mercoledì 6 novembre 2019

BIG THIEF - TWO HANDS (4AD, 2019)

Difficile comprendere le logiche che regolano una bizzarria come quella attuata dai Big Thief, e cioè far uscire un disco a soli pochi mesi dall’altro. A maggio, infatti, vedeva la luce U.F.O.F., album celebratissimo dalla critica musicale e della cui bellezza ancora non si è spenta l’eco, mentre l’undici di ottobre, davvero inaspettatamente, la band newyorkese pubblica un secondo full lenght dal titolo Two Hnads.
Cosa può aver spinto il quartetto a questa operazione lontana da ogni logica commerciale, potrebbe essere oggetto di varie speculazioni, la prima delle quali, la più cinica, potrebbe essere che questo nuovo disco sia composto degli scarti residuati dalla precedente sessione di registrazione. In realtà, ovviamente, non è così, dal momento che fin dal primo ascolto ci si accorge di quanto queste nuove canzoni siano decisamente buone. Appare, quindi, di tutta evidenza che vi fosse da parte della band una certa urgenza creativa, la consapevolezza di vivere un momento particolarmente ispirato e la volontà, quindi, di sfruttarlo fino all’ultima nota. Battere il chiodo finché è caldo, soprattutto se il livello qualitativo delle composizioni è quello contenuto in questi due dischi, che potremmo definire quasi gemelli.
U.F.O.F. e Two Hands sono, in fin dei conti, i due rovesci della stessa medaglia, due lavori tra loro speculari, uno il contraltare dell’altro e, proprio per questo, mi permetto un’ulteriore riflessione, se avessero trovato posto in un doppio album, si sarebbe forse potuto apprezzare di più i legami e le differenze fra le due opere e il filo creativo che le lega.
Se è vero che la matrice folk è comune a entrambi dischi, appaiono fin dal primo ascolto tutte le differenze che ne marcano i diversi mood. U.F.O.F era un disco ostico e celebrale, privo di ganci melodici immediatamente assimilabili, attraversato a tratti da un inquietudine ultraterrena e adombrato da un lirismo quasi crepuscolare. Per converso, Two Hands, è invece un disco più terreno e concreto, meno astratto e intellettuale, più centrato da un punto di vista melodico e segnato da un elemento contemplativo quasi bucolico.
L’approccio resta scarno, essenziale, e le canzoni sono attraversate da un’immediatezza lo-fi e sostenute da arrangiamenti improntati alla regola “less is more”. Eppure, nonostante un tiro più diretto e un’ossatura più semplice, i dieci brani in scaletta non perdono un briciolo della fascinazione che animava il loro predecessore.
L’evanescenza cantilenante di Rock And Sing apre il disco tra morbidi languori che evaporano nel mid tempo caracollante della successiva Forgotten Eye, la voce tremante di Adrianne Lenker, la straniante melodia del ritornello, Dylan sottotraccia e moderni abiti indie, a dimostrazione di come una materia antica posso essere riletta con un inusitato spirito innovativo.
Se è vero, poi, che in scaletta prevalgono le ballate (le nebbie ipnagogiche della conclusiva Cut My Hair, la lenta e trasognata The Toy, il folk in purezza dell’acustica Wolf), il disco possiede però anche un cuore elettrico che pulsa a metà dell’album, con le atmosfere ruvide e graffianti della trascinante Shoulders e con la splendida Not, dalla cadenzata melodia trasfigurata di rabbia in un vibrante crescendo e presa a sportellate noise da un drammatico assolo di chitarra che incendia il finale di canzone.
Two Hands, dunque, non è solo l’ennesimo capitolo di una discografia senza pecche e la scommessa vinta da parte di una band capace di sfornare due grandi dischi nel giro di pochissimi mesi; ciò che davvero è rilevante, quando si parla di Big Thief, è soprattutto la capacità della band di rileggere il passato con lo sguardo rivolto al futuro e di raccontare vecchie storie rendendole nuovamente affascinanti. In circolazione, c’è poca gente capace di tanta ispirata intelligenza e un po' fa male sapere che questo gioiellino sarà, come sempre, patrimonio di pochi appassionati. Perché, non me ne vogliano i puristi, il destino di sopravvivenza di un certo suono americano passa anche, e forse soprattutto, da queste parti.

