca aperta. Le armonie vocali
delle sorelle, infatti, sono spontanee, organiche e evidentemente
influenzate dalla loro educazione religiosa, i comprimari (tra cui
Luther Dickinson dei North Mississippi Allstars) interpretano alla
perfezione il mood scalpitante del disco e Naftaly è un chitarrista coi
fiocchi che, senza strafare, si mette al servizio delle canzoni per
metterne in luce la vera anima. Pochi tocchi, ma tutti decisivi.
E’,
però, la cantante solista Tierinii il punto focale dei Southern Avenue:
la sua voce, grintosa e sicura, sostiene e insuffla di energia la
musica, sprigionando scintille, che spesso divampano in incendi emotivi
impossibili da spegnere.
L’omonimo
album d’esordio dei Korn (1994) è un’opera seminale, una sorta di
Bibbia del nascente movimento nu metal, un disco per molti versi
sperimentale (i riff atonali, l’uso dello scat, il suono delle
cornamuse, etc.) eppure feroce come pochi. Un disco che si distingue per
la furia incontaminata (e di portata intergenerazionale, visto che è uno dei
dischi metal più amati dai Millennial) e per la cruda espressività
vocale del suo leader, Jonathan Davis, un ragazzo irrequieto e
tormentato, capace di mettere a nudo, senza filtri, la sua depressione
cronica, il dolore per i reiterati soprusi e maltrattamenti subiti
durante l’infanzia, e il suo rapporto pericoloso con droghe e alcool.
"Blind",
la traccia che apre il disco, tratta proprio dei problemi di Davis con
la dipendenza da sostanze psicotrope (soprattutto anfetamine) e di come
si sentisse spaesato quando era sotto l'effetto di queste sostanze. Una
canzone che Davis dice essere stata facile da scrivere perché aveva
tutta la sua esperienza di vita da cui attingere (e fa sorridere che la
sua esperienza di vita si limitasse ai 22 anni). Un testo
contraddittorio, in cui il giovane singer comprende benissimo i danni
della droga, sente la paura di poter morire, e vede l’abisso che si apre
d’innanzi ai suoi piedi. Se da un lato, però, si percepisce la volontà
del cantante di reagire, dall’altro, si respira l’odore acre di una
rassegnazione senza speranza.
"Quanto in profondità posso andare nel terreno in cui giaccio
Se non trovo un modo per setacciare il grigio che annebbia la mia mente
Questa volta guardo per vedere cosa c'è tra le righe
Vedo, vedo, sto diventando cieco
Sono cieco!"
Passerà
del tempo, poi, prima che Davis riuscirà a uscire dall’incubo della
dipendenza (andrà anche in riabilitazione per abuso di Xanax), e questo
avverrà solo nel 1998, quando il figlio primogenito Nathan si spaventerà
a morte dopo averlo visto barcollare a causa dell’alcool.
"Blind",
nel tempo, è diventata una delle canzoni più amate dai fan dei Korn, e quando uscì, essendo stata pubblicata come primo singolo, contribuì al
successo dell’album, che vendette oltre due milioni di copie solo negli
Stati Uniti.
La
canzone fu concepita qualche anno prima, quando Jonathan Davis militava
in una band chiamata SexArt. Successivamente, durante le registrazioni
dell’esordio dei Korn, l’ha recuperata, ne ha modificate alcune parti,
ma ha mantenuto invariati molti degli elementi, tra cui il celebre
incipit "Are you ready?", uno dei più iconici della storia del
metal. Dopo che i Korn hanno pubblicato il loro album, due dei compagni
di band di Davis nei SexArt, Ryan Shuck e Dennis Shinn, hanno intentato
un'azione legale nei confronti della band, sostenendo di aver
contribuito a scrivere buona parte di "Blind". Di conseguenza, vennero
aggiunti alla traccia come autori insieme ai cinque membri dei Korn. I
rapporti tra i due musicisti e Davis rimasero, comunque, buoni, tanto
che, nel 1997, la band di Shuck, gli Orgy, è diventata la prima in
assoluto a firmare per la casa discografica fondata dai Korn, la
Elementree Records, ottenendo un buon successo con la loro cover di
"Blue Monday" dei New Order.
Ammesso
che la definizione possa avere un senso, all’alba del nuovo millennio,
molte band vennero raggruppate sotto l’egida New Acoustic Movement, una
catalogazione un po’ forzata, in cui si fecero rientrare gruppi che
tornavano a mettere al centro del villaggio la strumentazione acustica.
