Il killer si prende qualche giorno di ferie. Ci rivediamo dopo il 5 agosto. Un augurio di buone vacanze a chi va, e di buona permanenza a chi resta.
Blackswan, martedì 23/07/2019
martedì 23 luglio 2019
lunedì 22 luglio 2019
H.E.A.T - LIVE AT SWEDEN ROCK FESTIVAL (earMusic, 2019)
Il
genere è di quelli che fanno storcere un po' il naso ai rocker duri e
puri. In quella definizione, melodic hard rock, infatti, c’è un melodic
di troppo, soprattutto per chi ama un suono più muscolare e selvaggio.
Eppure,
quella degli H.E.A.T. è un grande band, che dal vivo, come è facile
comprendere dall’ascolto di questo nuovo live, non fa sconti a nessuno e
possiede un tiro incredibile. Fondatisi nel 2007 a Upplands Vasby, in
Svezia, il gruppo ha all’attivo già un paio di Ep e cinque album in
studio, che hanno scalato le classifiche nazionali, piazzando molto in
alto un pugno di singoli, e facendo la gioia di un folto gruppo di
appassionati, che continuano ad amare un genere inossidabile, nonostante
abbia vissuto i suoi anni migliori qualche decennio fa.
Registrato
dal vivo il 7 giugno dello scorso anno, Live at Sweden Rock Festival
celebra i primi dieci anni di attività della band (l’esordio, H.E.A.T.
uscì nel 2008) con una scaletta che ripercorre i momenti migliori della
loro brillante carriera. L’armamentario è quello consueto del genere:
riff di chitarra potenti, tastieroni, coretti ruffianissimi e melodie
perfette per infiniti passaggi radio.
A
prescindere, però, dai clichè di genere, la band sa stare sul palco,
irrora di grinta e potenza canzoni che in studio suonano decisamente più
morbide e, cosa che non guasta suona alla grandissima, con consumato
mestiere, certo, ma anche con un impatto fisico devastante. Grande
performance di tutti e cinque, dunque, anche se sugli scudi finisce
soprattutto Erik Gronwall cantante dall’indole selvaggia e in possesso
di un’ugola dall’estensione impressionante.
Tredici
canzoni in scaletta che tirano dritte per più di un’ora di performance e
che alternano ballatone da singalaong e accendino alla mano (Tearing Down The Walls), fulminanti anthem (Heartbreaker) e adrenaliniche rincorse (Inferno). Il momento migliore del live è, guarda caso, anche il momento più decisamente ruvido: la hit Beg Beg Beg suonata in medley con Whole Lotta Rosie degli Ac/Dc e, udite udite, Piece Of My Heart di Janis Joplin.
Live goduriosissimo e molto meno melodico di quello che si potrebbe aspettare. Da provare.
VOTO: 7
Blackswan, lunedì 22/07/2019
sabato 20 luglio 2019
DYLAN LEBLANC - RENEGADE (Ato Records, 2019)
Non
abbiamo mai messo in dubbio le qualità di Dylan Leblanc come
songwriter; tuttavia, è fuor di dubbio, che la scelta di un grande
produttore, con cui lavorare in sintonia, ha finito per assecondare e
tirare fuori il meglio da un artista che sembra aver trovato finalmente
una decisa e più spiccata identità. Giunto al quarto disco in studio, il
primo dopo tre anni di silenzio, Leblanc si affida alle sapienti mani
di Dave Cobb, e il risultato si sente, eccome.
Quel mood morbido e atmosferico che aveva connotato i lavori precedenti subisce con Renegade
uno scossone, guadagnando in adrenalina, compattezza ed equilibrio.
Basta la prima canzone, per rendersi conto che qualcosa è cambiato: la title track,
tira via dritta, con un bel riff di chitarra, la ritmica tesa e umori
che rimandano al grande Tom Petty. E’ una canzone splendida, anche se i
fan della prima ora, probabilmente, si troveranno disorientati, perché
inusuale.
Certo, non tutto possiede il piglio e la forza di questo incipit. Ballate intense come Lone Rider e Magenta
richiamano inevitabilmente qualcosa che abbiamo già ascoltato nei
predecessori, anche se Cobb, comunque, è riuscito a rendere queste
canzoni introspettive assai ricche e vibranti da un punto di vista
sonoro. Un lavoro di impasti e di equilibri. Che si sente, eccome, in
brani come Bang Bang Bang (sullo scottante tema delle armi) e Damned
(qui si parla di religione), in cui funzione benissimo il contrasto tra
l’andamento rock delle canzoni e la voce di Leblanc, dolce e assonnata.
I suoni danno energia e spessore alla musica, il timbro di Dylan,
stempera e suggerisce fragilità.
Renegade
è un disco piacevole, radiofonico, con melodie di facile presa, certo,
ma non per questo banale o privo d’intensità e forza. Anzi. Poi, proprio
in chiusura, Dylan, pesca dal suo songbook un gioiellino, Honor Among Thieves,
classicissimo nelle sue orchestrazioni e compendio riuscito fra easy
listening e pathos, che consolida il giudizio positivo su un disco
davvero centrato. E diverso. Così, chi non ha famigliarità con
l’artista, può senz’altro iniziare da qui; i fan che, invece, lo seguono
dagli esordi dovranno abituare i padiglioni auricolari a un nuovo
corso, decisamente più eccitato ed eccitante di quello che conoscevano.
VOTO: 7
Blackswan, sabato 20/07/2019
venerdì 19 luglio 2019
PREVIEW
Iggy Pop annuncia oggi il suo nuovo album Free in uscita il 06 settembre su Loma Vista/Caroline International, distribuzione Universal. Seguito di Post Pop Depression del 2016, l’album della carriera di Iggy con la posizione più alta nelle classifiche, Free
non ha nulla in comune con il suo predecessore – o con qualsiasi altro
album del cantante americano. Riguardo al processo che ha portato Iggy e i musicisti principali Leron Thomas e Noveller a creare questo album cupo e contemplativo, Iggy afferma:
“Questo è un album dove altri artisti parlano per me, ma io presto la mia voce… Alla
fine del tour di Post Pop Depression, ero sicuro di essermi liberato
dal problema di insicurezza cronica che mi ha perseguitato per troppo
tempo. Ma mi sono anche sentito esausto. E ho sentito di
volermi mettere in ombra, girare le spalle e andarmene via. Volevo
essere libero. So che è un’illusione, e che la libertà è solo
qualcosa che senti tu, ma ho vissuto la mia vita fino ad ora con la
convinzione che quella sensazione è tutto ciò che vale la pena
inseguire; tutto ciò di cui hai bisogno – non per forza felicità e
amore, ma la sensazione di essere liberi. Questo album in qualche modo mi è capitato, e ho lasciato che accadesse.”