VOTO: 8





Blackswan, mecoledì 06/11/2019

martedì 5 novembre 2019

PREVIEW



Dopo aver pubblicato l’acclamato brano “Can The Sub_Bass Speak?” gli Algiers torneranno nel 2020 con il terzo album, There Is No Year, in uscita il 17 gennaio su Matador Records. Il quartetto di Atlanta condivide oggi il video di “Dispossession”, primo singolo estratto dal nuovo album, trasmesso questa mattina in anteprima da John Richards nel suo programma ‘The Morning Show’ su KEXP.
Sotto la direzione dei produttori Randall Dunn [Sunn O))), Earth] e Ben Greenberg [Zs, Uniform (presente nella terza stagione di Twin Peaks)], There Is No Year è caratterizzato da un R&B post-punk che guarda al future con il cuore intrappolato ad Atlanta, dove iniziarono. Si passa dai paesaggi industrial di Scott Walker del periodo 4AD o il periodo berlinese di Iggy & Bowie, a qualcosa che potrebbe essere il figlio sintetico di Marvin Gaye e Fever Ray.
L’album è stato registrato nel corso dell’ultimo anno a New York dagli amici di infanzia Franklin James Fisher, Ryan Mahan e Lee Tesche, originari di Atlanta, e dal batterista Matt Tong, ed è stato prodotto da Randall Dunn [Sunn O))), Earth] e Ben Greenberg [Zs, Uniform].
Chi conosce gli ideali di questo autentico quartetto troverà che la direzione presa in There Is No Year sia qualcosa di nuovo e senza precedenti. Arrivato dopo due anni di tour non-stop in tutto il mondo a supporto dell’acclamato secondo album The Underside Of Power  - in cui gli Algiers hanno suonato anche in Europa centrale e dell’Est, negli stati baltici e i balcani dove si sono costruiti un seguito molto forte; hanno aperto i concerti dei Depeche Mode suonando in stadi dalla capienza di 75.000 persone come l’ Olympiastadion di Berlino; e hanno  partecipato al Glastonbury 2019 -  There Is No Year  fortifica il suono soul carico di doom che li ha caratterizzati sin dall’inizio, espandendosi inoltre verso nuovi territori, gli stessi che il chitarrista Lee Tesche descrive come “un’era differente.”
Il brano “Dispossession” cattura il lato più espansivo e orientato al future degli Algiers e vede come ospite alla voce Mourning [A] BLKstar di Cleveland. Il video è stato girato nella comunità di Noisy-le-Grand nei sobborgi a est di Parigi, tra monumenti architettonici moderni come Le Palacio d’Abraxas e Les Arènes de Picasso, e include scene prese dalla visita della band ad Algeri durante le rivolte nel marzo 2019.
“Lo spettro dell’espropriazione tormenta tutti noi,” afferma il pluristrumentista Ryan Mahan. “Ovunque l’imperialismo reprime le storie macabre del nostro passato, presente e futuro. I testi di Franklin in ‘Dispossession’ e nel nostro nuovo album ‘There Is No Year’, come un romanzo neo-Southern Gothic con un sottofondo di anti-oppressione, testimoniano questo orrore moderno e raccontano i vari modi in cui tutti noi – vivendo e desiderando – sopportiamo e resistiamo a suoi continui attacchi.”
“Tra l’urgenza del momento, “Dispossession” racconta gli avvertimenti riguardanti la guerra perenne contro l’oblio” afferma il regista del video Sohail Daulatzai. “Il video si apre nei luoghi dei massacri coloniali algerini, si muove verso gli spazi repressi delle banlieue e mostra scene dal Jardin d’Agronomie Tropicale – un parco che celebra le glorie dell’impero. Non si tratta solo del passato o di Parigi ma di tutti I luoghi in cui le bandiere dell’ovest sventolano, dove i monumenti della nostra rovina vengono eretti – promemoria della violenza in atto, delle tensioni tra i sogni e lo scontento, passato e presente, loro e noi. Volevo dare una risonanza visiva a queste tensioni, ai nostri atteggiamenti dignitosi  in mezzo alla follia e alle nostre memorie di un futuro preannunciato.”
Gli Algiers sono nati a Londra nel 2012 grazie a Fisher, Mahan e Tesche, tre amici di Atlanta che suonavano insieme sin dall’infanzia. La band ha poi ingaggiato il batterista Matt Tong (ex Bloc Party) e ha firmato con la Matador nel 2014. Da allora hanno suonato in tutto il mondo e hanno pubblicato due acclamati album, il debutto omonimo del 2015  e il secondo disco del 2017 intitolato The Underside of Power.
Da febbraio gli Algiers partiranno per il loro tour in supporto a There Is No Year e passeranno dall’Italia per due imperdibili date: 26 febbraio al Monk di Roma e il 27 febbraio al Circolo Ohibò di Milano. Per maggiori informazioni sul tour, visita: http://algierstheband.com/.