Tra questi, alcuni notissimi come Coldplay, Starsialor e Kings Of
Convenience, altri destinati a imperitura nicchia come I Am Kloot e i
bravissimi Turin Brakes.
Il loro album di debutto, The Optimist LP
(2001) oltre a essere il manifesto di questa presunta corrente
musicale, ricevette ottime recensioni e fu candidato al Mercury Music
Prize. Da allora, questo quartetto britannico dal nome curioso (i freni
di Torino) ha dato vita a una produzione costante, anche se non ha mai
raggiunto i vertici delle classifiche, a parte aver conquistato la top
five con il singolo "Painkiller" nel 2003. Ciò nonostante, nel
tempo i Turin Brakes hanno comunque venduto oltre un milione di album
fisici, a dimostrazione della qualità costante del loro songwriting,
mantenuta alta nel corso degli anni.
Spacehopper,
che è il loro primo nuovo disco dopo oltre tre anni e il decimo album
in studio in totale, vede la band tornare ai Konk Studios, laddove
avevano registrato il citato album di debutto. Un scelta non banale,
quella di un gruppo che, arrivato alla tappa importante dei venticinque
anni di carriera, vuole mettere un punto fermo, ritrovare una
connessione con le proprie origini, fare un bilancio di gioie e
rimpianti, di cosa ha lascito in eredità e cosa, invece, è ancora
possibile in prospettiva futura.
Se
da un lato la proposta gruppo non si discosta molto da quello che i fan
di lunga data possono aspettarsi, quel connubio riuscito fra
delicatezze acustiche, brit pop, languori west coast e rock radiofonico
continua a suonare con una freschezza invidiabile, fuori dal tempo,
forse, ma sempre avvincente. E come sempre, i punti di forza sono le
melodie di immediata fruibilità e la voce, carezzevole e subito
riconoscibile, del leader Olly Knight.
L’iniziale
"The Message" rappresenta la quintessenza dei Turin Brakes, vademecum
su come costruire una perfetta canzone pop, resa scintillante da quelle
chitarre che sanno creare un magico equilibrio fra tensione e solare
leggerezza. Non è da meno la successiva "Pays To Be Paranoid", un brano
in cui la matrice brit, pop e rock, emerge prepotentemente, richiamando
alla memoria Verve e Oasis, grazie anche al lavoro eccellente di Gale
Paridjanian alla chitarra.
La
band sembra non aver perso un briciolo dell’ispirazione dei giorni
belli e dimostra di essere ancora capace di scrivere canzoni di presa
facilissima, senza mai scadere nel banale. La title track è scalpitante e
nostalgica al contempo, le chitarre che graffiano sono contemperate dal
più morbido abbraccio degli archi, "Almost" torna a un sound più
introspettivo, tra suggestioni americane e accenni di morbido gospel
(splendido il suono di chitarra di Paridjanian), "Lullaby" viene lambita
da polvere blues, mentre "Today" è la classica ballata Turin Brakes,
voce, melodia e archi a far battere forte il cuore.
Il
disco fila via che è un piacere, anche quando accelera il passo con il
pop luminoso di "Horizon", una macchina del tempo che porta indietro
fino all’esordio di venticinque anni fa, così come "Old Habits",
evidentemente ispirata a certo folk anni ’60.
Gli
ultimi tre brani in scaletta mantengono alto il livello d’ispirazione:
"Silence And Sirens" mostra evidenti stigmate brit pop (Starsailor),
"Lazy Bones" è un breve acquarello acustico a cui è bello abbandonarsi
chiudendo gli occhi, mentre la conclusiva "What’s Undermeath", oltre a
essere il brano più lungo dell’album coi suoi sei minuti e mezzo, si
avventura nel cuore del rock californiano, evocando attraverso il suono
della chitarra un mito come Neil Young.
Fin
troppo sottovalutati, talvolta ritenuti inoffensivi o marginali, i
Turin Brakes, pur destinati alla nicchia di pochi intenditori,
continuano il loro percorso musicale con un entusiasmo che commuove,
cesellando con cura artigianale canzoni, che non faranno la Storia con
la S maiuscola, ma che hanno scritto la piccola storia personale di
tanti fan ancora innamorati, dopo oltre cinque lustri.
Arrivano da Glasgow, si chiamano Cwfen (ma si pronuncia Coven), e debuttano con questo Sorrows,
un disco che si muove per aspri territori gothic doom, esplorati nello
ore che vanno dal crepuscolo alla notte fonda. Un esordio che colpisce
fin da subito per le atmosfere claustrofobiche e cupe, per quelle paure
ancestrali evocate da un’oscurità attraversata da incubi e da fantasmi,
nella quale non filtra mai un raggio di luce, e in cui è palpabile una
fremente tensione, solo a tratti mitigata dal gusto dolce amaro della
malinconia.