Blackswan, venerdì 19/07/2019
giovedì 18 luglio 2019
THE SOFT CAVALRY - THE SOFT CAVALRY (Bella Union, 2019)
Sotto
l’egida The Soft Cavalry si cela uno dei nomi più noti della scena
indipendente britannica. Lei, infatti, altri non è che Rachel Goswell,
mente pensante degli Slowdive, dei Mojave 3 e, dal 2015, anche del
supergruppo dei Minor Victories. Insieme al marito, Steve Clarke,
conosciuto nel 2014, quando costui faceva da tour manager proprio agli
Slowdive, ha dato vita a questo nuovo progetto, per l’etichetta Bella
Union di Simon Raymonde.
Un
disco che pur differenziandosi, per certi versi, da tutta la produzione
precedente della Goswell, in qualche modo ne rappresenta anche una
summa, in cui confluiscono, in un contesto ispirato e originale, echi di
dream pop, di folk e di rock. Canzoni pensate tempo fa da Clarke, dice
la cronaca, ma che hanno potuto trovare poi piena realizzazione solo
attraverso gli sforzi di questo connubio, amoroso e artistico, che ha
saputo plasmare una materia nota con nuove idee e brillanti intuizioni.
The
Soft Cavalry suona come un abbecedario sentimentale per anime
romantiche, è un disco di pop fluttuante a mezz’aria fra malinconici e
terreni languori, estatici barbagli di sole e spazi immensi su cui si
poggia la quiete della notte. Dodici tracce in cui convivono elettronica
e strumenti acustici, luce e penombra, intimismo e respiro universale,
tele colorate e fotogrammi in bianco e nero, dolcezza, passione e
pensieri dal retrogusto amarognolo.
Apre la scaletta lo sfarfallio trasognato di Dive, soave dream pop in purezza, a cui seguono le pose decadenti della superba Bulletproof, battito del cuore e sguardo languido sulla notte che evapora nelle prime luci dell’alba.
L’evanescenza ipnagogica di Passerby
suggerisce una dimensione atemporale, quasi trascendente, in cui tutto è
immateriale opalescenza. Un dormiveglia amniotico da cui ci si ridesta
sulle note di The Velvet Fog, gonfia di umori romantici che vengono risucchiati in una melodia discendente di accordi in minore.
Una visione crepuscolare che si dissolve nella successiva Never Be Without You,
pop leggiadro come un soffio di vento che lambisce distese colorate di
fiori sotto il sole di un’estate gentile. La successiva, acustica Only In Dreams, accarezzata da uno splendido flauto, evoca Talk To The Wind dei King Crimson e chiosa una prima parte di disco semplicemente perfetta.
Appena
un gradino sotto, le restanti sei canzoni, che restano comunque di un
livello notevole: su tutte il pop acustico della gioiosa The Light That
Shines On Everyone, il folk notturno e sgranato di Home, spazzato via da una repentina e rumorosa coda post rock e il minimalismo per spazi aperti della dolcissima Mountains.
Che
si tratti di un’uscita estemporanea o di un progetto a lungo termine
non è dato di sapere; quel che è certo è che i coniugi Goswell e Clarke
hanno trovato la formula per far convivere i rispettivi talenti in una
musica ispirata, dagli umori cangianti, densa di passione e formalmente
stratificata. Un minutaggio meno eccessivo (la durata è di quasi un’ora)
avrebbe forse dato maggior efficacia alla raccolta. Il risultato
finale, però, è talmente positivo, che è del tutto inutile cavillare
sulle sfumature.
VOTO: 7,5
Blackswan, giovedì 18/07/2019
mercoledì 17 luglio 2019
PREVIEW
Wage War annunciano il nuovo album PRESSURE, in uscita il 30 agosto su Fearless Records. Guarda il video di “Who I Am”.
“Abbiamo
passato innumerevoli ore, giorni e mesi nella prima metà dell’anno
perfezionando ogni dettaglio di questo album, ed è stato molto difficile
tenere tutto sotto controllo. Siamo lieti di avercela fatta,” dice la
band. “Abbiamo spinto tutti i confini che potevamo immaginare per
realizzare questo disco. Scegliere i brani da pubblicare prima
dell’album è sempre un compito difficile ma alla fine abbiamo scelto
‘Who I Am’. La canzone si tuffa nella realtà delle persone che
inevitabilmente ti guardano dall’alto al basso o sminuiscono le cose su
cui stai investendo o quello che cerchi di essere. A volte ci
dimentichiamo del fatto che siamo tutti esseri umani e proviamo tutti
emozioni e sofferenze.”
Riguardo
all’album, al suo titolo pungente e al concetto di ‘pressione’, la band
dichiara: “Ogni volta che fai un disco, c’è pressione. Quello che fai
in studio con quelle persone influisce sugli anni seguenti della tua
carriera e se giochi le tue carte nel modo giusto, può cambiarti la
vita. La pressione per creare l’album perfetto dei Wage War, l’album che
raccoglie ciò che i fan hanno imparato ad amare della nostra band,
continuando nello stesso tempo a crescere ed esplorare nuovi territori.”
“Tuttavia,”
prosegue, “questa non è l’unica pressione di cui parla l’album. Ci sono
canzoni che riguardano la salute mentale e la pressione di essere OK
anche quando le cose non lo sono. Ci sono canzoni che parlano di non
soccombere alla pressione e diventare solo un’altra faccia in mezzo alla
folla, ma fare un cambiamento in te stesso e nel mondo che ti circonda.
Essere in una band, creare musica, suonare concerto: tutto, in un modo o
nell’altro, è accompagnato da pressioni e il modo in cui le affronti è
ciò che determina quello che sei. Questo album è la nostra risposta.”