Blackswan, martedì 05/11/2019

lunedì 4 novembre 2019

GOSPELBEACH - LET IT BURN (Alive Records, 2019)

I GospelbeacH non danno mai fregature e chi segue la band fin dall’esordio sa con certezza che ogni disco, per quanto prevedibile, non sarà mai un brutto disco,
Let It Burn, terzo full lenght della band, è, se possibile, ancora più bello dei precedenti, anche se le frizzanti melodie di cui si compongono le dieci canzoni in scaletta, oggi sono inevitabilmente intrecciate a un filo di tristezza per la morte di Neil Casal, il chitarrista deceduto il 26 agosto scorso.  E non è un caso che la sei corde di Casal sia una delle spezie più saporite di questi brani molto genuini e diretti, baciati dal sole in California e attraversati da un eccitante senso per la melodia, che scorre da una canzone all’altra per quaranta minuti di ascolto decisamente accattivante.
Non c’è nulla di nuovo nella musica dei GospelbeacH, e tutte queste canzoni trasmettono un sentimento di famigliarità a chiunque abbia masticato appena un po' la musica americana concepita nel secolo scorso. Ecco, allora, che l’ascolto del disco evoca il nome di Tom Petty, quello dei Byrds, di John Mellecamp e dei Fastball, e magari anche quello dei Beatles, riletti, ovviamente, in chiave americanista come spesso accadeva ai Jayhawks.
Tuttavia, anche se le fonti di ispirazione sono palesi, è altrettanto evidente che la band capitanata da Brent Rademaker non copia nulla, semmai attinge allo stesso spirito e alla stessa atmosfera, creando non una replica ma un omaggio a quei leggendari artisti. Ne deriva, dunque, che anche se queste canzoni le abbiamo già ascoltate in anni diversi, da decenni a questa parte, tutto risulta comunque fresco e divertito, anche perché il songwriting è di ottimo livello e la band dà sempre l’impressione di suonare in studio come dal vivo.
Bad Habits apre il disco con una melodia morbida e zuccherina, scompigliata, poi, da una coda tortuosa e da un assolo lungo e lunatico di Casal: un concentrato di emozioni che da solo alza il livello emozionale del disco. La successiva Dark Angel è un singolo di facile presa, che palesa nel dna il codice genetico di Tom Petty e i suoi Heartbraker, lo stesso della più morbida Good Kid, mentre I’m So High possiede fattezze ed esuberanza rock, ma conquista soprattutto con una godibilissima melodia pop.
Tra gli high light del disco, giusto citare anche la conclusiva title track, il cui retrogusto al miele ricorda alcune cose dei Fleetwood Mac anni ’80, e soprattutto Get It Back, la migliore del lotto, che nasconde un’anima soul e indossa sgargianti abiti pop, che portano con la mente e le orecchie ai Jayhawks e, perché no, ai fab four.
I GospelbeacH, in definitiva, allestiscono una scaletta di “nuove vecchie canzoni", ma riescono a essere comunque credibili, forse proprio perché non cercano mai di nascondere le proprie radici e la passione per la musica con cui sono cresciuti. Semplicemente la ripropongono, con gioia e con spensieratezza, come se suonassero sempre col sorriso sulle labbra, liberi da mode e condizionamenti. E’ musica risaputa, forse, ma è grande musica americana.