Un
dagherrotipo color seppia che fotografa una band già consapevole dei
propri mezzi, abile nel combinare il passo pesante del doom con diversi
elementi, come la sensuale spavalderia dei Type O Negative, lo stile
cinereo di Chelsea Wolfe o scorie post punk prese in prestito dagli anni
di gloria del genere. Riff pesanti, chitarre aspre, il cantato che
alterna voci pulite a screaming (la prova sublime della vocalist Agnes
Alder), e un mood che oscilla fra l’epico e il catacombale.
Il
disco si apre con "Fragment I", il primo dei tre brevi intermezzi
strumentali dallo stesso titolo che punteggiano la scaletta, seguita,
poi, dalla prima vera composizione, "Bodies", quasi sette minuti di doom
profondo e ansiogeno: riff ossianico, ipnotico e livido, attraversato
da brevi e lancinanti assolo e avvolto nella voce della Alder, il cui
timbro passa dell’etereo al salmodiante, prima di esplodere in un
luciferino screaming. Per contrasto, la successiva "Wolfsbane" accelera
il passo, il riff è dichiaratamente goth rock (una versione pesante dei
Sisters Of Mercy) e ancora una volta è la vocalist a prendersi la scena,
con una performance ipnotizzante, sia quando spinge la tensione a
livelli melodrammatici sia quando imposta il timbro da sacerdotessa
della notte, braccia levate al cielo a evocare un rito pagano.
E’ questo, senz’altro, uno dei punti di forza di Sorrows:
la voce. Agnes raggiunge un equilibrio perfetto tra la delicata
vulnerabilità espressa in molti testi e la sua capacità di esprimere una
rabbia tagliente quando l'umore lo richiede. Con un'abilità da
musicista navigata e una padronanza perfetta della tecnica, la voce
della Alder riesce sempre a trasmettere un'emozione straziante.
Non
immediatamente assimilabile, eppure egualmente accessibile, il disco
mostra i propri pregi ascolto dopo ascolto, soprattutto quando emerge la
capacità della band di muoversi su un canovaccio ben delineato, senza,
tuttavia, ripetersi, ma cercando per ogni brano qualche elemento
distintivo, messo in luce da una produzione che lascia trasparire gli
elementi più torbidi e scabrosi.
"Reliks"
è una bomba post punk, che innesca una bella melodia, prima di
esplodere in un climax disperato, "Whispers" fluttua dilatata tra sogno e
realtà, una ballata in cui le chitarre e il tappeto insistente dei
piatti accompagnano la voce della Alder tra estasi celestiale e
sprofondo emotivo, mentre inserti di screaming provenienti dell’al di là
sporcano l’ennesima melodia vincente. E se le dissonanze iniziali
spingono "Penance" in territori goth doom catacombali, in cui il canto
della vocalist si fa urlo belluino e poi mistica preghiera agli dei, la
bellezza selvaggia di "Embers" implode in una deflagrazione interiore di
doom, shoegaze e rabbiosa disperazione.
Chiudono
i tamburi battenti di "Rite", abrasiva deriva blackgaze che semina
terrore e colpisce in piena faccia, lasciando sulle labbra il sapore
metallico del sangue.
Sorrows è
l’esordio coi fiocchi di una band capace di sorpassare agilmente gli
elementi distintivi del doom melodico, grazie a uno sguardo curioso
attraverso il quale esplorare territori contigui, arricchendo così la
proposta. Che più ampia sarà in futuro, più renderà suggestivo e
appetibile un suono che, a ogni modo, già ci ha conquistato.
Multimilionaria
star del rap e acclamato attore, tanto cinematografico quanto
televisivo, il sessantaseienne Ice-T potrebbe godersi una ricca pensione
sotto il sole della sua Los Angeles. E invece, questo ragazzaccio, che
ha più polemiche alle spalle che capelli in testa, continua a tenere
viva la propria carriera attraverso i Body Count, il suo progetto più
ostico, militante, rabbioso e decisamente meno appetibile da un punto di
vista commerciale.
Dai
tempi di quella "Cop Killer" (1992), singolo che sollevò uno tsunami di
critiche, coinvolgendo addirittura l’allora Presidente degli Stati
Uniti, George Bush, il rapper californiano non ha smesso di stare sulle
barricate, di polemizzare con il potere, di professare il suo credo
antagonista senza mezze misure, a volte esagerando, ma sempre con
invidiabile coerenza.