Blackswan, mercoledì 17/07/2019
martedì 16 luglio 2019
DEEP PURPLE - LIVE IN NEWCASTLE 2001 (earMusic, 2019)
I
Deep Purple in collaborazione con earMusic hanno lavorato a una Limited
Edition Series, che sarà composta da una selezione di rare performance
live prelevate dagli archivi della band e che si riferiscono alle ultime
due decadi di concerti tenuti dalla band inglese in giro per il mondo.
Ogni uscita sarà pubblicata a tiratura limitata e numerata, e cioè in
20.000 cd e 2.000 Lp, che saranno venduti fino a esaurimento scorte.
Questo il breve preambolo per presentare l’iniziativa, a cui,
ovviamente, segue la domanda: si sentiva davvero il bisogno di questa
operazione? E a meno che non siate dei fan pigliatutto, a chi giova
l’ennesimo live di una band, peraltro, colta negli anni della senescenza
artistica?
Dubbi
leciti, ci mancherebbe altro, ma che saranno fugati appena metterete
sul piatto questo live, tenutosi a Newcastle, Australia, la notte del 12
marzo del 2001. Perché, fidatevi del sottoscritto, siamo di fronte a un
live act a dir poco esplosivo. La formazione è quella di Mark VII,
e cioè Ian Gillan alla voce, Roger Glover al Basso, Jon Lord alle
tastiere (che l’anno dopo lascerà la band per motivi di salute), Ian
Paice alla batteria e Steve Morse alla chitarra. Il materiale contenuto
in questa nuova pubblicazione, giova precisarlo, aveva già visto la luce
in passato, e per la precisione nel 2003; la performance, però, è stata
sottoposta ad accurata rimasterizzazione e la qualità del suono è ora
perfetta. Questo l’aspetto meramente tecnico. Quel che conta
maggiormente, però, è che si tratta di un live fragoroso e potente, che
fotografa una band su di giri, pimpante, con trasuda voglia di
divertirsi e di non fare prigionieri. Tutti i cinque componenti sono
davvero in uno stato di forma incredibile, e in particolare Gillan, che
dispensa grinta, si esibisce nei leggendari acuti e gigioneggia col
pubblico con la straripante verve di un autentico mattatore.
In scaletta, alcuni brani tratti dei dischi più contigui al periodo del tour (Hey Cisco, Vavoom: Ted The Mechanic e Sometimes I Feel Like Screaming da Perpendicular del 1996), e quasi tutti i più grandi classici della band (dalla scaletta mancano, Space Truckin’, Strange Kind Of Woman e Child In Time).
Sono
tanti gli high lights di una serata pressoché perfetta: una Ted The
Mechanic addirittura tonitruante, con la band già caldissima dopo pochi
minuti, una scalpitante Black Night, i diciassette minuti travolgenti di Speed King in medley con Good Times, hit del rocker australiano Jimmy Barnes, presente sul palco a fianco del quintetto, una durissima, quasi rabbiosa, versione di Smoke On The Water,
nella quale Steve Morse (come faceva spesso), si diverte ad accennare
alcuni riff di classici del rock (anche se facilissimo, divertitivi a
indovinare le canzoni citate) prima di partire con l’anthem più celebre
di sempre, e un’incandescente Highway Star, posta in chiusura e resa ancor più cazzuta dalla presenza di Jimmy Barnes (ancora lui) e del chitarrista Ina Moss.
Un
live davvero imperdibile, quindi, che risponde alle domande poste a
inizio recensione: se il buongiorno si vede dal mattino e la qualità
della proposta è questa, earMusic e i Deep Purple ci stanno facendo un
regalone.
VOTO: 8
Blackswan, martedì 16/07/2019
lunedì 15 luglio 2019
PREVIEW
I Pumarosa tornano con un nuovo singolo intitolato “Fall Apart” disponibile ora su Fiction Records. Il seguito del debutto The Witch del 2017 si intitola Devastation e sarà disponibile dal 01 novembre.
Devastation è stato prodotto da John Congleton (St. Vincent, Swans). Durante la registrazione dell’album, la band è stata raggiunta da Justin Chancellor dei Tool, che dopo essere diventato fan all’epoca del debutto, ha prestato le sue doti al basso e il suo stile inimitabile.
Sin dalle prime note di “Fall Apart”, chiunque conosca i Pumarosa può
affermare che c’è stata un’evoluzione nel sound. Il veloce drum’n’bass
accompagnato da un riff tagliente e da una distesa di synth, rappresenta
un’evoluzione dal debutto The Witch dove le chitarre erano predominanti. Esplorando in profondità l’elettronica di Aphex Twin e Autechre, lo shock di “Fall Aparat” rispecchia il cambio irreversibile nel sound dei Pumarosa:
diagnosi devastanti, nuovi inizi e un ottimismo inusuale – la promessa
di ciò che può essere costruito solo dopo un periodo di totale
annientamento – il tutto racchiuso in un album che suona come una
dichiarazione di vita coinvolgente.
Blackswan, lunedì 15/07/2019
sabato 13 luglio 2019
ELI "PAPERBOY" REED - 99 CENT DREAMS (Yep Records, 2019)
Gli
anni più bui nella carriera di Eli “Paperboy” Reed sono stati quelli
che, per assurdo, dovevano rifulgere di abbagliante luce. Nel 2012,
infatti, Reed passò alla Warner, una major che gli avrebbero garantito
maggior visibilità e rilievo commerciale, e con la quale invece rilasciò
Nights Like This, lavoro ambizioso, certo, ma pasticciato, privo di autenticità e poco ispirato.
Un fiasco clamoroso, a cui Reed, nel 2016, fece ammenda firmando per la Yep Records e pubblicando un disco, My Way Home,
che fin dal titolo, chiariva l’intenzione dello “strillone” del
Massachusetts di tornare alla veracità degli esordi e a quel suono
vibrante e appassionato, con cui si era conquistato la fedeltà di molti
fan e parole lusinghiere della critica. Offelee fa el to meste, si dice a Milano: fai solo le cose che sai fare e non t’improvvisare esperto quando non hai le competenze.
Così, con 99 Cent Dreams,
Reed ribadisce qual è la sua tazza di the, e in veste meno garagista
del precedente, sforna l’ennesimo disco di soul sudista con vista Stax.
Una comfort zone, nella quale Reed si muove senza sbavature, con
proprietà di linguaggio e autorevolezza, e con la furbizia da consumato
mestierante che sa condurre in porto una scaletta di dodici canzoni
utilizzando solo il pilota automatico.