VOTO: 7,5





Blackswan, lunedì 04/11/2019

sabato 2 novembre 2019

PREVIEW



THE ORIELLES annunciano i dettagli del loro secondo album DISCO VOLADOR, in uscita il 28 febbraio su Heavenly Recordings. Guarda il video di “Come Down On Jupiter”.
Il primo brano estratto dall’album, “Come Down On Jupiter”, è accompagnato da un video meravigliosamente diretto da Rose Hendry e girato all’Arments Pie & Mash Shop di Kennington, Londra. Parlando del video, Rose ha detto: “Quando ho ascoltato la traccia la prima volta, sono stata immediatamente trasportata in una sorta di misterioso melodramma di un’altra epoca, con una forte dose di qualcosa di psichedelico. Questo è stato il mio punto di partenza, assieme a un’immagine del fotografo Ralph Gibson di una tazza di tè su un tavolo beige, immersa nella calda luce del sole con un cucchiaino di plastica appoggiato contro il bordo. Mi piaceva l’idea di incentrare il video attorno a un incidente con una tazza di tè – mi è sembrato drammatico – qualcosa di banale che diventa qualcosa di drammatico.”
Esme, bassista e cantante della band, afferma: “Come Down On Jupiter è tanto una canzone quanto una narrazione che fa da colonna sonora a un volo spaziale, passando dai minacciosi toni introduttivi del pianoforte ai canti stile Lizzie Mercier Descloux verso la fine.”
Disco Volador vede il quartetto spingere il loro orizzonte sonoro verso i suoi limiti estremi come viaggiatori astrali, facendo l’autostop sul passaggio melodico del celo per sfuggire al continuum spazio-temporale attraverso una limpida collezione di sinfonie pop-progressive.
“La sua interpretazione letterale dallo spagnolo significa ‘disco volante’ ma tutti sperimentano le cose diversamente. Disco Volador potrebbe essere un frisbee, un UFO, un nightclub alieno o come ti senti quando voli; ciò che accade fisicamente al tuo corpo o quel ronzio euforico di un grande party,” dice ancora Esme. “Ma è un album di fuga; se andassi nello spazio, potrei non tornare.”
Viaggiando attraverso la samba cinematografica, la disco dei ’70, funk, ritmi ballabili e persino nella acid house dei ’90, Disco Volador è pronto per lanciare The Orielles verso un’orbita superiore. Scritto e registrato in soli dodici mesi cattura lo slancio del momento successivo al loro brillante debutto Silver Dollar Moment.





Blackswan, sabato 02/11/2019

venerdì 1 novembre 2019

THE NIRO feat. GARY LUCAS - THE COMPLETE JEFF BUCKLEY AND GARY LUCAS SONGBOOK (Esordisco, 2019)