Ultima
traccia dall’omonimo album d’esordio dei Body Count, "Cop Killer" venne
in mente a Ice-T quando, una mattina, entrando negli studi di
registrazione canticchiando "Psycho Killer" dei Talking Heads, qualcuno
gli suggerì di cambiare il verso del ritornello in "Cop Killer", un
titolo che esprimeva perfettamente la rabbia dei cittadini afroamericani
nei confronti della polizia. Da quell’estemporaneo suggerimento, il
rapper trovò l’abbrivio per una composizione che aveva in testa da
tempo, una canzone che dicesse senza mezzi termini ciò che il titolo
cristallizzava in due parole: uscire di casa, cercare un poliziotto e
ucciderlo.
Ice-T,
tuttavia, in seguito precisò il senso del brano, sostenendo che lui non
odiava i poliziotti, ma era arrabbiato solo con la polizia brutale. “Non ho mai odiato i poliziotti” disse durante un intervista a NPR “Quando
infrangevo la legge, i poliziotti erano i miei avversari, pensavo solo
di poterli superare in astuzia. Chiunque superi il limite di velocità
pensa di poter superare in astuzia i poliziotti. Cop Killer era una
canzone sulla polizia brutale…vivevo in un mondo in cui i poliziotti
strappavano le persone dalle loro auto e le picchiavano. Quindi ho
pensato, e se qualcuno si scatenasse contro i poliziotti brutali, come
ti sentiresti?"
Il
musicista losangelino, è storia nota, ha spesso avuto a che fare in
passato con le forze dell’ordine. Ice-T, infatti, ha fatto parte di gang
e ha commesso molti crimini in gioventù, finendo più di una volta nei
guai con la legge, ma attribuendo alla musica rap il merito di averlo
aiutato a fare "il mio primo passo nel mondo della legalità".
Sia quel che sia, quando la canzone venne pubblicata, si scatenò un putiferio.
Il
dipartimento della polizia del Texas, qualche mese dopo l’uscita del
singolo, chiese un boicottaggio nazionale di "Cop Killer", richiesta che
sollevò problemi di censura e generò infinite polemiche. La conseguente
attenzione mediatica portò le vendite di Body Count alle
stelle, altrimenti il disco sarebbe stato un mezzo flop. Infatti,
l'album era già uscito da tempo (31 marzo del 1992) quando scoppiò la
bagarre (per la precisione il 10 giugno dello stesso anno), e le
polemiche contribuirono a un inaspettato successo commerciale. Il disco,
infatti fu certificato disco d'oro (500.000 copie vendute) il 4 agosto,
e il 15 agosto raggiunse il ventiseiesimo posto nella classifica degli
album. Nel numero del 20 agosto di Rolling Stone, poi, Ice-T è
addirittura apparso in copertina, indossando un'uniforme da poliziotto.
La
canzone fu messa in circolazione quando era passato circa un anno dalla
brutale aggressione ai danni del taxista Rodney King, un uomo di colore
disarmato, picchiato a sangue da quattro agenti bianchi della polizia
di Los Angeles. Quando il 29 aprile 1992, i poliziotti vennero assolti,
scoppiarono violente rivolte, e "Cop Killer" divenne una sorta
di inno dei manifestanti, espressione di rabbia nei confronti di un
sistema che protegge la polizia razzista a discapito di persone di
colore colpevoli solo di aver incrociato la sua strada.
Ice-T
divenne, così, parte della storia e si dimostrò un interlocutore di
sostanza durante il dibattitto pubblico. In numerose interviste, spiegò
cosa significasse vivere come un uomo di colore nel centro di Los
Angeles, dove la polizia veniva percepita come il nemico. Nonostante i
numerosi precedenti, il rapper era anche un veterano dell'esercito (ha
prestato servizio per quattro anni) e si era sempre tenuto lontano dalla
droga, presentandosi così all’opinione pubblica come parte coinvolta
credibile e di indiscussa esperienza. A dimostrazione della sua buona
fede, il 28 luglio del 1992, Ice-T chiese alla Warner di rimuovere la
canzone dall'album, sostenendo che non voleva apparire come se stesse
cercando di trarne profitto. L'etichetta acconsentì, sostituendola con
un brano intitolato "Freedom of Speech".