Il suono è come sempre molto vintage, tanto che 99 Cent Dreams
sembra essere stato scritto negli anni ’60 e non alla soglia del 2020, e
non è un caso che l’album sia stato registrato a Memphis, negli Studios
della Sun Records di Sam Phillips, certificazione, questa, di
autenticità e garanzia di qualità.
E
infatti, il disco è molto divertente: Reed ha una gran voce, il suono è
scintillante, le canzoni tutte piacevolissime, alcune addirittura molto
belle (gli struggimenti di In The End, il passo saltellante dell’irresistibile Bank Robber, la melodia ruffiana di Burn Me Up).
Rispetto a My Way Home,
però, manca incisività e gagliardia, e il disco resta sul piano delle
cose ben fatte, che si ascoltano volentieri, ma che non lasciano segni
duraturi. Per carità, non si tratta di una bocciatura, perché 99 Cent Dreams
regge diversi ascolti senza vacillare mai verso il crinale della noia
né dando mai l’impressione, nonostante il filologico citazionismo, di
trovarsi di fronte a un disco posticcio.
Tuttavia, da chi esordì con una bomba come Roll With You, ci si aspetta sempre qualcosa in più. Perché a Reed, su questo non ci piove, il talento non manca.
VOTO: 6,5
Blackswan, sabato 13/07/2019
venerdì 12 luglio 2019
PREVIEW
Il musicista di Nashville Jeremy Ivey è felice di annunciare il suo album d’esordio The Dream And The Dreamer, che sarà pubblicato il 13 settembre su ANTI-Records. “L’unico scopo del video era quello di riprendere degli scenari ridicoli e farli sembrare normali”, racconta Jeremy sul video del nuovo singolo “Diamonds Back To Coal”. “La quantità di notizie a cui abbiamo accesso ogni giorno è assurda, direi addirittura surreale. E il video vuole esserne uno specchio”.
Registrato in un “minuscolo studio in casa” a Nashville e prodotto dalla moglie di Jeremy Margo Price, l’album è una raccolta di nove tracce semplici e profondamente introspettive. Jeremy, sempre in pieno fermento creativo e ispirato da Beatles, Neil Young, Leonard Cohen e Bob Dylan, vorrebbe pubblicare un album all’anno.
Blackswan, venerdì 12/07/2019
giovedì 11 luglio 2019
BILL FAY - LIFE IS PEOPLE (Dead Oceans, 2012)
La
lentezza è sempre stata un valore, ma oggi, in quest’epoca di frenesia
tecnologica, è, probabilmente, il bene più prezioso di tutti. Viviamo in
una schizofrenica e inesauribile agitazione, i nostri giorni ci
sfuggono dalle dita, inconsapevolmente, come granelli di sabbia al
vento, e consumiamo e centrifughiamo ogni cosa come se fossimo rotative
perennemente in funzione e traessimo solo dal continuo movimento il
senso ultimo dell'esistenza. Tutto è veloce, nulla sta fermo. Anche la
musica: migliaia di dischi da scaricare nel lasso di tempo di un click,
fast food insapore che impoverisce l’arte e alimenta l’oblio.
Succede, poi, che scopri un disco come Life Is People
e quasi d'istinto, senti il bisogno di fermarti, metterti a sedere e
riflettere. Prendere tempo, ascoltare. Bill Fay è un grande cantautore,
di quelli però che camminano con passo leggero, così leggero da non
lasciare che tenui impronte sul lungo percorso tracciato nei decenni
dalla musica. Eppure ti accorgi che esistono quando il caso ti fa
incontrare una delle loro canzoni, lasciate in giro nel corso degli anni
con garbata discrezione, come se la bellezza fragile di quelle note
potesse sciuparsi per troppi ascolti.
Non
è un caso che Fay abbia pubblicato due splendidi dischi agli inizi
degli anni '70 e poi si sia fermato, lasciando in noi solo pochi,
sbiaditi ricordi. Doveva fare altro, evidentemente, reinventarsi un
mestiere e un'identità, forse semplicemente voleva vivere, e vivere in
modo semplice, lontano dai clamori e da quello star system che quasi
sempre piega l'arte alla logica del profitto e logora chi il profitto
non lo fa. Ci sono voluti quarantun anni perchè Fay tornasse a incidere.
Forse non aveva nulla da dire o forse aspettava il momento più propizio
per poter cantare al meglio le sue canzoni.
In
fin dei conti, non è la prima volta che ci imbattiamo in musicisti per
cui la lentezza è un valore aggiunto della creatività: si pensi ai Blue
Nile di Paul Buchanan, sette anni tra un disco e l'altro, a Peter
Gabriel che in diciotto anni (dal 1992 al 2010) ha rilasciato solo tre
dischi in studio, agli Spain, tornati alla ribalta nel 2012 dopo undici
anni di silenzio, e, perché no, al grande pianista Gleen Gould, che
incise le Variazioni di Goldbergh di Bach, la prima volta, nel 1955 e poi, non soddisfatto del risultato e dopo averci riflettuto un po’ su, una seconda volta, nel 1981.
Fay,
invece, ha lasciato trascorrere quarantun anni: metà della vita di un
essere umano che vive a lungo, quasi un’eternità. Ha aspettato che il
mondo si dimenticasse di lui, che le sue belle canzoni di un tempo si
tramutassero in sbiadite icone di una stagione lontana e che lui stesso
si trasformasse in un altro uomo, con un volto diverso, un vissuto più
ricco, e un'anima che, come il buon vino, invecchiando, maturasse nei
profumi e nella struttura.
Life Is People
è il risultato di questa attesa, il frutto, probabilmente, di mille
resipiscenze. Eppure il disco, incredibilmente, suona semplice, possiede
un
andamento umorale, quasi istintuale quando alterna melodie che giocano
coi raggi del sole, per poi imbrunirsi come d'incanto sfiorate da una
crepuscolare penombra. Canzoni immediate, certo, ma non per questo
prevedibili. Anzi, vi è così tanta ricchezza compositiva, che Life Is People
bisogna assaporarlo piano, ascolto dopo ascolto dopo ascolto,
centellinando con parsimonia le fascinazioni, i rimandi, le implicazioni
emotive. Non è una questione di testa, sia ben inteso, ma di cuore.