Chiedimi chi era Jeff Buckley e potrei raccontarti per ore quanto ho amato quel ragazzo dallo sguardo triste e dal cuore immenso, e quelle canzoni, che a ventidue anni dalla sua scomparsa, continuano a riempire le mie giornate di palpiti ed emozioni. Ultimo dei romantici, artista affamato di vita e di musica, tessitore di trame sonore scarne e sfilacciate, ma al contempo dense di drammaticità e tendenti all’assoluto spirituale grazie al timbro unico e all’estensione angelica di una voce impossibile, Buckley resta ancora oggi l’icona di un decennio e di un suono.
Protagonista suo malgrado di tanta letteratura musicale, a causa di quella parentela scomoda con un padre che non l’ha mai amato e per quel fato vigliacco che l’ha portato via a soli trent’anni, Jeff ha segnato gli anni ’90 con un solo, splendido, disco, Grace, condensato struggente di lirismo e tormento. Dopo la sua morte, un altro disco in studio, l’incompleto e altalenante Sketches (For My Sweetheart the Drunk), pubblicato nel 1998, e tutta una serie di live, alcuni davvero bellissimi, che hanno rinvigorito negli anni la leggenda dello sfortunato artista.
Oggi, Davide Combusti, in arte The Niro, e Gary Lucas, pirotecnico chitarrista e amico e collaboratore di Jeff, fanno un gran bel regalo ai tanti fan di Buckley pubblicando questo The Complete Jeff Buckley And Gary Lucas Songbook, ultimo tassello, in ordine di tempo, della ricostruzione filologica del repertorio del songwriter californiano. Le dodici canzoni contenute in questa raccolta erano state scritte tra il 1991 e il 1992 da Buckley e Lucas per la band di Gary, i Gods And Monsters, di cui Jeff era cantante. Il progetto, però, ebbe breve vita, e nonostante le canzoni, eseguite solo dal vivo, ebbero un ottimo riscontro da parte del pubblico, Jeff decise di lasciare il gruppo e proseguire in solitaria. Due di questi brani, Mojo Pin e Grace, finirono sull’album di debutto di Buckley, altre, invece, vennero pubblicate sulla raccolta Songs To No One, uscita nel 2002. A distanza di ventotto anni dalla genesi di quel progetto, The Niro e Gary Lucas hanno registrato l’intero songbook, includendo anche cinque canzoni mai realizzate prima.
È inevitabile, prima di inserire il cd nel lettore, avere delle riserve: come è possibile affrontare un mostro sacro come Buckley senza sfigurare? Dubbio lecito, ovviamente, ma che nello specifico viene fugato fin dal primo ascolto. Perché questo disco, ve lo dice un fan della prima ora, è un vero gioiello. Rispettosi, ma senza essere agiografici, The Niro e Lucas riportano alla luce “quel” suono riproponendolo con amorevole cura, ma hanno il grande merito di attualizzarlo e personalizzarlo, evitando così l’effetto copia carbone.
Lucas, non lo scopriamo certo ora, è uno dei chitarristi più tecnici ed eclettici in circolazione, e la percezione del suo tocco è immediata in tutti i passaggi del disco. La vera sorpresa del disco, però, è Davide Combusti, che veste gli “scomodi” panni di Jeff Buckley, regalandoci una prova che lascia letteralmente senza fiato. Davide possiede quell’estensione e, a tratti, anche il timbro di Jeff, ma dribbla la facile replica, riuscendo a personalizzare le interpretazioni, a fare sue anche quelle più note, senza così cadere nel tranello del copia incolla. Era questo, probabilmente, l’unico modo per far rivivere davvero canzoni così lontane nel tempo e dal nobile pedigree: creare una sovrapposizione di emozioni, quelle note, che tutti conosciamo, e queste, nuove di zecca, trasmesse da una voce che non imita, ma plasma con ardore.
Ecco allora che Mojo Pin e Grace, i brani più noti in scaletta, sono tutto tranne che cover, hanno un’anima nuova, e sono rese ancor più scintillanti da arrangiamenti che si scostano, e di molto, dall’originale. C’è molto altro, però, in scaletta, e tutto funziona magnificamente, a partire dalla sublime No One Must Find You Here, lunga, articolata e vibrante, per proseguire con la deflagrazione elettrica di Malign Fiesta o la leggerezza trasognata di In The Cantina, solo per citarne alcune.
Il risultato finale è un disco che, rispetto ad alcune pubblicazioni postume non particolarmente significative, ha invece qualcosa di nuovo e di importante da aggiungere alla storia artistica di Jeff Buckley. In queste dodici canzoni, infatti, troverete la nitida fotografia del songwriting di un musicista nel momento cruciale della sua esplosione creativa, e un omaggio a una musica immortale, attraversata ancora una volta dal soave respiro della “grazia”.

VOTO: 8





Blackswan, venerdì 01/11/2019