Come
già accennato, le polemiche intorno alla canzone coinvolsero anche
l’allora Presidente degli Stati Uniti, George H. W. Bush, che stava
facendo una campagna per le imminenti elezioni contro lo sfidante
democratico Bill Clinton. Bush non menzionò mai Ice-T o la canzone per
nome, ma il 29 giugno 1992 disse: "Mi oppongo anche a coloro che
usano film o dischi o televisione o videogiochi per glorificare
l'uccisione di ufficiali delle forze dell'ordine. È da malati. Non mi
interessa quanto sia nobile il nome dell'azienda, è sbagliato per
qualsiasi azienda rilasciare documenti che approvino l'uccisione di
ufficiali delle forze dell'ordine".
E’ curioso che a partire dal 2000 Ice-T abbia recitato nella famosa serie tv della NBC Law & Order: Special Victims Unit
come detective della polizia. Ciò significa che otto anni dopo aver
scritto ed eseguito una famosa canzone sull'omicidio di un poliziotto,
ne interpretava uno in TV. E non era la prima volta: lo aveva già fatto
nel film New Jack City del 1991. Un anno prima del caos esploso con "Cop Killer".
Ci
sono fenomeni che non riuscirò mai a comprendere. Ad esempio, come sia
possibile che certe band dalla caratura artistica modesta, trovino così
tanto apprezzamento da parte della critica specializzata. Sarà forse
questione di hype, non so. Quel che certo che i Turnstile, a prescindere
dall’indubbio successo commerciale (basta dare un rapido ascolto a
questo Never Enough per comprenderne i motivi) ottengono sempre
giudizi accomodanti dalla maggior parte della stampa. Dimenticato
l’esordio di dieci anni fa improntato a un grintoso hardcore melodico,
la band ha fatto il botto con Glow On del 2021, un disco che ha
mietuto un gran successo commerciale sia negli States che nel Regno
Unito, traghettando la band da piccoli localini di periferia alle arene.
Gli
elementi vincenti della svolta sono stati la cadenza strascicata del
frontman Brendan Yates (una voce senz’altro suggestiva, ma priva di
consapevolezza tecnica), l'artificioso pop-punk da fratellanza (bella
zio!), l'uso ostentato di groove prevedibili e hook melodici un po’
puerili ma di grande resa, componenti, queste, tutte presenti anche in
questo Never Enough.
Ora,
il tema non è chiedersi se i Turnstile siano ancora una band hardcore o
meno. A modesto parere di chi scrive contaminare il suono, arricchirlo e
cercare nuove forme espressive è cosa buona e giusta. Il problema è
semmai come lo si fa.
Never Enough
è un disco furbissimo, mainstream in modo sfrontato, seppur arrangiato
con grande intelligenza. Tuttavia, proprio perché rivolto a un pubblico
(semi) generalista, ci troviamo ad ascoltare canzoni che puntano
all’acchiappo immediato, sacrificando però ardore, passione e
creatività. Se dovessimo dare un giudizio considerando esclusivamente la
fruibilità della proposta, saremmo largamente indulgenti: il disco è
divertente, orecchiabile, e la melodia blinda ogni singola canzone,
donandole immediata fruibilità. Tuttavia, chi ha qualche anno in più e
nella propria vita ha ascoltato un po’ di musica, comprende
immediatamente come la proposta ci metta pochissimo a mostrare la corda.
Parte
la title track coi suoi bei tastieroni ariosi e una leccata melodica
smaliziata, ma quando, poco dopo, entrano le chitarre a fare muro, ci si
domanda come sia possibile per chi proviene dall’hardcore tirar fuori
un suono così educato. La successiva "Sole"vorrebbe mostrare i
muscoli, ma sono muscoli da palestra, non certo quelli forgiati nei
vicoli di una lurida periferia, e il riff è così scontato che anche la
bella intuizione di inserire dei synth roboanti sul finale, non riesce a
placare la sensazione di deja vu.
"I
Care" si gioca la carta della melodia tirando fuori un giro di chitarra
che rimanda gli Smiths più pop, e l’effetto è piacevole, nonostante la
voce di Brendan Yates, a cui qualche lezione di canto farebbe comodo.
Funziona bene anche il pop punk di "Dreaming", in cui gli inserti di
tromba tirano la band fuori dall’impaccio di una certa ripetitività di
fondo.
Arrivati a metà disco, si ha la sensazione che se con Glow On
i Turnstile avevano preso l'energia, l'aggressività e il carisma del
punk, trasformandoli in un panino kebap no cipolla e salsa piccante, con
Never Enogh abbiano aggiunto anche una cospicua dose di
maionese, per attenuare ulteriormente la veracità del sapore, strizzando
così l’occhio al consumatore medio.