Le
canzoni di Fay vibrano sotto pelle, gonfiano l'anima di umori,
pervadono i nostri sensi di frementi nostalgie, illanguidiscono con
tenerezze inesplicabili, inebriano di una remota, antichissima
sacralità, che è tendenza all'assoluto, forse ricerca del divino
(ascoltate la sublime preghiera di Thank You Lord, ballata in
equilibrio fra estasi e tormento) o forse, più semplicemente, sguardo
sull’infinito. Nessuna delle tredici canzoni che compongono la scaletta
del disco passa attraverso di noi senza lasciarci qualcosa, non c'è un
attimo che non risulti necessario, nulla che non finisca in qualche modo
per stordirci d'emozione. Le note fluiscono, come trasportate da un
refolo di salvifico vento, sollevate appena da un fraseggio di piano,
intuite in un lontano noise chitarristico, dipinte dai cromatismi
cangianti di un folk speziato d'America, cullate da una voce che ricorda
il tepore di un camino quando fuori il freddo percuote la pelle.
E poi, c’è quella canzone, Jesus Etc.
(cover dei Wilco, tratta da Yankees Hotel Foxtrot), che manda al
tappeto, stordendo con un deliquio di emozioni che azzera ogni tentativo
di razionalizzazione.
Fay
spoglia l'originale di ogni cromatismo pop, e cuce, con la sola trama
della voce e del piano, un’interpretazione tanto decisiva da entrare di
diritto nel breve novero delle canzoni di cui ci ricorderemo in eterno.
Così bella e struggente, che saremmo disposti ad attendere altri
quarant’anni per poterne ascoltare una uguale.
Blackswan, giovedì 11/07/2019
mercoledì 10 luglio 2019
MANNEQUIN PUSSY - PATIENCE (Epitaph, 2019)
Ve li ricordate i Mannequin Pussy agli esordi e il loro sferragliante primo album, Gypsy Pervert,
datato 2014? Ecco, se amavate quella band, sappiate che oggi molte cose
sono cambiate. Già a partire, infatti, dal secondo album, Romantic
(2016), il quartetto di Philadelphia affinava il suono e tratteneva
l’irruenza, diversificando la proposta e arricchendo il repertorio con
aperture melodiche. Non più solo punk e rabbia, ma anche rock, shoegaze e
pop.
Con
questo terzo full lenght, il primo rilasciato sotto l’egida Epitaph, la
band completa l’inversione di rotta, ribadendo che la svolta di Romantic non era solo un esperimento estemporaneo. Con Patience
siamo, quindi, di fronte a un lavoro sicuramente più maturo, in cui il
punk, non temete c’è anche quello, è diventato solo parte di
un’equazione in cui la potenza grezza e selvaggia degli esordi viene
bilanciata da piacevoli melodie pop.
Le prime due tracce di Patience sono un colpo al cuore per coloro che amavano il suono duro degli inizi: la title track e la successiva Drunk II
(qui c’è la chitarra di J Mascis ospite con un assolo dal suono
immediatamente riconoscibile) aprono il disco con effervescenze indie
rock, due belle melodie e un nostalgico retrogusto agrodolce. Fear/+/Desire,
costruita sulla sovrapposizione delle chitarre (una acustica e una
elettrica) apre a scenari shoegaze, suono sferragliante e melodia
dolcissima, mentre High Horse condensa umori romantici che
evaporano, poi, in un crescendo di mal contenuta rabbia (con una grande
prova vocale di Marisa Dabice).
Ci sono, poi, anche brani che riportano in vita la virulenza degli esordi: i due minuti di Cream
sono una fucilata punk rock, con la Dabice che santifica il pezzo con
uno screaming feroce e sguaiato, mentre i deliranti 54 secondi di Drunk I e la penultima F.U.C.A.W. sono due assalti all’arma bianca in perfetto stile At The Drive In.
Pur
senza rinnegare completamente il passato, è di tutta evidenza che oggi i
Mannequin Pussy sono decisamente un’altra band e suonano un’altra
musica. La furia punk resta, ma non è più il piatto forte della casa.
Anzi, a ben vedere, le cose migliori di questo disco, breve (ventisei
minuti di durata) ma decisamente intenso, sono i momenti più
strutturati, quelli che sfumano il veleno prediligendo la melodia, o che
alternano, all’interno della medesima canzone, diversi registri
espressivi.
Una
svolta, questa, che probabilmente non farà impazzire i rocker duri e
puri, ma che sicuramente conquisterà l’attenzione di un pubblico più
ampio.
VOTO: 7
Blackswan, mercoledì 10/07/2019
martedì 9 luglio 2019
PREVIEW
Days of the Bagnold Summer
è nato nel 2012 come un graphic novel di Joff Winterhart, è poi
diventato il film che uscirà nel 2020 e il debutto alla regia di Simon
Bird (The Inbetweeners, Friday Night Dinner), ed ora è la colonna sonora originale creata dai Belle and Sebastian in uscita il 13 settembre su Matador Records.
Con l’annuncio i Belle and Sebastian condividono il primo singolo “Sister Buddha” e il video che lo accompagna.
Trasmesso
in anteprima da Mary Ann Hobbs su BBC6 Music, il brano è accompagnato
da una chitarra melodica, da testi compassionevoli e dalla voce
crescente di Stuart Murdoch, che racconta di un protagonista alla
ricerca di una via di fuga dalla monotonia della vita quotidiana, con un
messaggio di forza e solidarietà.
Days Of The Bagnold Summer contiene undici brani inediti dei Belle and Sebastian più una versione ri-registrata dei loro classici “Get Me Away From Here I’m Dying”, contenuta in origine nell’album del 1996 If You Are Feeling Sinister, e di “I Know Where The Summer Goes” tratta da This Is Just a Modern Rock Song EP del 1998.
Quest’estate la band parteciperà in qualità di headliner ad una serie di festival, tra cui ad agosto il loro The Boaty Weekender,
una vera crociera musicale, seguito dal Pitchfork Music Festival a
Parigi nel mese di ottobre e il Primavera Weekender di Benidorm a
Novembre. Per maggiori informazioni sulle date del tour, visita: https://belleandsebastian.com/.