Molti
degli sforzi della band per accaparrarsi consensi si ritorcono contro
di loro, come nel dream pop apatico della deludente "Magic Man" o nel
canovaccio frusto di "Dull". Tuttavia, nelle rare occasioni in cui la
band si abbandona a divagazioni atmosferiche, si dimostra capace di
costruire ottimi soundscape. La coda estesa del pezzo forte dell'album
"Look Out For Me" o l'outro della citata "I Care" dimostrano che in
questi casi i Turnstile sono in grado di abbandonare la scrittura
lineare, suonando in modo eccellente. "Look Out For Me", in particolare,
mostra la potenza di una paziente costruzione strumentale per
sovvertire le aspettative e offrire una gratificazione a lenta
combustione come nessun ritornello orecchiabile al mondo potrebbe
vantare.
In
momenti come questi, quando la band smette di aggrapparsi all'ideale
elaborato e sterile del punk radiofonico che ha da tempo modellato entro
confini così spietatamente precisi, Never Enough sembra parlare di una band dal grande potenziale.
Questi
tiepidi surriscaldamenti richiedono una qualche forma di urgente
riconsiderazione. Il costante riferimento che la band fa all’hardcore
parlando di se stessa, ovviamente non ha più senso. Se questa è la
strada che hanno deciso di imboccare, e parrebbe di si, ben per loro, il
successo è senz’altro garantito. Se, tuttavia, al puro divertimento per
teenager alla festa di fine anno scolastico, volessero aggiungere
rilevanza creativa, occorrerebbe partire dalle cose buone di Never Enough e concentrarsi maggiormente sulla scrittura.
Detto
questo, il disco ascoltato in macchina in un pomeriggio di cazzeggio,
funziona abbastanza bene da meritarsi la sufficienza. Vedremo alla
prossima.
La
prima cosa che salta all’occhio è la copertina. C’è un elemento visivo,
forse casuale, forse no, che ricollega il debutto sulla lunga distanza
di Annahstasia con un altro eccezionale disco d’esordio, quello di Tracy
Chapman, risalente al 1988. Una foto semplice ma icastica, il volto in
primo piano, la stessa pettinatura riccia. La foto che ritrae la
Chapman, però, è sgranata, il volto della songwriter è rivolto verso il
basso, come a voler schermire un’anima fragile e a suggerire timidezza,
umiltà e una certa ritrosia verso una medianicità che non le appartiene.
Lo sguardo di Annahstasia, invece, è fisso sull’ascoltatore, è languido
e sensuale, leggermente imbronciato, ma consapevole del momento.
Due
esordi lontanissimi nel tempo, due epoche diverse, e un modo diverso di
approcciarsi alla propria musica, al proprio pubblico. La Chapman è
spaesata, sembra capitata per caso in un mondo che non le appartiene.
Annahstasia è figlia dei suoi tempi, una ragazza cresciuta nel mondo dei
social, che comprende quanto la comunicazione e l’immagine siano
necessarie per emergere, per avere successo.
Un
lungo preambolo reso necessario dal fatto che queste due straordinarie
artiste, separate dall’età e da epoche lontanissime tra loro,
condividono molto. In primo luogo, un timbro vocale simile (Annahstasia,
talvolta, per certe disperate profondità evoca anche Nina Simone) e un
approccio dimesso all’interpretazione, che resta comunque ricca di
sfumature. E poi, la passione per il folk, chiave di volta di entrambi i
dischi, declinato dalla Chapman con una povertà quasi francescana, e da
Annahstasia attraverso arrangiamenti minimal ma raffinati, figli del
pensiero moderno dominante del less is more.
Annahstasia pubblica musica in piccole quantità fin dai tempi dell'università, e Tether
è il primo progetto sulla lunga distanza che raccoglie la sua visione
artistica entro confini ben delimitati. La sua musica accosta chitarra
folk, fraseggi soul, echi jazz e orchestrali in un melange sfumato ma
coeso, senza lasciare che un elemento della formula si sovrapponga
all'altro. In undici brani, Annahstasia dimostra come le dinamiche
morbide possano avere un peso reale quando la scrittura rimane chiara e
l’interpretazione è vivida, appassionata, vissuta.
La
maggior parte delle sessioni si è svolta con i musicisti chiusi in
un'unica stanza, in presa diretta, come si faceva una volta. Una scelta
di fine artigianato, in cui si percepisce l’ambiente circostante, in uno
spazio sospeso a metà fra lo studio di registrazione e le mura domestiche,
dando l’impressione che gli interventi in post produzione siano stati
del tutto marginali.
Se le liriche della Chapman si alternavano tra critica sociale e politica e pene d’amore, il titolo del disco di Annahstasia, Tether
(legare) allude alla connessione fra esseri umani. Le canzoni
riflettono su come desiderio, affetto e rispetto di sé leghino o rendano
complessi i rapporti e le persone: quanta libertà possiamo mantenere
per noi stessi pur continuando a prenderci cura gli uni degli altri?
La
sua scrittura è poetica, figurata, evita gli slogan e spesso affianca
due immagini semplici e lascia che sia l'ascoltatore a tracciarne il
collegamento, il che ben si adatta allo sviluppo paziente del disco.
La scaletta inizia con "Be Kind"
e il tempo sembra fermarsi, sospeso in un limbo che, nota dopo nota,
accumula malinconia, prima esitante, poi sempre più intensa. Chitarra,
organo e voce: adesso, il tempo fluttua con i fraseggi vocali, finché
una piccola sezione di fiati non entra e solleva il brano senza
disturbarne il quieto andamento.
Un arpeggio di chitarra e la voce calda e profonda di Annahstasia aprono "Villain",
che si arricchisce, lentamente, di un rullante spazzolato, morbidi
tocchi di piano elettrico e brevi frasi di tromba. Mentre gli accordi
ruotano, la voce della cantante cresce, sostenuta da un coro gospel,
evidenziando l’approccio fondamentale dell’album, che sottolinea i
cambiamenti emotivi attraverso cambiamenti di volume e consistenza,
piuttosto che affidandosi a drammatici ritornelli.
"Unrest"dispiega
tutta la sua emotività malinconica attraverso note di piano sgocciolate
e chitarra acustica, salvo poi arricchirsi di un vellutato
arrangiamento di fiati. Lo stesso mood lo si trova nella struggente "Take Gare Of Me",
uno dei brani più vicini all’estetica della Chapman, per quell’incedere
inizialmente quasi spoglio e per quella morsa malinconica che
attanaglia la gola, quando Annahstasia canta senza filtri la propria
fragilità, chiedendo sensibilità e attenzione.
Tether
eccelle perché si affida alla moderazione. Le scelte tecniche non sono
mai in competizione con la scrittura. Il respiro, il ronzio degli archi e
i piccoli cambi di tono rimangono udibili, a dimostrazione della
visione del disco secondo cui la cura si manifesta nei piccoli dettagli,
non nel volume puro.
In tal senso, un brano come "Overflow"
riesce a essere smaccatamente pop, tenendosi lontano da ogni
escamotage, puntando tutto sulla melodia e il perfetto equilibrio
sonoro, risaputo, forse ma efficacissimo. "Silk and Velvet"
spoglia ulteriormente la tavolozza. I graffi asciutti del violoncello
incontrano un singolo battito di cassa, lasciando spazio a un finale
quasi noise.
Piccole
variazioni, mai eclatanti, ma perfette per rendere l’ascolto sempre più
seducente. Ecco allora l’ossatura magra e la dolcezza carezzevole di "Satisfy Me" o le scosse elettriche di "Believer",
che mostrano un inaspettato graffio rock, ciò che potrebbe sembrare
un’anomalia, una foto fuori fuoco, e che invece compenetra perfettamente
il mood dell’album.
Con "All Is. Will Be. As It Was.",
entra in scena la poetessa Aja Monet. Accordi di pianoforte e una
chitarra strimpellata fluttuano attorno alle riflessioni parlate della
scrittrice, creando un’atmosfera che richiama quella di un locale
notturno nell’ora che precede la chiusura.
Il disco si conclude con "Slow", in duetto con Obongjayar (giovane campione dell’afrobeat): il tenore
granuloso di lui incontra l’estensione più bassa di Annahstasia in un
punto in cui convivono quiete e attrito. Quando le loro voci finalmente
si muovono all'unisono, il mix colpisce con forza proprio perché era
stato trattenuto per gran parte del brano e i brividi si sprecano.
Come
artista di origine nigeriana che lavora in una scena come quella di Los
Angeles, spesso divisa in categorie di genere, Annahstasia evita facili
schemi. Mischia le carte, crea connubi fra progressioni folk,
inflessioni soul e sottili partiture jazzy, in uno stile che serve le
canzoni piuttosto che qualsiasi strategia di marketing.
Tether
non pretende di reinventare queste tradizioni, ma dimostra, invece, che
chiarezza emotiva, qualità di scrittura e una voce distintiva e
sorprendente possono ancora toccare il cuore e dare l'impressione di
essere urgenti. Senza trucchi, senza eccessi, esponendo fragilità e
sincerità, cercando la catarsi e non lo sconvolgimento, usando il tocco
tenue del cesello e non lo stordente impatto glamour del graffito.