L’uscita del film Days Of The Bagnold Summer è prevista per il 2020 e vede la partecipazione dell’attrice vincitrice di un BAFTA Monic Dolan (Eye in the Sky, The Falling, Pride), Earl Cave (The End of the F***ing World), Rob Brydon (The Trip, A Cock and Bull Story), l’attrice, scrittrice e regista vincitrice di un BIFA Alice Lowe (Prevenge, Adult Life Skills, Sightseers), l’attrice vincitrice di un Olivier Tamsin Greig (Second Best Marigold Hotel, Tamara Drewe) e Elliot Speller-Gillot (Uncle).
Si tratta di una storia sulla maturità tenera e commovente di un
teenager amante dell’heavy metal i cui piani estivi crollano
all'ultimo secondo portandolo a dover trascorrere l’estate con la
persona che più lo infastidisce: sua madre.
Blackswan, martedì 09/07/2019
lunedì 8 luglio 2019
JADE JACKSON - WILDERNESS (Anti-, 2019)
È
cresciuta nella cittadina di Santa Margherita, in California,
appassionandosi fin da subito alla musica e ascoltando i dischi di papà.
Ed ha iniziato molto giovane a suonare la chitarra e a scrivere
canzoni, esibendosi in tanti locali della zona. La solita routine,
insomma, di un musicista che cerca di sfondare, tirando la cinghia in
una lunga gavetta che, spesso, non porta da nessuna parte. Lei, però, ha
tenuto duro, fino a quando il fato le ha messo in mano un bel poker
d’assi. Durante un suo concerto pomeridiano in una caffetteria di Los
Angeles, infatti, erano presenti la moglie e il figlio di Mike Ness,
leader del gruppo punk rock dei Social Distortion. I due sono rimasti
talmente impressionati dal la bravura della songwriter, che hanno voluto
assolutamente metterla in contatto col loro padre e marito. È stato
amore a primo ascolto e Ness ha preso Jade sotto la sua ala protettrice e
messo mano alla produzione di Gilded, esordio del 2017 pubblicato per
la Anti Records.
Due
anni dopo quel chiacchierato primo disco, ecco Wilderness, sophomore
nuovamente pubblicato sotto l’egida Anti e sempre con la produzione di
Mike Ness, che evidentemente sta scommettendo molto sulla sua pupilla,
per farla diventare una delle figure di riferimento del country rock
americano.
Il
nuovo full lenght si pone come il seguito ideale di Gilded, anche se,
rispetto all’esordio, palesa una maggior consapevolezza in fase di
songwriting e di suono, e sposta verso ambiti più personali le liriche.
Con questo disco, infatti, la Jackson si concentra sul proprio passato e
su quell’incidente che stava per renderla disabile: parla del dolore,
della solitudine della sofferenza, ma anche del fatto che ogni essere
umano è pieno di risorse, indispensabili per affrontare la vita. Un po’
come essere smarriti nella natura selvaggia (Wilderness del titolo): ci
vuole coraggio, forza d’animo, caparbietà, perché la fuori è solo lotta
per la sopravvivenza che non fa sconti.
In
molti hanno paragonato la Jackson a Lucinda Williams, visto che sa
plasmare la materia country con un grintoso piglio rock, esaltato, anche
in questo caso, dalla produzione di Ness. La songwiter californiana,
poi, possiede anche uno spiccato gusto per la melodia che, talvolta,
lambisce il pop, creando brani che filano dritti tra le heavy rotation
delle radio FM specializzate (il singolo Bottle It Up, per dire, è
un’irresistibile goduria).
Le
diverse componenti, è questo che rende la Jackson un’autrice da seguire
con estremo interesse, convivono in perfetto equilibrio e sono
bilanciate all’interno di una scaletta, in cui orecchiabilità, sonorità e
strumenti propri del country ed energia rock sono bilanciate in egual
misura. Sono tante le belle canzoni di Wilderness, oltre al singolo
citato, che apre il disco: il tiro diretto di City Lights e Now Or Ever,
con la sezione ritmica in bella evidenza, la croccantezza punk rock
della title track, il groove potente della conclusiva, amara, Secret, e
tre ballate da capogiro, Dust, Long Way Home e Loneliness, quest’ultima
che vale da sola il prezzo d’acquisto dell’album.
Se
il brillante esordio del 2017 fa aveva messo sotto i riflettori Jade
Jackson come possibile nascente stellina del movimento country rock,
questo Wilderness trasforma la speranza in concreta certezza, grazie a
un connubio, quello con Mike Ness che, nato per caso due anni fa, sembra
frutto di una collaborazione di lunghissima data. Simbiosi perfetta.
VOTO: 8
Blackswan, lunedì 08/07/2019
sabato 6 luglio 2019
PREVIEW
Grazie al loro debut album "Live For The Moment" del 2017 il quartetto di Sheffield THE SHERLOCKS
si è affermato come una delle band di riferimento della nuova scena
inglese alt-rock e indie, debuttando al n° 6 dell classifiche e che li
ha portati ad aprire il tour europeo di Liam Gallager, fino ad arrivare a suonare insieme a lui anche in Giappone.
Ora la band è pronta per iniziare un nuovo capitolo della propria carriera con l'annuncio della pubblicazione del nuovo album "Under Your Sky" in uscita il 4 ottobre via Infectious/BMG.
Se "Live For The Moment" era uno squarcio sulle sofferenze della gioventù, il nuovo disco vede il frontman Kiaran Crooke scrivere canzoni che collegano l'esuberanza dei giovani con la maturità e l'aspetto più riflessivo di una età più adulta.
Questo nuovo approccio si riflette perfettamente nel primo singolo "NYC (sing it Loud)" che è stata trasmessa in anteprima da Annie Mac a Radio 1, “I wanna see the world with you,” canta Kiaran, immaginando di “getting lost in the city for a day”.
Questo nuovo approccio si riflette perfettamente nel primo singolo "NYC (sing it Loud)" che è stata trasmessa in anteprima da Annie Mac a Radio 1, “I wanna see the world with you,” canta Kiaran, immaginando di “getting lost in the city for a day”.
Le canzoni nascono dalle esperienze personali, per la maggior parte di Kiaran, ma sono universali sul piano emotivo: "The
driving ‘I Want It All’ reminisces over a gloriously stormy festival
weekend in Wales, along with other memorable moments I spent with a
special someone. Then the Springsteen-tinged ‘Time To Go’ celebrates the
more casual romantic encounter.".