Se vuoi essere il mio amante, devi stare con i miei amici
(Devi stare con i miei amici)
Fai in modo che duri per sempre,
l'amicizia non finisce mai"
Un "Wannabe"
è un individuo che aspira a essere qualcun altro, in genere una
celebrità, e che, per far ciò, imita pedissequamente quella persona. Il
titolo ha ben poco a che fare con la canzone, a meno che non si
riferisca a colui che “vuole essere il mio amante”; tuttavia, è
un titolo accattivante, che cattura immediatamente l’attenzione ed è
facile da memorizzare. Il realtà, la canzone è un inno all’amicizia che
legava le Spice Girls, e il verso "L'amicizia non finisce mai" è
diventato sorta di mantra per la band, tanto da aver usato la frase in
un comunicato stampa quando Ginger Spice ha lasciato il gruppo.
Ma andiamo con ordine.
Le
Spice Girls si sono formate come alternativa femminile alle boy band,
che all'epoca erano molto in voga nel Regno Unito, e hanno trascorso
anni a sviluppare le loro affinità e a coltivare la loro immagine, prima
di invadere il mercato discografico. "Wannabe"è stato il
primo singolo pubblicato e un successo commerciale enorme e immediato,
dal momento che le personalità eccentriche delle cinque ragazze si sono
sposate magnificamente con il ritmo accattivante e sbarazzino della
canzone, creando un hype pazzesco.
E allora, qualche numero. Quando "Wannabe"è
stata pubblicata nel Regno Unito l'8 luglio 1996, ha superato anche le
più rosee aspettative, raggiungendo il primo posto il 27 luglio, dove è
rimasta per ben sette settimane. Seguì il dominio globale: nel gennaio
1997 la canzone è stata pubblicata negli Stati Uniti e a febbraio è
arrivata al primo posto. Ha raggiunto, poi, la vetta delle classifiche
in almeno altri dieci paesi, tra cui Australia, Canada, Israele, Paesi
Bassi, Norvegia, Svezia e Svizzera, aggiudicandosi il disco di platino
anche in Italia. A livello mondiale, questo è il singolo più venduto di
un gruppo tutto al femminile (per la cronaca, la band ha venduto in
carriera più di cento milioni di dischi).
La
canzone è stata scritta dalle Spice Girl insieme a Richard "Biff"
Stannard e al di lui collaboratore, Matt Rowe. Stannard aveva già
scritto una hit, "Steam", per gli East 17 e, dopo un incontro casuale
con Mel B., venne invitato dalla band a comporre alcune canzoni per il
loro album d’esordio (Spice). Nel corso di dieci giorni, lui e
Rowe hanno scritto sia "2 Become 1" (che sarebbe diventato il terzo
singolo), che, appunto, "Wannabe".La quale, tuttavia, nonostante gli
sforzi, non riusciva a suonare come avrebbero voluto. I due, coadiuvati
dalle cinque ragazze, lavorarono alacremente al brano, privandosi anche
del sonno, tanto che spesso si addormentavano nello studio di
registrazione. Stannard ricorda che una mattina, dopo aver dormito sul
pavimento, si svegliò, con un registratore vicino e un post-it lasciato
da Rowe che recitava:”Premi play!”. La canzone finalmente era perfetta.
Il
video, che venne realizzato dal regista svedese Johan Camitz, noto per
il suo lavoro negli spot pubblicitari, e che fu girato al St. Pancras
Midland Grand Hotel di Londra, andò in onda, prima che la canzone
venisse ufficialmente pubblicata nel Regno Unito, sulla rete via cavo
The Box, diventando il video più popolare della TV, e preparando il
terreno per il travolgente successo.
Un
successo così eclatante che, anni dopo, anche la scienza si occupò del
brano. "Wannabe", infatti, è stata definita il singolo di successo più
orecchiabile di sempre da uno studio scientifico del 2014 condotto dal
Manchester's Museum of Science and Industry. Il risultato è stato
ottenuto tramite un sondaggio online, attraverso il quale veniva chiesto
a dodicimila persone di nominare una canzone non appena l'avessero
riconosciuta. Vennero fatti ascoltare a caso più di 1.000 clip di brani
molto famosi, che, in media, venivano riconosciuti dopo cinque secondi
d’ascolto.
Il
tormentone delle Spice Girls, invece, venne riconosciuto in una media
di 2,29 secondi, davanti a "Mambo No 5 (A Little Bit Of)" di Lou Bega,
che venne riconosciuto in una media di 2,48 secondi, e "Eye of the
Tiger" dei Survivor in 2,62 secondi.