Sebbene ci siano canzoni che toccano i temi della disperazione, della perdita di ambizioni, come in 'Dreams', o i vari delicati aspetti delle relazioni amorose, come in 'Waiting', Kiaran affronta temi legati anche alle persone che vivono nelle sua città sempre in maniera malinconica, ma lasciando intravedere un futuro più positivo e in cui sperare.
Sebbene ci siano canzoni che toccano i temi della disperazione, della perdita di ambizioni, come in 'Dreams', o i vari delicati aspetti delle relazioni amorose, come in 'Waiting', Kiaran affronta temi legati anche alle persone che vivono nelle sua città sempre in maniera malinconica, ma lasciando intravedere un futuro più positivo e in cui sperare.
Il processo di registrazione di "Under Your Sky" è stato decismente più strutturato rispetto al loro debut album: hanno trascorso 4 mesi, 5 giorni a settimana, nei Liverpool’s Parr Street Studios, con The Coral’s James Skelly alla produzione.
"Under Your Sky"
sarà disponibile in digitale, cd, vinile e formato cassetta e ci sarà
anche un'edizione limitata in vinile blu con un artowrk inedito.
Blackswan, sabato 06/07/2019
venerdì 5 luglio 2019
THE RACONTEURS - HELP US STRANGER (Third Man Records, 2019)
Alla
fine, come fai a non voler bene a Jack White? Lo so, quando ha sciolto i
White Stripes, ci ha fatto un gran male, lasciandoci orfani di una band
che aveva riempito con dischi straordinari i nostri ascolti per circa
un decennio. Però, poi, si è fatto perdonare e non ci ha mai lasciati
soli. In sei anni, dal 2012 al 2018, ha pubblicato tre album solisti, e
nel frattempo si è dato da fare, oltre che come produttore discografico
(sua la Third Man Records sotto la cui egida esce questo Help Us Stranger),
anche con due creature parallele, i Dead Weather e, appunto, i The
Raconteurs, giunti con questo nuovo album alla terza prova in studio.
Se
è vero che White ha spesso ibridato la propria musica, proponendo una
formula alternative di blues e pescando a piene mani anche da garage,
rock, pop e country, spingendosi, talvolta, fino ai confini di un
ecclettismo fantasioso e imprevedibile (si pensi al recente Boarding House Reach), con Help Us Stranger
il chitarrista di Detroit torna a un suono più diretto, per certi versi
anche basilare, che non ammette altre definizioni se non quella di
rock.
Un
rock classico, anzi classicissimo, che guarda agli anni ’60 e ’70, che
si esprime, talvolta, attraverso una cangiante psichedelia, e che
dispensa a piene mani quei riff di chitarra che sono l’essenza stessa
del genere. Eppure, questo nuovo disco non si limita a riesumare
sonorità consunte e datate: non c’è, infatti, un solo attimo in scaletta
in cui trionfi la nostalgia o la musica debordi nell’anacronismo.
White, su questo non c’è dubbio, è un manipolatore capace di
rivitalizzare qualunque cosa tocchi (il blues garagista dei White
Stripes, piaccia o meno ai puristi, è riuscito ad appassionare al genere
tantissimi giovani), e basta ascoltare anche poche canzoni di questa
nuova fatica dei The Raconteurs, per rendersi conto di quanto nelle sue
mani (e in quelle di Brendan Benson, altro cervello pensante del gruppo)
l’anticaglia rock delle discografie dei nostri padri torni a rilucere
di nuova brillantezza.
Help Us Stranger
è un disco vitale, esuberante perfino, e, cosa che non guasta,
appassionato. Insomma, si sente che in studio, questi quattro ragazzi
non si stavano limitando a incidere un disco, ma si stavano proprio
divertendo. E poi, ci sono le canzoni, che nonostante siano figlie di
un’evidente immediatezza e guardino al sodo, possiedono comunque
un’estetica curata, glamour e giovanilistica.
L’opener Bored And Razed
introduce alla festa in un clima fortemente seventies, ed è tutto un
mulinare di braccia sulla chitarra in stile Pete Townshend prima di
partire a cento all’ora cavalcando un riff acidissimo. La title track
è rock psichedelico nella miglior tradizione sixties, e sfoggia uno
splendido suono di chitarra e una linea ritmica che pulsa su goduriose
percussioni. Un inizio solare, pimpante e aggressivo, che si adagia sui
tre minuti e mezzo di Only Child, morbida ballata dagli psichedelici echi beatlesiani, e ripartire poi con Don’t Bother Me e Shine The Light On Me, due gioiellini che sembrano presi dal repertorio dei primi Queen.
L’arrembante blues di Hey Gyp (Dig The Slowness), clonata dal repertorio di Donovan, viene irrobustita da una potentissima linea di basso, mentre Sunday Driver
si sviluppa su un riff dal tiro pazzesco, si bagna le mani nella
psichedelia e riparte potentissima facendo vibrare le casse dello
stereo.
Live A Lie, poi, è una tirata sferragliante di urgenza punk e What’s Yours Is Mine aggredisce alla gola con un filotto di riff gagliardi, in un saliscendi di rallenti e accelerazioni da cardiopalma. Chiude Thoughs And Prayers,
ballata marchiata dal sacro fuoco dagli anni ’70, attraversata da echi
psichedelici e dallo splendido suono di un violino che evoca scenari
celtici.
Un
disco, quindi, perfettamente riuscito, che riporta il genere ai livelli
di espressività artistica che merita. Per cui, se siete stufi di
sentirvi dire che il rock è morto e la chitarra elettrica pure, Help Us Stranger è il disco che fa per voi.
Bel colpo, Mr. White!
VOTO: 8
Blackswan, venerdì 05/06/2019
giovedì 4 luglio 2019
PREVIEW
“Nelle
profondità del nostro Mondo giace una forza straordinaria. In pochi
sono consapevoli della grandezza e del significato di questo luogo, un
luogo dove bene e male, luce e oscurità, speranza e disperazione,
perdita e guadagno, beatitudine e tormento esistono contemporaneamente e
ci attirano a loro in ogni momento della nostra vita”, commenta Jonathan Davis parlando del nuovo album. “Non
è un luogo che possiamo visitare, si tratta piuttosto di una
sensazione, della consapevolezza di essere circondati in ogni momento da
questa ‘presenza’, come se qualcuno osservasse ogni istante della
nostra vita. È il luogo in cui le energie di bianco e nero si attaccano
alle nostre anime e modellano le nostre emozioni, le nostre scelte, la
nostra prospettiva e, in definitiva, la nostra stessa esistenza. In
mezzo a questo vortice esiste un piccolo luogo meraviglioso, l’unico
posto in cui tutte queste forze sono in equilibrio, l’unico posto in cui
l’anima trova rifugio. Benvenuti a… THE NOTHING”.
“The Nothing” è disponibile da oggi in pre-order (https://lnk.to/kornthenothing). Prodotto da Nick Raskulinecz, vincitore di un GRAMMY®, “The Nothing” arriva dopo “The Serenity Of Suffering”.
Pubblicato nel 2016, l’album ha avuto un grandissimo successo : ha
debuttato alla posizione #4 nella classifica Billboard 200, alla
posizione #1 nelle classifiche Top Rock Albums e Hard Rock Albums, alla
posizione #3 nella classifica Current Albums e che ha fatto guadagnare
ai KORN una nomination ai GRAMMY® con il singolo “Rotting In Vain”.
I KORN
hanno cambiato il mondo con la pubblicazione del loro omonimo album di
debutto nel 1994. È stato l’album che li ha consacrati come pionieri di
un genere diventando così la band di riferimento per un nuovo movimento
culturale. Come ha sottolineato The FADER: “I KORN sono diventati la colonna sonora di un’intera generazione”.
Dalla loro formazione i KORN hanno venduto più di 40 milioni di album, vinto due GRAMMY®,
suonato in tutto il mondo un numero incalcolabile di concerti e
stabilito più record di quanti era possibile immaginare. Il cantante Jonathan Davis, i chitarristi James “Munky” Shaffer e Brian “Head” Welch, il bassista Reginald “Fieldy” Arvizu e il batterista Ray Luzier,
hanno continuato a spingersi oltre i limiti della musica rock,
alternative e metal, diventando fonte di ispirazione per legioni di fan e
generazioni di musicisti. Il livello raggiunto dai KORN
va oltre le onorificenze e le certificazioni. La band rappresenta un
nuovo archetipo e la vera innovazione; la sua abilità di trascendere i
generi rende le barriere irrilevanti.
Blackswan, giovedì 04/07/2019
mercoledì 3 luglio 2019
BLACK PUMAS - BLACK PUMAS (Ato Records, 2019)
Quello
dei Black Pumas, lo dico senza timore di prendere una cantonata, è
sicuramente uno degli esordi più convincenti dell’anno in corso, ed è
davvero strano che di questa band, al momento, si siano accorti in
pochi.
I
Black Pumas arrivano da Austin, Texas, e sono un progetto messo in
piedi dal cantante Eric Burton (con la T, fate bene attenzione) e da
Adrian Quesada, songwriter, chitarrista, produttore e vincitore di un
Grammy Award con la band di provenienza, i Grupo Fantasma. Il sodalizio
fra i due è stato poi arricchito dalla presenza di alcuni sessionisti
locali, con i quali questo full lenght è stato registrato.
Ecco,
in poche parole, la genesi di una band, la cui musica pesca a piene
mani dal r’n’b’ e dal soul, senza disdegnare però qualche incursione
rockista e qualche pennellata dalle sfumature psichedeliche. In
scaletta, dieci canzoni evidentemente ispirate al classico suono Motown,
alla musica del grande Curtis Mayfield e, a cagione del timbro vocale
di Burton, con richiami anche a Steve Winwood e Ray Charles. Un
approccio molto classico, quello dei Black Pumas, ma rinfrescato da un
suono scintillante e da arrangiamenti davvero efficaci, che tolgono la
polvere dai solchi con una passata di intrigante modernità.
Si parte con Bad Moon Rising,
ballata agrodolce cantata meravigliosamente da Burton: è Motown al
100%, mood appassionato da cuore in mano, hammond a tirare a lucido la
melodia, tensione palpabile in una voce che sfiora spesso il falsetto e
il cuore dell’ascoltatore. La successiva Colors è un altro
gioiellino che dimostra quanto i Black Pumas siano bravi a rileggere con
modernità il suono classico. La chitarrina che apre il brano è da
sballo, fa pensare per un attimo a Manu Chao, poi la canzone si gonfia
lentamente di umori gospel, con Burton che duetta con un coro di voci
femminili fino a un assolo per piano elettrico che stende per il
definitivo ko. Canzone spettacolare, da riascoltare dieci volte di fila,
anche per cogliere il lavoro prezioso fatto in fase di arrangiamento.
Il leit motiv del disco è decisamente il groove, a volte estremamente ammiccante e seducente, come nella citata Colors o nella successiva Know You Better, sensuale ballatone soul strappamutande, in altri casi, invece, decisamente potente, come avviene nell’ottima Fire, chitarra riverberata, ritmica quadrata ed echi blaxploitation.
I
Black Pumas, però, dimostrano anche di possedere quel quid di
versatilità in più, grazie al quale riescono a scartare dalla narrazione
principale con digressioni talvolta sorprendenti. La chitarra acustica
apre l’intensa e struggente OCT 33, ed inevitabilmente la melodia agrodolce richiama alla mente Van Morrisson. Confines e Touch The Sky,
pur mantenendo l’ossatura soul, risultano maggiormente al rock, quando,
in entrambi gli episodi, spunta una chitarra graffiante, scarna,
essenziale, che suona poche note, tutte decisive, e che, se non fosse
una follia scriverlo, richiamerebbe alla mente lo stile di Neil Young.
Chiude la scaletta Sweet Conversations,
chitarra acustica, ritmica scheletrica, atmosfera psichedelica, e mood
confessionale, nel quale Burton canta i dolori della propria anima (“If I’m lost in my darkness with my soul on the pavement/ Won’t you speak with me spirit”).
Un
esordio coi fiocchi, quindi, e un album che, pur possedendo un suono
molto classico, sa mescolare con modernità le carte, riuscendo con
eclettismo a tenersi lontano dal prevedibile. Coloro che non più tardi
dello scorso anno si erano perdutamente innamorati del disco di
Fantastic Negrito, con i Black Pumas troveranno nuovi motivi per essere
felici. Consigliatissimo.
VOTO: 8
Blackswan, mercoledì 03/07/2019
Iscriviti a:
Post (Atom)